privacy e diritti

Data economy, fine delle illusioni: che insegnano i casi dei rider e dei licenziamenti Amazon

I rider, come unico strumento di rivendicazione salariale, minacciano di violare la privacy dei vip. Mentre si scopre che Amazon sceglie chi licenziare tramite algoritmo. Due vicende che segnano un cambio di passo: anche il grande pubblico si sta accorgendo che la data economy arriva ormai a minacciare le libertà personali

Pubblicato il 27 Apr 2019

Dario Antares Fumagalli

legale specializzato in privacy e data protection

data-ethics

La minaccia alla libertà personale costituita dalla data economy ha infranto la barriera della riflessione scientifica per fare irruzione nella cronaca quotidiana.

Finalmente.

Lo si vede in questi giorni con le rivendicazioni salariali dei rider – gli addetti alle consegne alimentari a domicilio per compagnie quali Glovo, Deliveroo, Foodora, Just Eat o altre.

E con la notizia secondo cui Amazon sceglie via algoritmo chi licenziare.

L’allarme ha raggiunto il grande pubblico

Errore considerarle piccole vicende, casi isolati. Il tutto è invece la manifestazione di un allarme che circolava da tempo, finora inascoltato in nome del “pragmatismo”, dall’inerzia e dalla scarsa sensibilità strategica di cui è intrisa la nostra civiltà[1], circolano da tempo.

Ne parlano da tempo analisti autorevoli, riconosciuti e ben integrati[2], non di controverse intemerate lanciate da fanatici o complottisti.

Oggi, però, come sempre in ritardo, la cosiddetta opinione pubblica prende atto del problema.

Quello della vulnerabilità a cui tutti ci esponiamo acquistando servizi a bassissimo prezzo (in termini di denaro e di fatica) in cambio dell’acquiescenza a generare dati e cederli a terzi senza controllo.

I rider, i salari e la privacy

La vicenda dei rider potrebbe somigliare a tante altre storie di lavoratori che si agitano per far fronte a condizioni di lavoro ritenute profondamente lesive della loro dignità, se non fosse per una novità.

In questo caso, con estrema lucidità (o cinismo, a seconda di come la si vede) i lavoratori – consci di non poter utilizzare strumenti classici quali lo sciopero, in quanto privi di qualsiasi potere contrattuale anche se in forma aggregata – hanno deciso di mettere il dito in una piaga tutta nuova dei loro datori di lavoro, quella della privacy.

La rivendicazione, infatti, è stata accompagnata dalla rivelazione di un elenco di “VIP” accusati di essere “tirchi”, ossia di non elargire loro la mancia. Gossip? Non del tutto, se si considera che nel post di protesta dei rider si può leggere la seguente affermazione: “Ricordatevi sempre una cosa clienti, noi entriamo nelle vostre case, vi portiamo il cibo e qualsiasi altra cosa vogliate, a tutte le ore del giorno, siamo in strada sotto la pioggia battente o sotto il sole cocente, senza assicurazione. Sappiamo cosa mangiate, dove abitate, che abitudini avete”. Quella che potrebbe suonare come una “semplice” minaccia agli interessati, si trasforma in una riflessione di altra natura proseguendo nella lettura del post, nel quale si legge che “La vera ricchezza delle imprese del settore non è tanto il valore della intermediazione tra ristorante e cliente, spiegano i rider. Quanto piuttosto il poter accumulare dati e quindi profilare la clientela; tutte informazioni che poi possono essere rivendute ad altre aziende. “Se l’informazione è potere, allora noi liberiamo i dati ” , ragionano i fattorini. I quali per il 1° maggio hanno organizzato # occupyNolo, lo sciopero nel quartiere di tendenza milanese, perché “se vogliamo vivere il nostro futuro occorre anche un upgrade nei diritti”[3].

