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Democrazia costituzionale a rischio? Sì, se il mercato diventa politica



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L’equilibrio tra democrazia costituzionale e mercato è compromesso dalle piattaforme digitali e dalle multinazionali. Il libro di Carlo Iannello – “Lo Stato del potere”. Politica e diritto ai tempi della post-libertà – mostra come il potere economico stia progressivamente sostituendo le politiche pubbliche con logiche privatistiche

Pubblicato il 9 apr 2025

Ginevra Cerrina Feroni

Professore Ordinario di Diritto Costituzionale Italiano e Comparato nel Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Firenze, Vice Presidente del Garante per la protezione dei dati personali



democrazia e digitale (1) continuità operativa virtualizzazione dei server upskilling e reskilling

Il modello neoliberista, nato come esaltazione della libertà economica e del mercato, si è evoluto fino a diventare un progetto che minaccia l’equilibrio tra democrazia e sovranità politica, poiché minaccia lo stesso modello politico e sostrato giuridico valoriale che quel liberismo aveva sposato.

Capitalismo e democrazia: un rapporto in crisi

Un rapporto che, fino a poco tempo fa, si credeva imprescindibile, quasi simbiotico, ma che oggi mostra le sue prime crepe[1].

È questa la tesi contenuta nel bel volume di Carlo Iannello “Lo Stato del potere”. Politica e diritto ai tempi della post-libertà (Milano, Meltemi Ed., 2025), una lucida analisi di quelli che possiamo definire alcuni dei più recenti pericoli per la democrazia contemporanea. Pericoli che non derivano da gruppi eversivi di destra o di sinistra, ma dallo sviluppo di quelle stesse forze che la democrazia, in qualche modo l’hanno creata, sostenuta e fortificata: le forze del libero mercato.

E a tal fine è importante proprio partire dalla storia.

Durante la Guerra Fredda, capitalismo e democrazia erano strettamente legati da un rapporto di reciproca dipendenza, poiché condividevano un nemico comune. Oggi questo legame non è più così solido. Se tutte le liberaldemocrazie sono economie di mercato, non è vero il contrario. Esistono numerosi esempi di economie di mercato, a destra e a sinistra, senza democrazia. Certo, il capitalismo sembra continuare a preferire la forma democratica, ma fenomeni come i massicci investimenti e i grandi profitti ottenuti nei mercati autoritari, come quello cinese, dimostrano che la relazione tra i due non è più necessariamente biunivoca.

Il maggiore piano di indagine del libro è, dunque, il rapporto tra neoliberalismo e neoliberismo, cioè tra l’idea politica e l’azione economica, ovvero il tentativo di dare una nuova veste ad una concezione liberale più attenta al sociale che poi ha trovato le sue forme nel socialismo liberale di Guido Calogero e Aldo Capitini.

In fondo è esattamente ciò che troviamo nella nostra Costituzione: l’uguaglianza e la libertà non più come dottrine separate, ma compenetrate in un unico progetto di società.

Ed invece oggi assistiamo ad un progressivo sganciamento e alla nascita di un rapporto antagonistico tra economia, da una parte, e tradizione liberal-democratica e sociale, dall’altra.

Il mercato come antisovrano nella democrazia costituzionale

Dunque, da un lato c’è il governo democratico, espressione della sovranità popolare, dall’altro l’“antisovrano”, ovvero il dominio del mercato, sempre più incontrollato[2].

Utile, in proposito, soffermarsi su due punti che, peraltro, sono strettamente connessi: a) il cambiamento della natura del mercato;

b) il cambiamento degli attori del mercato.

Sotto il primo aspetto, se nel XX secolo il modello neoliberista si presentava come una risposta alla rigidità degli Stati interventisti, favorendo la deregulation e la privatizzazione, oggi la sua deriva è evidente: il mercato non è più un semplice strumento di crescita, ma un attore politico a tutti gli effetti. Le grandi multinazionali, in particolare quelle della tecnologia, le piattaforme finanziarie e i colossi del commercio globale non rispondono più alle logiche tradizionali della governance democratica, ma si ergono come potenze autonome, dettando regole e influenzando il corso delle nostre società. Il loro potere supera quello degli Stati, spesso aggirando le istituzioni e rispondendo esclusivamente agli interessi degli azionisti.

