Alla cittadinanza digitale servono nuove fondamenta. Che mettano al centro dell’ecosistema gli interessi dell’essere umano e stabilisca un diverso modello dell’utilizzo dei dati, in grado di ridistribuirne il valore fra gli utenti. Da più parti emerge la necessità di una svolta: dal contratto di Tim Berners Lee per salvare il Web a un recente rapporto di Amnesty International secondo cui il modello di business basato sui nostri dati mette in pericolo i diritti fondamentali.
C’è un modo diverso per far funzionare l’economia digitale, ma richiede di abbandonare il data sharing e di costruire quanto serve per poterne fare a meno. I benefici saranno straordinari, ma c’è un problema: stiamo procedendo troppo lentamente e, se continuiamo di questo passo, rischiamo di compromettere il concetto stesso di cittadinanza digitale. Una via d’uscita c’è: restituire il potere all’individuo non solo attraverso battaglie e leggi, ma attraverso un protocollo di ownership potente e usabile. Code is Law (cit.), Protocol is Trust.
Società digitale, l’inesorabile cammino dei dati
Circa un anno fa ho cercato insieme ad altri di rispondere ad una domanda: esiste un modello di economia digitale alternativo a quello del data sharing?
“Non c’è nulla che io possa fare una volta che i miei dati sono stati condivisi. Sono andati e basta”, dice Amber Baldet, former Head of Blockchain di JP Morgan. Ed ha ragione.
Non c’è privacy policy o GDPR che tenga. Dobbiamo essere in grado di autorizzare l’uso dei nostri dati prima che le macchine li processino e fare in modo che esista elaborazione senza che i dati lascino la nostra tasca. Esercitare il diritto di protezione a posteriori non serve a garantire la nostra privacy fino in fondo. E dato che forse non riusciremo mai ad eliminare le black box, allora l’unica opzione è ripensare come funzionano.
“Far andare gli algoritmi verso i dati, non viceversa”. Questo è il principio dirompente proposto da Hardjono e Pentland del MIT, un principio in grado di far tornare gli interessi dell’essere umano al centro dell’ecosistema. Partire da qui significa avviare l’economia service dominant verso un nuovo stato di crisalide e non sappiamo cosa potrà uscirne, ma sappiamo che sarà una trasformazione irreversibile.
Ma stiamo andando lenti, troppo lenti!
Data sharing: non serve la guerra agli Ott
Prima di tutto ci stiamo concentrando molto sui problemi e questo è certamente un bene, ma le soluzioni a questi problemi sono molto difficili e purtroppo ci siamo impantanati. Se il sistema attuale mostra segni di debolezza sotto il profilo algor-etico, non è distruggendolo che sarà più facile ricostruirlo da capo. Con i dati non funziona così… o almeno così è come la penso io.
Le grandi piattaforme hanno qualche problema da risolvere – questo è chiaro – ma non è invocandone smembramento o riesame etico che chiuderemo con successo la questione.
Come società, non possiamo sacrificare il potenziale racchiuso nei grafi informativi delle grandi piattaforme di servizio. Se gli attori dell’ecosistema digitale di oggi vengono distrutti, con essi perderemo anche i dati che custodiscono. Questo non è un approccio buonista né pavido, semplicemente è molto probabile che il prezzo da pagare sia più grande del beneficio.
Dobbiamo collaborare con le grandi piattaforme, letteralmente lavorare insieme, spinti da un mercato che finalmente vede privacy ed etica come nuovi driver di scelta. E di sostenibilità. Si può cercare una soluzione win-win? Io credo di sì, non vedo altra strada su piano economico né politico.
Sulla corsia di accelerazione della società digitale non ci saranno utili le trincee o i cavalli di frisia, ma una serie di curve pensate per essere affrontate senza rallentare. Il propellente del nostro motore devono essere i dati, sia quelli esistenti che quelli che verranno, ma arricchiti da un modello nuovo che ci renda più performanti nell’estrarne valore sostenibile.
“Si-può-fare!” (ha ragione il dottor Frankenstein). Si può ottenere privacy senza annientare l’advertising. Si può ottenere un’equa distribuzione del profitto generato dai dati senza una class action e senza un intermediario neutrale. E la risposta deve essere scritta con la sintassi di protocollo e codice, il linguaggio reso universale dai bit. Come? Qui trovi qualche idea.
Digitale, serve la strategia dei piccoli passi
La prima mossa non è dei policy maker, ma nostra. Serve lanciare la trasformazione dal basso, con piccoli passi individuali. Non è ancora arrivato nessuno a darci una ricetta copia-incolla e non serve illudersi: non arriverà.
Meglio fare, fare oggi, e creare esempi da far crescere (o fallire) nel mercato libero. A ciascuno il compito di fare quanto possibile. Da parte mia, che sono uno fra molti, penso sia utile mettere in pratica almeno questi principi:
- Dare più importanza al luogo dell’elaborazione, non solo alla finalità. La maggior parte degli algoritmi possono andare verso i dati e persino i modelli di machine learning possono avere un processo di apprendimento federato. Non è più necessario esigere che i dati vengano condivisi, accettiamolo come un dato di fatto e andiamo avanti. Questo però non vuol dire che tutto il mondo digitale debba cambiare in una notte. Questo non è uno tsunami, ma è una marea. Una marea che però cambia tutto.
- Abolire la policy come unico strumento d’informazione rivolto al data owner. Cosa accadrebbe se la policy fosse affiancata da un pannello analitico grazie al quale vedere quanto e quando i nostri dati sono stati utilizzati? E se l’utilizzo dei dati fosse guidato da contratti-codice (attenzione, non sono smart contracts)?
- Stabilire un metodo di autorizzazione esplicita all’uso dei dati attraverso bundle sottoscrivibili in modalità one-click. Chi ha utilizzato un firewall almeno una volta in vita sua ha capito perfettamente cosa intendo. Esercitare ownership sui propri dati non deve richiedere una laurea in ingegneria informatica, ma solo una buona dose di curiosità e un impegno paragonabile allo studio del telecomando della TV appena acquistata.
- Avere consapevolezza del fatto che l’economia digitale è un grande “always beta”. Come siamo oggi è in gran parte figlio di ciò che si è consolidato negli ultimi 20 anni. Non dobbiamo quindi pensare che come funzioniamo oggi sia il migliore dei modi possibili. Di fatto stiamo già migliorando, giorno dopo giorno, ma forse troppo lentamente. Accelerare significa fare. E rifare.
Esistono diversi modi per esprimere coraggio e voglia di cambiamento. Questo è uno, e non diminuisce per nulla il valore degli altri. Tuttavia, credo che sia arrivato il momento di ammettere che il cambiamento che tutti desideriamo, quello che serve davvero per creare una cittadinanza digitale solida e matura, non possa essere ottenuto attraverso lo scontro di posizioni distanti.
Serve piuttosto un incontro. Serve un protocollo, da intendere come un insieme di regole valide sia per gli uomini che per gli algoritmi. “Code is Law”, diceva Lawrence Lessig. “Protocol is Trust”, questo aggiungiamolo noi. In fretta.