A proposito delle “certificazioni verdi” o green pass, si continua a ripetere da settimane: “meno privacy ma più libertà”.
Accade nei dibattiti televisivi, sui giornali, in Parlamento, sui social e in convegni ed eventi più o meno scientifici.
E nei giorni scorsi la stessa espressione è autorevolmente riecheggiata persino nel Palazzo della Consulta per bocca del Presidente della Corte Costituzionale, Giancarlo Coraggio.
L’espressione, naturalmente, suggerisce che le certificazioni verdi rappresentino una necessaria parziale rinuncia alla privacy necessaria alla progressiva riconquista della libertà di movimento e, magari, progressivamente di altre libertà.
Privacy e libertà/economia non sono antagonisti
Si tratta, però, di un’espressione fuorviante, protagonista di una narrazione che muove da un grossolano errore di prospettiva che, a prescindere dalla vicenda specifica, minaccia di far passare il diritto alla privacy per quel che non è, proponendone ai cittadini un’immagine distorta quasi si trattasse dell’antagonista delle libertà delle quali, oggi, dopo oltre un anno di lockdown, confinamento, vite sospese, avvertiamo tutti più forte la necessità, il bisogno, l’urgenza.
A maggio il green pass covid? Il Governo la fa troppo facile: ecco tutti gli ostacoli
Perché, naturalmente, se l’espressione sintetizzasse fedelmente la situazione, la narrativa della quale è protagonista fosse corretta e si trattasse effettivamente di scegliere tra privacy e altre libertà, milioni di cittadini non esiterebbero neppure un istante a immolare la loro privacy sull’altare della ripresa economica, delle riaperture, della libertà di movimento, delle vacanze prossime venture.
E a bollare la privacy come un inutile fastidio, un orpello burocratico, una zavorra sacrificabile.
Il punto però è che nella vicenda delle certificazioni verdi questo antagonismo tra privacy e libertà di movimento semplicemente non esiste.
Chi lo propone o non conosce i termini della questione o, peggio, finge di non conoscerli perché insofferente all’idea – che è però alla base della nostra democrazia – secondo la quale a un cittadino non bisognerebbe mai chiedere di scegliere tra due diritti fondamentali specie quando non è affatto necessario, non serve, non è strumentale al raggiungimento dell’obiettivo.
Forse inutile ripetere l’ovvio: non esistono diritti tiranni autorizzati o autorizzabili a travolgerne altri pari-ordinati, non hanno semplicemente cittadinanza nel nostro ordinamento.
Vale allora la pena provare a spiegare come stanno le cose che sono più semplici di come le si rappresenta.
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Parleremo di Green Pass, una sfida che è solo agli inizi e che già presenta interrogativi fondamentali.
Come funzionerà? Quali saranno le possibili criticità a livello organizzativo e tecnologico?
La ripartenza deve obbligatoriamente passare per un rethinking focalizzato sul Digital e diritti privacy: il Green Pass sarà il primo terreno di prova per un Paese che ha bisogno estremo di soluzioni innovative, per uscire dalla crisi ma soprattutto per affrontare poi la nuova normalità.
I problemi dei dati nel green pass, cosa chiede il Garante PRivacy
Il Governo con il Decreto Legge di fine aprile ha identificato nelle “certificazioni verdi” uno degli strumenti per il progressivo ritorno alla normalità, a cominciare dalla libertà di movimento anche tra regioni a rischio contagio elevato.
L’ottenimento della certificazione verde è subordinato, stando alle regole dettate da Palazzo Chigi, alla circostanza che il cittadino si trovi in una qualsiasi di tre condizioni pure identificate nel decreto: aver completato il ciclo vaccinale, aver contratto il virus, esserne usciti e sviluppato gli anticorpi o aver fatto un test ed essere risultati negativi.
Si tratta di tre condizioni equivalenti, ne basta una per aver diritto alla certificazione verde.
Lo stesso decreto legge, tuttavia, prevede che la certificazione verde, tanto nella versione cartacea tanto nella versione digitale, contenga – o renda comunque accessibile a chi sarà a chiamato a chiederne l’esibizione ai cittadini – una descrizione analitica della specifica condizione che ha consentito l’ottenimento della certificazione.
Basta leggere il provvedimento con il quale il Garante per la protezione dei dati personali nelle scorse settimane ha avvertito il Governo della potenziale illegittimità dei trattamenti di dati personali sottesi all’implementazione delle certificazioni verdi implementate come descritto nel decreto per rendersi conto – ogni ragionevole dubbio si direbbe in Tribunale – che non si è detto al Governo che la privacy impedisce la realizzazione del progetto ma più semplicemente che il progetto delle certificazioni verdi deve essere realizzato senza chiedere inutilmente ai cittadini di rinunciare alla loro privacy per tornare a spostarsi più liberamente.