L’antisovrano, incarnato dal potere privato erode progressivamente la capacità dei Governi di intervenire nell’economia e di garantire diritti sociali. Le politiche pubbliche vengono sostituite da strategie aziendali, il welfare dallo sfruttamento dei dati, la rappresentanza democratica dalle logiche algoritmiche della personalizzazione e del controllo digitale. I Governi nazionali, persino quelli delle grandi potenze, appaiono sempre più incapaci a contrastare queste dinamiche, mentre le istituzioni internazionali faticano a imporre regolamentazioni efficaci[3].

Sotto il secondo aspetto, quello che riguarda gli attori, bisogna ricordare chi sono i soggetti che stanno più di tutti acquisendo tale potere privato di portata pubblicistica. Il riferimento è alle piattaforme digitali. Anche perché è proprio l’era digitale ad aver reso ancora più profonda questa trasformazione.

Come ben noto, le piattaforme non sono più soltanto spazi di interazione e commercio, ma luoghi di costruzione del consenso e della percezione collettiva. Diritti fondamentali, come la libertà di espressione, vengono da esse intermediate e i dati personali, il bene più prezioso del nostro tempo, sono nelle mani di pochi attori privati, che li sfruttano per orientare le scelte politiche ed economiche, bypassando i meccanismi democratici di controllo e trasparenza.

In tale scenario, lo Stato democratico si trova in una posizione di subalternità rispetto a chi possiede gli strumenti più invasivi per la sorveglianza, per la tracciabilità e, in generale, per l’influenza globale[4].

La domanda che dobbiamo porci oggi è: quale futuro vogliamo per le nostre democrazie? Accettiamo che la politica diventi un’appendice del mercato e delle sue logiche, o vogliamo riaffermare la centralità dello Stato come garante del bene comune?

Per troppo tempo il mantra neoliberale ci ha convinti che la regolazione pubblica fosse un ostacolo alla crescita, quando in realtà è il presupposto della libertà stessa. La libertà economica, senza una solida base di diritti e tutele, diventa un privilegio per pochi e la democrazia senza controllo sul potere privato si svuota di significato.

Non si tratta di tornare a modelli statalisti del passato, ma di trovare un nuovo equilibrio tra mercato e politica, tra innovazione e diritti, tra libertà economica e sovranità democratica.

È necessario un intervento deciso per regolare i colossi digitali, per tassare equamente le grandi multinazionali, per garantire ai cittadini il controllo sui propri dati e per restituire agli Stati il potere di proteggere i loro cittadini dalle distorsioni del mercato globale.

La sfida del nostro tempo è chiara: dobbiamo impedire che l’antisovrano diventi il vero dominatore del XXI secolo[5]. Se vogliamo salvaguardare la democrazia, dobbiamo ricostruire un patto sociale che metta il cittadino al centro, e non il profitto. Solo così potremo garantire un futuro in cui la libertà non sia solo un’illusione creata dagli algoritmi, ma una realtà fondata sulla giustizia e sulla partecipazione democratica.

Ecco, dunque, che arriviamo al successivo punto di queste riflessioni.

Quando si parla del confronto tra potere e sovranità c’è un altro presupposto “parallelo” da tenere in considerazione (che non esclude quello appena analizzato, ma anzi lo integra): ovvero che la democrazia è, innanzitutto, restituire lo scettro a elettori.

Il problema della sovranità

Il disallineamento tra sistemi economici e ordinamenti giuridici si intreccia con una delle questioni centrali del nostro tempo: il problema della sovranità. Io sono dell’idea che le categorie fondanti del diritto costituzionale debbano rimanere eminentemente statuali e non possano essere trasferite a livello sovranazionale o transnazionale. Né, in effetti, si prestano facilmente ad esserlo, dal momento che su quei piani l’assenza di un’autorità sovrana ben definita (la presenza dell’antisovrano, appunto) rende più complessa la costruzione di un ordine giuridico stabile e condiviso. È l’esperienza degli ultimi anni ad aver dimostrato come l’adattamento dei principi costituzionali a contesti privi di una chiara struttura statuale incontri difficoltà significative.