Difficile sostenere che alla base di una dichiarazione simile non ci sia la consapevolezza, ormai permeata al di fuori degli ambienti del settore o accademici, che attorno ai dati ruotino le dinamiche di profitto e di potere centrali del nostro tempo. Difficile pensare che, per altro verso, il consumatore che fino ad oggi ha agito nella convinzione che determinati servizi gli fossero offerti gratis o a prezzi stracciati (senza porsi la domanda più ovvia del mondo), possa continuare a lungo a flaggare la casella “acconsento” o ad usufruire di un servizio senza pensarci una volta di più.

Per la verità, sarebbe più giusto sostenere che difficilmente il consumatore continuerà a farlo senza accumulare risentimento e frustrazione, anche laddove sarà costretto a subire la scelta obbligata di flaggare la famosa casella, poiché altrimenti dovrebbe rinunciare ad un servizio erogato da un monopolista di fatto. Servizi che, nella società contemporanea, finiscono a volte per assumere carattere di essenzialità ai fini dello svolgimento di attività centrali per la vita personale quali, ad esempio, il lavoro (si pensi a social network come Linkedin o lo stesso Facebook).

Amazon, il monopolio e i licenziamenti via algoritmo

Quella del monopolio non è certo una conclusione superficiale, è piuttosto una solida realtà. Basti pensare alla posizione che, nemmeno troppo lentamente o silenziosamente, sta acquisendo il colosso Amazon[4].

Amazon che è oggetto di un’altra recente notizia comparsa su uno dei quotidiani maggiormente letti nel nostro Paese, sempre relativa al mondo del lavoro.

Pare infatti che il gigante di Jeff Bezos abbia candidamente ammesso di aver licenziato centinaia di lavoratori sulla base di report sulla produttività generati automaticamente da un algoritmo.

I dati sulla produttività dei lavoratori, acquisiti con mezzi indefiniti (possiamo ipotizzare smart devices o altri sensori incorporati nei macchinari o nelle linee di produzione) vengono cioè analizzati da un software al quale è demandata la responsabilità di sentenziare in merito all’efficienza del lavoratore.

In Europa, con l’entrata in vigore del GDPR, è generalmente fatto divieto di sottoporre gli interessati a decisioni basate unicamente su trattamenti automatizzati[5], il che è certamente un presidio encomiabile per le libertà e i diritti fondamentali delle persone fisiche. Tuttavia, la previsione normativa resta di rimanere pura retorica se non si sviluppa coscienza diffusa sul tema dei dati e non si adottano strategie politiche volte ad erodere il potere sempre più imponente di questi soggetti che, spesso, possono permettersi di far fronte alle sanzioni con relativa serenità.

Un problema di sicurezza nazionale

Peraltro, la questione assume rilevanza in ottica di presidio della sicurezza nazionale, laddove si consideri che organizzazioni come Amazon, o Alphabet (Google), nel raccogliere dati di cittadini su larghissima scala, profilandoli in modo estremamente pervasivo, acquisiscono un vantaggio strategico nei confronti degli stessi stati, la cui sovranità (che si riflette in capacità di applicare le norme e di presidiare i valori ai quali sono informati) si indebolisce. Tanto più laddove, come visto, al potenziale già enorme costituito dall’asset “dati” si aggiunge la posizione dominante in fatto di mercato (vedi sopra).

Le due cose, peraltro, sono tutt’altro che slegate. Infatti, fonti autorevoli riferiscono che, in realtà, Amazon si possa permettere di operare in perdita al fine di acquisire posizioni dominanti in vari mercati della distribuzione poiché la vera fonte di introiti dell’organizzazione sia il settore AWS, ossia quello delle infrastrutture per i servizi web. Anche in quel settore, estremamente critico, il potere di Amazon si è accresciuto in modo incontrollato.

Addirittura, è lecito ritenere che Amazon fornisca infrastrutture anche a enti statali anche aventi natura sensibile per la sicurezza nazionale, quanto meno intesa in senso lato.

