Se il Gdpr frena la ricerca sul Covid: quale convivenza tra privacy e scienza

Gli esperti dell’Università di Amsterdam hanno pubblicato delle raccomandazioni per rimediare alle conseguenze negative del GDPR sui trasferimenti internazionali di dati di ricerca e permettere alla comunità biomedica di condividere i dati al di fuori dell’UE per la ricerca scientifica. Ecco perché si è reso necessario

Pubblicato il 15 Ott 2020

Anna Capoluongo

Avvocato, Data Protection Officer

Linee Guida del Garante Privacy: è utile il legittimo interesse del titolare del trattamento

Pur riconoscendo le valide preoccupazioni e i meritevoli obiettivi da cui è originato il GDPR, c’è chi inizia a criticare come l’impostazione dell’attuale normativa privacy rischi di tramutarsi in un vero e proprio ostacolo, piuttosto che rispondere all’obiettivo proclamato – a ben vedere anche nel titolo stesso del Regolamento – di “libera circolazione di tali dati”.

È così che, animati dal desiderio di una riforma che ponga rimedio a tutto ciò, gli esperti dell’Università di Amsterdam hanno da poco pubblicato un articolo dal titolo “General data protection regulation hinders global biomedical research” per l’Association for the Advancement of Science.

“Riteniamo che le nostre raccomandazioni possano aiutare a rimediare alle conseguenze negative create dall’attuale approccio GDPR ai trasferimenti internazionali di dati di ricerca e che permetteranno alla comunità della ricerca biomedica di condividere i dati al di fuori dell’UE per la ricerca scientifica, garantendo al contempo un elevato livello di protezione dei dati”, scrivono gli scienziati olandesi.

Le limitazioni imposte dal Gdpr

La problematica fondamentale starebbe, quindi, nelle limitazioni imposte dal GDPR alla condivisione ed al trasferimento dei dati al di fuori dell’UE, unitamente agli ostacoli posti dalle recenti linee guida dell’EDPB[1] sull’uso dei dati di localizzazione e degli strumenti per il tracciamento dei contatti nel contesto dell’emergenza legata al COVID-19.

È giusto il caso di ricordare, infatti, che ai sensi del Regolamento 679/2016 i trasferimenti di dati extra-UE non sono di norma permessi, salvo che ricorrano alcune specifiche condizioni, di cui agli articoli 45 (decisioni di adeguatezza), 46 (garanzie adeguate), 47 (norme vincolanti d’impresa o BCR) e 49 (deroghe in specifiche situazioni) del citato Regolamento.

E così, qualunque trasferimento di dati personali oggetto di un trattamento o destinati a essere oggetto di un trattamento dopo il trasferimento verso un paese terzo o un’organizzazione internazionale, compresi trasferimenti successivi di dati personali da un paese terzo o un’organizzazione internazionale verso un altro paese terzo o un’altra organizzazione internazionale, potrà aver luogo soltanto se il titolare e il responsabile del trattamento rispetteranno quanto stabilito dalle norme del Capo V del GDPR.

Risulta, pertanto, abbastanza facile capire come la comunità di ricerca biomedica abbia faticato non poco a condividere i dati con colleghi e consorzi al di fuori dell’UE ed anche perché tema fortemente che le limitazioni previste dal GDPR possano ostacolare la scienza in generale e la scienza biomedica in particolare, nonostante l’obbiettivo dichiarato della normativa privacy di un trattamento dei dati al servizio dell’umanità.

Il trattamento e l’uso dei dati personali nell’ambito della ricerca biomedica

Secondo gli scienziati, le attuali interpretazioni del GDPR non tengono sufficientemente conto e/o non comprendono appieno le modalità di trattamento e di utilizzo dei dati personali nell’ambito della ricerca biomedica, contesto molto particolare e decisamente diverso da altri come – ad esempio – quello del marketing e della profilazione, con la conseguenza di aver in buona sostanza frustrato la condivisione dei dati nella ricerca biomedica globale sin dall’entrata in vigore della normativa.

Di norma nella ricerca – riportano gli autori dell’articolo – i dati vengono utilizzati per ricavare conoscenze generalizzate che vanno a beneficio della società e vengono trattati in modi tali da generare rischi trascurabili per la privacy dei soggetti interessati.

La situazione sul punto si è, peraltro, di molto complicata a seguito della recente sentenza cosiddetta Schrems 2, con cui la Corte di Giustizia ha ritenuto che i requisiti del diritto interno degli Stati Uniti[2] comportino limitazioni alla protezione dei dati personali che non sono configurate in modo da soddisfare requisiti sostanzialmente equivalenti a quelli previsti dal diritto dell’UE e che tale legislazione non accordi ai soggetti interessati diritti azionabili in sede giudiziaria nei confronti delle autorità statunitensi.