Appare non solo opportuno, ma necessario continuare a riflettere sulla democrazia partendo dall’esperienza dello Stato costituzionale, che si distingue per il primato della Costituzione e trova nella Corte costituzionale il suo principale strumento di garanzia e di vitalità. Solo all’interno di questo quadro istituzionale, fondato sul principio democratico, è possibile garantire un’effettiva tutela dei diritti e un equilibrio tra poteri.

Democrazia costituzionale e governance europea

Mi pare interessante, per affrontare questa criticità, richiamare un punto del libro: quello in cui l’Autore presenta il vero nodo del problema. Ciò che lui chiama, con sagace ironia, “la governance ovvero il non-governo” (Capitolo VI). Protagonista del capitolo è ovviamente l’Unione europea. Iannello analizza come le classi dirigenti abbiano costruito una governance economica sovranazionale che limita le politiche economiche nazionali. Un processo che, come lascia intendere, ha portato ad una sorta di globalizzazione senza Costituzione, dove i diritti vengono proclamati per tutti, ma il loro esercizio è riservato a pochi, concentrando il potere nelle mani di oligarchie economiche.

Questa operazione ricostruttiva prende le mosse, in maniera coerente e sistematica, dall’indagine dei fondamenti dello Stato liberale. Emerge tutto l’anelito dell’Autore verso la dimensione autenticamente liberale dello Stato, nel “fine di libertà da esso perseguito” (p. 40 del volume) che è anche alla base della sua legittimazione. La sua tesi di fondo è che l’integrazione economica europea, anziché rafforzare la democrazia e il welfare state, abbia prodotto una frattura tra principi costituzionali e vincoli economici sovranazionali.

È ormai chiaro a tutti, in effetti, come la crisi dei debiti sovrani esplosa dopo il 2010 abbia messo a nudo l’anima essenzialmente economica dell’Unione ed abbia attivato meccanismi di decisione in uno stato di eccezione che talora non lasciano margini di intervento a processi di decisione su base democratica.

Iannello individua fondamentalmente nell’architettura economica dell’Unione Europea, e in particolare nel Trattato di Maastricht del 1992, il punto di svolta che ha ridisegnato il rapporto tra economia e diritto costituzionale. Con Maastricht si è affermata una nuova governance economica basata sulla stabilità monetaria, il controllo dell’inflazione e il contenimento del debito pubblico.

Però l’equilibrio di bilancio – se non accompagnato da adeguate garanzie e laddove sia elevato al rango di principio fondamentale, addirittura di super-principio, capace di prevalere sistematicamente sugli altri nell’ambito del bilanciamento dei valori costituzionali – rappresenta una minaccia concreta per la tutela di numerosi diritti. Questo rischio riguarda, in particolare, quei diritti che comportano oneri finanziari per la spesa pubblica, come il diritto alla salute, all’istruzione o all’assistenza sociale, il cui esercizio dipende direttamente dalla capacità dello Stato di destinare risorse adeguate[6].

La costituzionalizzazione del principio di equilibrio di bilancio ha, dunque, avuto un impatto significativo anche sull’attività delle Corti costituzionali, modificando i criteri di valutazione con cui esse operano e alterando le dinamiche tradizionali del controllo di costituzionalità.

Verso un nuovo equilibrio per la democrazia costituzionale

In questo scenario, l’imposizione di vincoli finanziari rigidi rischia di ribaltare il principio liberale secondo cui è la Costituzione a orientare le regole del mercato, e non il contrario.

Si assiste così a una sorta di inversione del rapporto tra economia e diritto costituzionale, dove le logiche di sostenibilità finanziaria tendono a condizionare sempre più le scelte politiche e giuridiche, talvolta comprimendo spazi essenziali di tutela dei diritti fondamentali.

