Dal 4 maggio torneremo a spostarci con più libertà. Non dovunque sia chiaro: i trasferimenti interregionali saranno ancora inibiti per qualche tempo. Molte attività non riapriranno, i nostri figli non torneranno a scuola, saremo obbligati, con grande probabilità, ad indossare dispositivi di protezione per accedere ai supermercati o ai mezzi pubblici.
Il Covid-19 ha annientato molte delle libertà e dei diritti costituzionali con cui abbiamo familiarità: la libertà di spostarsi liberamente, la libertà di riunirsi, la libertà di fare impresa, il pieno diritto allo studio e, finanche, quello alla salute per certi versi.
Negli ultimi due mesi abbiamo accettato con grande sacrificio, ma altrettanta abnegazione che ogni nostra libertà fosse compressa per un periodo di tempo limitato in nome di un bene superiore, quello della collettività alla salute pubblica.
Chi scrive non ricorda accese polemiche sulla proporzionalità delle misure adottate, ad esempio, se un lock down totale avesse senso anche per posti in cui, dall’inizio dell’epidemia, non si è registrato un solo caso di Covid-19. Era ed è giusto così: in uno stato democratico e forte, ci si fida – in particolare in una situazione di dichiarata emergenza – delle decisioni governative, perché vigilate dal Parlamento e perché, in ultima istanza, offerte al giudizio degli elettori nel silenzio della cabina elettorale.
In uno stato democratico e forte, inoltre, si usano – anche in una situazione di dichiarata emergenza – gli strumenti del diritto e si usano le giurisdizioni per correggere provvedimenti non legittimi.
Privacy uber alles?
Tutto quello che avete appena letto, non vale per quel microcosmo tecno-elitario che ruota intorno alla sacra religione della “privacy uber alles”.
Chi legge Agendadigitale.eu sa quanti articoli siano stati pubblicati nelle ultime settimane sulla fantomatica app di “contact tracing” Immuni che dovrebbe, nelle intenzioni dei proponenti, rappresentare un tassello di quel percorso fatto di 3T (Test, Trace, Treat) che l’organizzazione mondiale della sanità propone per la lotta alle pandemie (ci perdoneranno i medici per la semplificazione).
Sul tema si sono pronunciati davvero tutti, in quella che ormai assume le sembianze di una psicosi collettiva: per fortuna la collettività di riferimento è assai ristretta sebbene così autoreferenziale da percepirsi come maggioranza.
Sia chiaro, non si vuole sminuire la portata della questione ma solo restituirle la giusta collocazione: in un mondo in cui da più di 40 giorni siamo tutti (o quasi) reclusi in casa, forse occorrerebbe interrogarsi sulla compressione (in essere) di altre libertà costituzionali, piuttosto che su una futura, ipotetica, compressione del diritto alla riservatezza.
App Immuni (e simili), sappiamo ancora troppo poco
Avete letto bene: futura ed ipotetica. Perché si è scritto tanto, ma si sa molto poco.
Non sappiamo praticamente nulla dell’APP Immuni e quel poco che ci viene distillato (ieri, finalmente, un salvifico chiarimento dal Ministero dell’Innovazione Tecnologica e della Digitalizzazione ha posto termine al dibattito “sarà open source? Deve essere open source!”) dovrebbe rassicurare più che inquietare.
C’è, però, un punto, davvero vitale, su cui soffermarsi, un punto che non è soltanto italiano ma europeo, di un’Europa che, in questa emergenza sanitaria, in fatto di privacy pare, metaforicamente (come una novella Maria Antonietta), occuparsi delle brioche mentre è il pane che sta per mancare.
Tutti i documenti comunitari finora rilasciati (dalla Commissione al Parlamento Europeo, alle linee guida dell’EDPB) sono chiari: l’app, raccomandano, non dovrebbe essere imposta, sebbene la base giuridica legittimante il trattamento dei dati possa in questo caso, ai sensi del GDPR, non essere il consenso.
Il nonsense della volontarietà
Tradotto: app per il contact tracing sì, ma la installi chi se la sente.
Qui allora il parallelismo con gli altri diritti fa tremare le gambe: limite agli spostamenti sì, ma su base volontaria. Negozi chiusi sì, ma solo per chi decide di farlo. Scuole chiuse sì, ma solo quelle pubbliche, le private stiano pure aperte.
Vi sembrerebbe sensato? Certamente no e il motivo è semplice: o quelle misure hanno una reale efficacia nel contenimento del virus (e allora tutti le devono rispettare obbligatoriamente), oppure non sono così importanti e allora ognuno interroghi la propria coscienza e faccia come crede.
Le autorità comunitarie e quelle nazionali dovrebbero, allora, assumersi la responsabilità politica e pronunciarsi chiaramente: si pensa che quest’app serva a qualcosa nella lotta al Covid-19, oppure no? Perché se la soluzione è all’acqua di rose, finirà per essere non solo inutile, ma addirittura dannosa.
Inutile, perché quei pochi che la installeranno (bontà loro) non saranno in grado di produrre alcuna esternalità positiva nella lotta al virus, dannosa perché i medesimi si sentiranno “immuni” e, dunque, abbasseranno la guarda sulle altre misure di contenimento.
Piuttosto che sentirci sollevati dalla volontarietà (nessuno toccherà la mia privacy!), dovremmo preoccuparci e pretendere che l’app sia il più possibile utile ed efficace nella lotta al Covid-19. Questo è possibile con le tecnologie a nostra disposizione nel 2020 e questo è in primis ciò che dovremmo pretendere come cittadini.
In assenza di tutto questo, l’adozione non dovrebbe essere né obbligatoria né volontaria. Viene il sospetto, allora, che, a Bruxelles come a Roma, si abbia l’intima convinzione che lo strumento non sia in grado di avere alcuna efficacia nella lotta alla pandemia e così lo si proponga ben sapendo che non funzionerà, ma che si potranno scaricare le responsabilità sui cittadini che non lo avranno adottato a sufficienza.
Ulteriore criticità che forse, subdolamente, si cerca di ovviare in questo modo è che se l’app fosse obbligatoria, e quindi i volumi di adozione fossero molto elevati, il sistema sanitario farebbe presumibilmente difficoltà a garantire tutti i test necessari e questo scatenerebbe grande conflittualità e confusione.
Conclusioni
Il dilemma resta, dunque, quello di sempre: cosa è veramente nell’interesse del cittadino? Difenderne asetticamente i diritti senza rischiare nulla, oppure pretendere scelte, motivate e verificabili, che abbiano l’ambizione di risolvere davvero i problemi (o almeno provarci), anche pagando in parte pegno, temporaneamente, con misure proporzionate e adeguate, per raggiungere il risultato? Un grande politico italiano, passato a miglior vita, era solito dire che “alle volte occorre essere impopolari, per non essere antipopolari”. Temiamo che in questo frangente le nostre istituzioni abbiano, invece, scelto, come spesso accade, di essere popolari. Ebbene, ad avviso di chi scrive, questo è un lusso che nel gestire una pandemia il nostro governo non si può e non si deve concedere.