Alla luce di tale grado di ingerenza nei diritti fondamentali delle persone i cui dati sono trasferiti verso il suddetto paese terzo, la Corte ha dichiarato invalida la decisione sull’adeguatezza dello scudo per la privacy (Privacy Shield) e ha imposto – come criterio generale – all’esportatore di dati e al destinatario degli stessi l’obbligo di verificare, prima di qualsiasi trasferimento, alla luce delle circostanze del trasferimento stesso, se tale livello di protezione sia rispettato nel Pase Terzo di destinazione.

Ecco che, quindi, alla già nota difficoltà di trasferimento si aggiunge oggi anche la scelta del corretto “strumento” da applicarsi e l’oggettiva complessità di svolgere un’analisi attendibile sul livello concreto di protezione dei dati nei singoli Paesi terzi oggetto del trasferimento.

Critiche anche alle linee guida EDPB

La critica degli scienziati, però, non si ferma al GDPR, investendo anche le recenti linee guida dell’EDPB riguardanti il COVID-19 ed adottate il 21 aprile del 2020, ritenute carenti sotto vari profili, tra cui quelli dell’urgenza, della presa in considerazione del prevalente bene pubblico e del rilievo delle considerazioni scientifiche.

Invero, il Comitato europeo per la protezione dei dati ha sottolineato che il quadro giuridico in materia di protezione dei dati è stato concepito per essere flessibile, così da poter essere efficace nella limitazione della pandemia e nella protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali. “Ove sia necessario ricorrere al trattamento di dati personali per gestire la pandemia causata dal COVID-19” – continuano le Linee guida – “la protezione dei dati è indispensabile per generare un clima di fiducia, creare le condizioni per l’accettabilità sociale di qualsiasi soluzione e garantire, pertanto, l’efficacia di tali misure”.

L’obiettivo dichiarato è quello di utilizzare i dati a favore delle persone e non con l’intento di “controllarle, stigmatizzarle o reprimerne i comportamenti”, con la specifica che i principi generali di efficacia, necessità e proporzionalità debbono guidare qualsiasi misura adottata dagli Stati membri o dalle istituzioni dell’UE che comporti il trattamento di dati personali per combattere il COVID-19.

Il Comitato sottolinea, inoltre, che, con riferimento ai dati relativi all’ubicazione, occorre sempre privilegiare il trattamento di dati anonimi piuttosto che di dati personali, soprattutto affinché la crisi sanitaria non si trasformi in una deroga al principio di limitazione della conservazione. La conservazione, infatti, dovrebbe essere limitata alle esigenze reali e della rilevanza medica e i dati personali dovrebbero essere conservati solo per la durata della crisi e poi cancellati o resi anonimi.

Guardando poi, al caso specifico dei dati dalle app di tracciamento, viene chiarito come gli stessi debbano includere solo identificatori univoci e pseudonimi, “rinnovati regolarmente, secondo una frequenza compatibile con lo scopo di contenere la diffusione del virus e sufficiente a limitare il rischio di identificazione e di localizzazione fisica delle persone”, generati dall’app e specifici per quella app soltanto.

Conclusioni

Di certo, l’avvento del Covid-19 ha costretto (e sta costringendo) tutti a vivere in un momento storico davvero particolare in cui, a fronte dell’eccezionalità della situazione, alle regole sul trattamento dati è stato chiesto di fare “un passo indietro” in virtù della prevalenza di interessi meritevoli di una tutela maggiorata. Certo è che non bisogna dimenticare che le esigenze di ricerca (medica e non solo) non possono pregiudicare a tutti i costi i diritti dei singoli, e pertanto vanno contemperate con altri interessi sulla base del cosiddetto principio del balance test[3].

Da un lato, quindi, va ricordato che il diritto alla privacy non costituisce un diritto assoluto[4], ma può essere limitato ai fini del perseguimento di un obiettivo di interesse pubblico generale preminente o per tutelare diritti e libertà altri, ed infatti l’architettura fondamentale del diritto dell’emergenza ha dimostrato nel nostro Paese di fondare le proprie basi sull’eccezionalità e sulla portata derogatoria rispetto a principi e istituti consolidati del nostro ordinamento giuridico.

Dall’altro canto, tuttavia, come dice giustamente il dirigente del Garante Francesco Modafferi, non bisogna neppure dimenticare che “la «flessibilità by design» della disciplina dei dati personali non va intesa come annientamento o come sospensione della stessa”.

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  1. Linee Guida 4/2020, EDPB.
  2. In particolare, determinati programmi che consentono alle autorità pubbliche degli Stati Uniti di accedere ai dati personali trasferiti dall’UE agli Stati Uniti ai fini della sicurezza nazionale.
  3. Si veda sul punto Considerando 69 GDPR e WP 217 Opinion 06 2014.
  4. Si veda anche Considerando 4 del Regolamento europeo 679/2016.

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