Mi si consenta però di spezzare anche una lancia in favore dell’Unione europea. Non sempre la prospettiva mercantilistica è nefasta. Lo sdoganamento del diritto alla privacy è avvenuto anche a partire dalla volontà di tutelare e promuovere il mercato interno dell’Unione. C’è stata, quindi, una sorta di eterogenesi dei fini almeno per quanto riguarda la protezione dei dati personali, che ha portato alla fondazione di uno dei diritti più primari e imprescindibili attraverso lo strumento interpretativo della difesa del mercato. Rispetto a questo, bisogna ammetterlo, l’Europa è stata un attore cruciale.

Il quadro è, tuttavia, in veloce evoluzione se è vero che l’Unione europea è in procinto di rivedere il Regolamento sulla protezione dei dati personali (GDPR). Le modifiche annunciate puntano a renderlo più “pratico”, più agile da applicare per imprese e amministrazioni. Obiettivo ragionevole, purché tale cambio di rotta non indebolisca una delle conquiste giuridiche più avanzate in ambito digitale. Le pressioni economiche, soprattutto da parte delle grandi piattaforme tecnologiche e delle lobby industriali, stanno infatti spingendo verso un’interpretazione più flessibile del principio di protezione, subordinandolo alla logica dell’innovazione e della competitività. Il rischio è che, nel tentativo di semplificare e armonizzare, si finisca per abbassare il livello di tutela del cittadino europeo. Se il diritto alla privacy diventa uno strumento “negoziabile”, piegato alle esigenze del mercato e dell’intelligenza artificiale, si apre la porta ad un pericoloso cambio di prospettiva: quella in cui il controllo sui propri dati non sia più garantito.

Lo scontro tra neoliberismo e sovranità democratica rappresenta una delle grandi sfide del nostro tempo. Da un lato, il neoliberismo ha promosso la globalizzazione economica, la deregolamentazione e la centralità del mercato, spesso a discapito della capacità degli Stati di tutelare i diritti sociali e l’interesse collettivo. Dall’altro, la sovranità democratica esige che le decisioni fondamentali siano prese dai cittadini attraverso istituzioni rappresentative, in grado di proteggere il bene comune e garantire equità.

Per trovare un equilibrio tra questi due poli, è necessario ripensare i modelli economici e istituzionali, ponendo al centro la partecipazione democratica e la giustizia sociale. Il futuro dipenderà dalla nostra capacità di costruire un sistema in cui il mercato sia al servizio della società e non viceversa, riaffermando il primato della politica sulle logiche puramente economiche.

Solo così sarà possibile coniugare crescita e diritti, efficienza e giustizia, libertà economica e democrazia sostanziale.

Note


[1] Ex multis, G. Ferrara, La crisi del neoliberismo e della governabilità coatta, in Costituzionalismo.it., 2013.

[2] Riflessioni che emergono già in molti contributi di C. Iannello (a cura di), Neoliberismo e diritto pubblico prima e dopo la pandemia, in Rassegna di diritto pubblico europeo, 2020.

[3] Si consenta un rinvio al mio intervento su questa Rivista “Libertà di espressione, Garante privacy: Troppo potere alle big tech, ecco come intervenire”, 11 maggio 2021.

[4] Sul problema della sorveglianza, S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Roma, Luiss Univ. Press, 2019. Sul problema del tracking e della profilazione, A. Gatti, Profilazione e diritti fondamentali, Napoli, ES, 2025.

[5] A. Morrone, Sovranità, in Rivista AIC, 3/2017, spec. § 29, parla di sovranità economica decantata dai sostenitori del diritto globale.

[6] V. anche A. Poggi, Crisi economica e crisi dei diritti sociali nell’Unione Europea, in Rivista AIC, 1/2017, dove l’A. sostiene che le misure di austerità adottate in risposta alla crisi non solo hanno messo in discussione la sostenibilità economica dei diritti sociali, ma hanno anche compromesso l’intero impianto teorico del costituzionalismo europeo.

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