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Shadow banning, così lo affronta il Digital services Act



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Lo “shadow banning” indica la retrocessione o la sparizione di contenuti da una risorsa online, a seguito di un “ban”, dunque di una decisione punitiva mirata. Un fenomeno difficile da catturare che il Digital Services Act prova ad arginare

Pubblicato il 20 ott 2023

Enrico Pelino

Avvocato e PhD in diritto dell’informatica e informatica giuridica



diritto all'oblio
diritto all'oblio

Sparire digitalmente e non poterlo dimostrare. È lo shadow banning. Per la prima volta un atto normativo, il DSA, affronta il fenomeno e lo definisce, proibendolo. Vediamo come.

Il concetto di shadow banning

Innanzitutto, che cosa si intende per “shadow banning”? Il termine, di uso ampio quanto lasco, coglie in senso lato i fenomeni di retrocessione o di vera e propria sparizione di contenuti da una risorsa online, a seguito di un “ban”, dunque di una decisione punitiva mirata.

Essendo tuttavia una sanzione silente (shadow), ossia non dichiarata, chi la subisce sconta il doppio ostacolo di apprenderne, o più spesso sospettarne, l’esistenza solo casualmente, con il tempo e in modo incerto, e di disporre, in ogni caso, solo di minime possibilità probatorie.

Il fenomeno è infatti difficile da catturare. La sparizione completa offre quantomeno una possibilità di dimostrazione, la retrocessione invece, che ha sostanzialmente gli stessi effetti, è assai più sfuggente. Occorre infatti distinguerla da situazioni fisiologiche o neutrali, come le conseguenze di un cambiamento di algoritmo proprietario e segreto o il risultato di un SEO non performante.

Ad esempio, si può silenziosamente, e ad esito di una decisione mirata, perdere visibilità su un motore di ricerca, di fatto subendo l’erosione di quote di mercato (in un mondo virtuale si esiste nella misura in cui si è agevolmente rintracciabili). Ugualmente, possono silenziosamente perdere visibilità contenuti di pensiero pubblicati su social network o può silenziosamente scivolare la rilevanza di video in una piattaforma di condivisione.

L’abuso delle posizioni di controllo dei flussi informativi

Sono del resto chiari i vantaggi dello shadow banning, per chi lo pratica, contemporaneamente ipocriti e pragmatici. La mera retrocessione non ha infatti l’apparenza di una censura, inoltre l’occultezza abbatte le possibilità di altrui contenzioso. Questo è l’aspetto più odioso, in termini giuridici, vale a dire la possibilità della parte forte del rapporto di sottrarsi a un leale confronto sulle regole e la contestuale privazione, de facto, che la parte debole subisce rispetto a pretese azionabili.

La possibilità di incorrere in uno shadow banning diventa fortemente dissuasiva del diritto di parola, alimentando il timore che spiacere al feudatario digitale di turno possa evolvere in celate iniziative di ritorsione. È il cosiddetto “chilling effect”.

Le novità del DSA

Proprio in questo contesto interviene positivamente il DSA, ossia il regolamento (UE) 2022/2065, che sarà interamente applicabile dal 17 febbraio 2024.

Il recente atto normativo, salutato politicamente come la nuova costituzione dei diritti digitali reca in realtà molte ombre ed è ancora tutto da decifrare nella ricaduta concreta degli istituti introdotti. Tuttavia, presenta anche aspetti decisamente positivi. Pone infatti nel sistema del diritto tutele avanzate, all’apparenza promettenti. Del resto, l’obiettivo è proprio quello di riportare equilibrio nei fenomeni di concentrazione di informazioni e di manipolazione delle stesse che finora hanno dominato il mercato digitale. Se c’è un tratto notevole nel DSA è proprio l’ambizione di puntare al centro del sistema e di portarvi disciplina giuridica.

Innanzitutto, il DSA fornisce una definizione dello shadow banning, al considerando 55: “La restrizione della visibilità può consistere nella retrocessione nel posizionamento o nei sistemi di raccomandazione, come pure nella restrizione dell’accessibilità da parte di uno o più destinatari del servizio o nell’esclusione dell’utente da una comunità online senza che quest’ultimo ne sia consapevole («shadow banning»)”.

È, a dire il vero, una nozione alquanto ristretta, tuttavia suscettibile di arricchimento in via interpretativa.

Quella riportata tra virgolette non costituisce ovviamente una legittimazione del fenomeno, come una lettura superficiale potrebbe indurre a credere, perché il considerando va naturalmente collocato in relazione con l’art. 17, che impone l’obbligo di motivare in maniera “chiara e specifica” l’imposizione di qualsiasi restrizione.

Vuol dire non solo dare conto della misura applicata, cioè farla emergere (il che è essenziale), ma anche fornire le ragioni precise che l’hanno determinata. Con l’emersione, viene meno cioè il concetto stesso di uno shadow banning, ma si è di fronte a un banning palese, che deve essere sostenibile e può ben venire contestato.

In definitiva, se in passato poteva essere incerta la liceità di misure silenti, l’introduzione della novella sui servizi digitali rende la pratica manifestamente illecita. Ricorrere allo shadow banning vuol dire scegliere di violare il DSA.

Gli ulteriori obblighi di trasparenza

Il citato articolo 17 impone di indicare precisamente la tipologia di restrizione applicata: rimozione delle informazioni, disabilitazione al loro accesso, retrocessione, sospensione o cessazione dei pagamenti o, appunto, limitazione della visibilità. Vanno altresì dichiarate le coordinate spaziali e temporali dell’applicazione della restrizione, il che apre alla possibilità peraltro di ragionare sul principio di proporzionalità.

Inoltre, occorre indicare fatti e circostanze che ne hanno motivato l’applicazione.

La linea di trasparenza impone anche che ai destinatari della misura siano:

  • (ma solo “ove opportuno”) forniti lumi sugli strumenti automatizzati usati per individuare i contenuti e adottare la decisione, il che apre interessanti possibilità, per le persone fisiche, di interazione con il GDPR;
  • chiarite le ragioni dell’illiceità delle informazioni rimosse, con menzione della base giuridica, o, se la violazione è contrattuale, precisando la clausola che si assume violata;
  • indicati i mezzi di ricorso.

La portata è rivoluzionaria rispetto alla situazione attuale e determina, tendenzialmente, un rovesciamento del chilling effect: sono gli intermediari a dover valutare il ricorso disinvolto a iniziative restrittive, considerata la puntualità delle motivazioni da fornire e i limiti da osservare. L’alternativa resta certamente quella di agire in modo silente, ossia di fare ricorso allo shadow banning, ma diventa una soluzione molto rischiosa, in quanto scelta di deliberata illiceità.

Conclusioni

È tuttavia presto per dire se ciò avrà impatto apprezzabile su un mercato assai cinico, che finora ha mostrato di muoversi non tanto sul filo del rispetto dei diritti quanto su quello della valutazione del rischio sanzionatorio effettivo e delle concrete conseguenze giuridiche sfavorevoli. Tuttavia, appare manifesta quantomeno l’attenzione del legislatore al fenomeno e, più in generale, la comprensione che un ecosistema digitale dominato dai rapporti di forza nuoce al bene collettivo e alla crescita dell’Unione. Entrambi i gemelli normativi, DSA e DMA, muovono chiaramente in tal senso.

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