I colossi ICT non sono neutrali

I colossi dell’ICT non possono essere ritenuti neutrali, come ampiamente dibattuto anche recentemente in merito alla vicenda di Huawei nel settore del 5G. Da un lato, infatti, nulla vieta che tali realtà siano strettamente interconnesse con attori statali esteri anche ostili o, comunque, in competizione con l’Italia per interessi di natura geopolitica. Sotto un altro, meno evidente, punto di vista, trascendendo schemi ormai obsoleti, occorre considerare essi stessi come attori operanti sullo scacchiere internazionale con aspirazioni politiche (in senso lato), a volte anche in maniera autonoma, ma non per questo neutrale o amichevole.

Società digitale, perché il Gdpr è presidio dei diritti fondamentali

La fine delle illusioni sulla data economy

Cinicamente, dunque, è possibile concludere che, pur rispettando le enormi sofferenze patite dalle vittime di questi primi casi di “data violence”, l’emersione di vicende come quelle citate sia utile al fine di svegliare tutti dall’ebbra illusione della neutralità o dell’innocuità della data economy, sensibilizzando tutti sui rischi anche diretti e gravi che ne derivano, così come sul valore dei propri dati.

Quando si accetta di cederli in cambio di servizi di scarso valore e senza pretendere tutele evidenti, esperibili e immediate, si muove un passo verso uno scenario futuro per niente edificante, in cui le libertà individuali rischiano di rimanere solo un mero esercizio di retorica giuridica. Di pari passo allo svilupparsi spontaneo di una coscienza collettiva in materia, sarebbe opportuno che lo stato adottasse urgentemente strategie concrete di contrasto alla minaccia, da una parte contribuendo alla sensibilizzazione collettiva, dall’altra spingendo ed agevolando soluzioni tecnologiche indipendenti ed autoctone, in grado di offrire alternative valide al monopolio dei colossi dell’ICT.

Soluzioni che possano, oltre ad essere poste a beneficio dei privati, essere adottate dalle strutture critiche del Paese in modo da favorire la creazione di un perimetro digitale nazionale sicuro, costituito da infrastrutture nazionali o di certa indipendenza e non controllate da soggetti potenzialmente ostili.


NOTE

[1]     Lo stesso che ci porta a sottovalutare gli allarmi relativi alla questione ambientale o quelli relativi alla vendita di armi a Paesi in guerra, in nome di logiche informate al mero profitto ed in totale violazione degli stessi principi sanciti in dichiarazioni politiche  o norme di legge il cui dettato resta, spesso, come già evidenziato da Piero Calamandrei decine di anni fa, lettera morta.

[2]     Cfr. Opere di B. C. Han come “Nello Sciame” o il saggio “Persone in Rete” dell’attuale Presidente dell’Autorità Garante per la Protezione dei dati personali, A. Soro.

[3]     Cfr. Matteo Pucciarelli, La crociata dei rider per la mancia, “Ecco le celebrità che non ce la danno”, su Repubblica.

[4]     Sul tema, tra i tanti, si legga Robinson Meyer, Il Monopolio di Amazon, su Internazionale 

[5]     Cfr. reg. (UE) 2016/679, Considerando 71 “L’interessato dovrebbe avere il diritto di non essere sottoposto a una decisione, che possa includere una misura, che valuti aspetti personali che lo riguardano, che sia basata unicamente su un trattamento automatizzato e che produca effetti giuridici che lo riguardano o incida in modo analogo significativamente sulla sua persona, quali il rifiuto automatico di una domanda di credito online o pratiche di assunzione elettronica senza interventi umani.” ed art. 22 comma 1 “L’interessato ha il diritto di non essere sottoposto a una decisione basata unicamente sul trattamento automatizzato, compresa la profilazione, che produca effetti giuridici che lo riguardano o che incida in modo analogo significativamente sulla sua persona.” e 3  “Nei casi di cui al paragrafo 2, lettere a) e c), il titolare del trattamento attua misure appropriate per tutelare i diritti, le libertà e i legittimi interessi dell’interessato, almeno il diritto di ottenere l’intervento umano da parte del titolare del trattamento, di esprimere la propria opinione e di contestare la decisione.”

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