Nessuna esigenza di rinunciare alla sacrosanta libertà di movimento in nome della privacy ma semplicemente l’esigenza di fare in modo – tanto più che oggi le tecnologie lo consentono – di contemperare due diritti pari ordinati e di non imporre ai cittadini di scegliere di rinunciare a un po’ dell’uno, in vista dell’esercizio di un po’ dell’altro.
Esattamente il contrario di quanto suggerisce quella fastidiosa espressione con la quale, da settimane, si riassume la vicenda: meno privacy, più libertà.
Il Garante, nel suo provvedimento, ha semplicemente segnalato al Governo che sul certificato verde dovrebbe essere riportata solo l’informazione sintetica relativa alla circostanza che il cittadino si trovi in una qualsiasi delle condizioni – identificate dallo stesso Governo – che gli consentono di muoversi liberamente con un rischio di contagio limitato per sé e per gli altri.
In un sistema come quello disegnato dal Governo nel quale essere vaccinati, aver sviluppato gli anticorpi a seguito di contagio e guarigione o aver fatto un test sono condizioni equivalenti di presunta immunità, infatti, non serve che le decine di migliaia di persone che ci chiederanno l’esibizione della certificazione verde sappiano se abbiamo fatto il vaccino, quale vaccino, quando o se abbiamo avuto il Covid o fatto un tampone.
Tutto qui.
Come risolvere il nodo privacy
Sarebbe sufficiente disegnare in maniera diversa da come ipotizzato sin qui le certificazioni verdi e non sarebbe necessario chiedere a nessun cittadino di rinunciare a un po’ della propria privacy, in cambio di un po’ della propria libertà di movimento.
Non c’è nessun antagonismo tra la privacy e la libertà di movimento nel caso delle certificazioni verdi o, almeno, è enormemente attenuato rispetto a come continua a essere rappresentato nella dimensione politica e in quella mediatica.
Per il resto il Garante si è limitato a ricordare a Palazzo Chigi che il decreto legge avrebbe dovuto contenere – perché tanto richiede la disciplina europea della materia e, quindi, tanto impone il principio di legalità – una serie di disposizioni che stabilissero chi farà cosa, per quanto tempo e per quali finalità dei dati sanitari di milioni di cittadini.
Sembra davvero una questione di buon senso prima ancora che di diritto specie in considerazione dell’enorme valore dei dati in questione e della circostanza che, se non correttamente utilizzati, potrebbero dar luogo a trattamenti discriminatori capaci di minare alla radice la nostra democrazia e i valori nei quali si riconosce.
Ma niente di tutto questo, in tutta onestà, sembra suggerire un antagonismo tra privacy e libertà di movimento: si può avere l’una e l’altra, non serve rinunciare all’una per esercitare l’altra.
Se poi si vuoi dire che l’antagonismo esiste perché il necessario rispetto del diritto alla privacy di milioni di cittadini impedisce l’implementazione del progetto delle certificazioni verdi con le modalità e nei termini nei quali è stato originariamente pensato e immaginato, allora, il discorso è diverso.
Ma, in questo caso, l’antagonismo non è tra due diritti e due libertà egualmente importanti e, anzi, fondamentali ma tra gli strumenti che si scelgono di utilizzare per garantirne uno, ignorando o, almeno, ridimensionando l’altro senza che sia necessario.
Non serve davvero, è diseducativo, va nella direzione opposta rispetto a quella nella quale abbiamo un disperato bisogno di andare dividere il Paese, a ogni livello, tra contrapposte tifoserie che sventolano bandiere con su scritto il nome di diritti – la privacy e la libertà di movimento o il diritto alla salute o, ancora, la libertà di impresa – che trovano posto l’uno accanto all’altro nella Carta Fondamentale dei diritti dell’Unione europea e nella nostra Costituzionale e che non sono e non hanno ragione di essere rivali.
Tocca a noi, ciascuno nel proprio ruolo nelle istituzioni, nella società, nel nostro Paese, fare in modo che un cittadino non debba trovarsi costretto a scegliere tra due diritti fondamentali o due libertà quando non serve, non è necessario ed è facilmente evitabile semplicemente ponendosi il problema e risolvendolo con soluzioni tecnologiche e di processo agevolmente implementabili.