Le autorità israeliane farebbero uso di applicazioni installate sui propri dispositivi per identificare cittadini palestinesi per strada o durante i raid domestici. Successivamente, tali immagini verrebbero registrate in un database centrale e scansionate con appositi software, come l’app scaricabile sui cellulari Red Wolf, il quale utilizzerebbe un sistema di codici di colore verde, giallo e rosso per indentificare il soggetto e, di conseguenza, stabilire se lasciarlo andare, interrogarlo o arrestarlo.
Lo denuncia un report pubblicato da Amnesty International ad aprile 2023, intitolato Automated Aparheid. How facial recognition fragments, segregates and controls palestinians in the OPT.
Riconoscimento facciale e apartheid
A parere di Amnesty International, ciò rappresenterebbe un nuovo approccio nell’automatizzare il controllo dei confini interni che separano israeliani e arabi, alimentando così il divario tra i due popoli e la violenza contro un gruppo etnico.
Secondo quanto affermato nel report, non sarebbe la prima volta che i palestinesi di Hebron e di Gerusalemme Est siano sottoposti a tecnologie di sorveglianza sperimentali e dannose. Nelle due città, infatti, questi subirebbero da anni violazioni dei propri diritti attraverso misure legali e militari che, sempre a parere di Amnesty International, contribuirebbero a mantenere il sistema di apartheid ivi presente. Le minacce ai diritti umani del popolo palestinese, documentate per anni dalla ONG, si sarebbero intensificate nell’ultimo periodo in conseguenza dell’utilizzo di nuove strumentazioni tecnologiche.
Riconoscimento facciale come strumento di oppressione
L’intento del report è, perciò, quello di vagliare le modalità di utilizzo della tecnologia di riconoscimento facciale (FRT) come strumento di oppressione: nello specifico, vengono esaminati i casi di Hebron e Gerusalemme Est, le uniche due città della Cisgiordania con insediamenti israeliani all’interno dei loro confini.
Nella ricerca e raccolta delle testimonianze, Amnesty International è stata affiancata dall’associazione israeliana Breaking the Silence, fondata nel 2004 da veterani delle Forze di Difesa israeliane (IDF) al fine di condividere le loro personali esperienze nei Territori Occupati. Relativamente alla tecnologia che viene utilizzata per il riconoscimento facciale, l’organizzazione ha sottolineato come il sistema di “smart city” adottato ad Hebron rappresenti un “ulteriore deterioramento delle modalità di controllo dei palestinesi”, attuato attraverso strutture di sorveglianza fisica. Tra queste vi sarebbero: torri di sorveglianza, solitamente caratterizzate da più di quattro telecamere; dispositivi di rilevamento del rumore ambientale e telecamere a lungo raggio posizionate nelle principali arterie della città; posti di blocco dotati di telecamere in grado di effettuare il riconoscimento facciale, nonché telecamere di sorveglianza posizionate sugli edifici, con ampi raggi di monitoraggio.
Le testimonianze
Una testimonianza rilasciata a Breaking the Silence da un comandante israeliano a Hebron, successivamente confermata in modo indipendente da due operatori militari della zona, ha permesso di comprendere la sorveglianza di massa condotta tramite il software Red Wolf. Secondo quanto dichiarato, si starebbe lavorando per fare in modo che il sistema possa iniziare a riconoscere volti appartenenti ad una determinata etnia, ancora non identificati, senza l’intervento umano.
I ricercatori di Amnesty International hanno effettuato osservazioni sul campo anche nella Città Vecchia di Gerusalemme Est, nella quale sono stati rilevati diversi prodotti con marchio TKH Security, azienda olandese specializzata nello sviluppo di sistemi elettronici intelligenti per la sicurezza. Tra questi, sarebbe stata identificata una telecamera a proiettile prodotta dell’azienda e situata su un’infrastruttura gestita dalla polizia israeliana nei pressi della Porta di Damasco, lungo il muro del centro storico.
Sul posto, sono stati identificati anche prodotti realizzati da Hikvision, aziende cinese realizzatrice di telecamere di sorveglianza.
Sebbene le autorità israeliane adducano motivi di sicurezza interna come giustificazione a tali controlli, essi sarebbero condotti su base etnica e sarebbero sproporzionati ai sensi della disposizione, prevista dal diritto umanitario internazionale. Nello specifico, in nessun caso le persone private della libertà per motivi legati alla situazione di occupazione possono essere private delle norme minime consuetudinarie garantite dall’articolo 75 del Protocollo I, e tali diritti devono essere garantiti senza alcuna distinzione negativa basata su razza, colore, sesso, lingua, religione o convinzioni personali, opinioni politiche o di altro tipo, origine nazionale o sociale, ricchezza, nascita o altro status, o su qualsiasi altro criterio simile.
Strumenti di sorveglianza di massa incompatibili con il diritto alla privacy
I posti di blocco esistenti nei Territori Occupati negherebbero ai palestinesi il ricorso all’assistenza sanitaria, al lavoro, all’istruzione, alla vita familiare e alla libertà di riunione pacifica.
Data la pervasività di questi trattamenti esclusivamente nei confronti degli arabi, sarebbe altresì presente una violazione del diritto all’uguaglianza e alla non discriminazione. Il riconoscimento facciale minaccerebbe le libertà delle comunità maggiormente a rischio di false identificazioni e arresti arbitrari. Anche se una persona venisse correttamente identificata, il riconoscimento facciale acuirebbe le discriminazioni attuate dalle forze di polizia israeliana, impedendo ai cittadini palestinesi l’accesso a beni e servizi essenziali.
Questi sistemi, in combinazione con l’infrastruttura hardware di supporto, potrebbero essere considerati strumenti di sorveglianza di massa incompatibili con il diritto alla privacy. L’interferenza arbitraria con tale libertà, derivante dallo sviluppo, dall’uso, dalla vendita e dall’esportazione di tecnologie di riconoscimento facciale per l’identificazione è una violazione dei diritti umani sia in tempo di pace che in situazioni di conflitto armato, compresa l’occupazione militare.
Dai risultati della ricerca, emergerebbe come a Silwan e nella Città Vecchia di Gerusalemme Est, una rete di telecamere consentirebbe alle autorità israeliane di monitorare i palestinesi nelle proprie attività quotidiane.
Quasi tutti gli intervistati erano consapevoli dell’esistenza di queste apparecchiature e di come vengono utilizzate per monitorare la loro quotidianità.
Questa circostanza scoraggerebbe le persone dall’esprimere rimostranze, anche partecipando alle proteste, per paura di essere identificati o sottoposti ad arresti, detenzioni o rappresaglie.
Sul piano generale, l’espansione di questa infrastruttura di controllo faciliterebbe l’allargamento degli insediamenti dei coloni ebrei e la conseguente parcellizzazione del territorio dell’Autorità Nazionale Palestinese.
Issa Amro, un attivista palestinese di Hebron, ha affermato che le persone sono sotto costante sorveglianza. Lui, i suoi amici e la sua famiglia verrebbero regolarmente fermati dai soldati per essere fotografati con l’applicazione Blue Wolf, il cui utilizzo era stato reso noto nel 2021 da un articolo del Washington Post.
Amro ha dichiarato che l’esercito israeliano sarebbe diventato così dipendente dai sistemi automatici che l’attraversamento dei checkpoint si blocca quando vengono rilevati problemi tecnici ai dispositivi di riconoscimento.
Ori Givati, ex comandante nell’esercito israeliano e ora Direttore di Breaking the Silence, ha dichiarato che i nuovi sistemi di sorveglianza erano stati iniziati ad essere installati già nel 2020.
Le richieste di Amnesty International a TKH Security e Hikvision
Di fronte a tali presunte violazioni, Amnesty International suggerisce che TKH Security e Hikvision dovrebbero adottare codici di condotta conformi agli standard internazionali per garantire che le proprie attività in Israele e nei Territori Occupati non contribuiscano al sistema di apartheid o ne traggano beneficio.
Nel caso in cui le imprese forniscano prodotti per il riconoscimento facciale a tutti gli effetti, esse dovrebbero immediatamente cessare lo sviluppo, la vendita e l’esportazione di queste tecnologie in paesi in cui i diritti umani non vengono rispettati.
Amnesty International ha ritenuto che TKH Security e Hikvision non abbiano condotto un’adeguata due diligence in materia di diritti umani sulle loro operazioni commerciali, come sancito dalla Sezione 4.10 dei Principi Guida delle Nazioni Unite sulle Imprese e i Diritti Umani.
Secondo le informazioni a disposizione, non avrebbero svolto una valutazione pubblica, trasparente e continua per dimostrare di essere consapevoli delle possibili conseguenze negative derivanti dalla vendita delle proprie tecnologie.
Alla luce di queste evidenze, Amnesty International ha invitato Israele a dismettere qualsiasi infrastruttura che provochi discriminazioni.
Le richiesti ai Paesi che intrattengono legami stretti con lo Stato ebraico
Ai Paesi che intrattengono legami stretti con lo Stato ebraico, come gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Cina, l’UE e i suoi Stati Membri, è stato suggerito di regolamentare le aziende domiciliate nelle loro giurisdizioni per garantire che non forniscano alcuna tecnologia di sorveglianza che possa essere utilizzata da Israele per mantenere il suo sistema di apartheid; è stato altresì indicato di sospendere immediatamente la fornitura diretta e indiretta, la vendita o il trasferimento (compresi il transito e la spedizione) a Israele di armi, munizioni e altre attrezzature militari.