La dignità delle persone si afferma con l’esercizio dei propri diritti, anche in materia di dati personali. E nel caso di un cittadino transgender, subordinare la rettifica dei dati di genere in un elenco pubblico alla presentazione di prove dell’operazione chirurgica di riassegnazione del sesso è una violazione del diritto Ue, come ha sancito la Corte di giustizia dell’Unione europea. La pronuncia è stata espressa in relazione al caso di un cittadino iraniano con status di rifugiato in Ungheria, nato donna ma con identità di genere maschile, che si era visto respingere dall’autorità ungherese la richiesta di rettifica del dato sul genere inserito nel registro dell’asilo con la spiegazione che non aveva fornito prove dell’operazione chirurgica. Aveva però prodotto documentazione psichiatrica e ginecologica attestante la sua transidentità.
La pronuncia della Corte europea “apre un precedente importante sull’interpretazione del diritto Ue – spiega l’avvocata Anna Cataleta, senior partner di P4I -. Ciò significa, dunque, che anche i Paesi Ue storicamente meno sensibili ad alcuni temi inerenti il rispetto dei diritti umani devono adeguarsi a quanto stabilito dai giudici di Lussemburgo”.
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Rettifica dei dati di una persona transgender, il caso
Spiega la Corte europea in una nota stampa che nel 2014 una persona con cittadinanza iraniana aveva ottenuto “lo status di rifugiato in Ungheria invocando la sua transidentità e producendo certificati medici rilasciati da specialisti in psichiatria e ginecologia”. Il cittadino iraniano era nato donna, ma la sua identità di genere è maschile. Il suo status di rifugiato è stato riconosciuto su questa base. Però, il cittadino è stato iscritto dall’autorità ungherese nel registro dell’asilo come donna. Il registro dell’asilo in Ungheria contiene i dati identificativi dei rifugiati che hanno ottenuto tale status, indicando tra le informazioni anche il genere.
Nel 2022 il cittadino ha deciso di chiedere la rettifica del dato sul genere ai sensi del Gdpr in quel registro all’autorità ungherese, ma gli è stata negata tale possibilità. La motivazione adottata dall’autorità locale per respingere la domanda era che la persona non aveva “dimostrato di aver subito un trattamento chirurgico di riassegnazione sessuale”, spiega la Corte Ue.
L’uomo ha quindi fatto ricorso al tribunale. Il giudice ungherese, riconoscendo che il diritto nazionale “non prevede una procedura di riconoscimento giuridico della transidentità” si è rivolto alla Corte di giustizia Ue per chiarire la questione.
La richiesta del giudice ungherese alla Corte europea
Il giudice ungherese ha domandato, per dirimere la questione:
- se il Gdpr impone all’autorità nazionale incaricata della tenuta di un registro pubblico “di rettificare i dati personali relativi all’identità di genere di una persona fisica qualora tali dati non siano esatti”, si legge nella nota,
- se uno Stato membro Ue tramite procedura amministrativa può subordinare l’esercizio del diritto di rettifica di quei dati alla produzione di prove, in questo caso relative all’operazione per la riassegnazione del sesso.
Gdpr e identità di genere, cosa dice la Corte di giustizia europea
Nella sua decisione, la Corte sottolinea l’importanza del principio di esattezza contemplato dal Gdpr. Come spiega Cataleta, la sentenza è “un monito importante nell’interpretazione del principio di esattezza di cui all’articolo 5 paragrafo 1 lettera d del Gdpr, secondo cui l’interessato ha il diritto di ottenere dal titolare del trattamento, senza ingiustificato ritardo, la rettifica dei dati personali che lo riguardano se questi sono inesatti“. In particolare, prosegue Cataleta, “la Corte si sofferma sul fatto che tale principio di esattezza deve essere interpretato alla luce della finalità per la quale i dati stessi sono stati raccolti, nel caso di specie, quello di identificare l’identità di genere dell’interessato”.
E questo, spiega la Corte europea nella sua nota, concretizza il diritto sancito dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea “secondo il quale ogni persona ha il diritto di accedere ai dati raccolti che la riguardano e di ottenerne la rettifica“, valutando che il carattere completo ed esatto dei dati debba essere sottoposto a valutazione in base al fine per cui sono stati raccolti. Osservando che il trattamento di questo caso specifico rientri nell’ambito di applicazione del Gdpr, la Corte europea spiega che sta al giudice ungherese svolgere la verifica dell’esattezza del dato alla luce della finalità per cui era stato raccolto: “Se la raccolta di tale dato aveva lo scopo di identificare la persona interessata, detto dato sembrerebbe riguardare l’identità di genere vissuta da tale persona, e non quella che le sarebbe stata assegnata alla nascita“, scrive la Corte europea.
Diritto di rettifica dei dati e leggi nazionali
Considerando la spiegazione data dalle autorità ungheresi nel rigettare la richiesta di rettifica del cittadino iraniano, la Corte europea ha inoltre precisato “che uno Stato membro non può invocare l’assenza, nel proprio diritto nazionale, di una procedura di riconoscimento giuridico della transidentità per ostacolare l’esercizio del diritto di rettifica“.
Gli stati membri hanno la competenza nel settore dello stato civile e riconoscimento giuridico dell’identità di genere delle persone, ma esercitando questa competenza i Paesi devono comunque rispettare “il diritto dell’Unione, compreso il RGPD, letto alla luce della Carta dei diritti fondamentali”. Dunque per la Corte, il Gdpr “deve essere interpretato nel senso che esso impone a un’autorità nazionale incaricata della tenuta di un registro pubblico di rettificare i dati personali relativi all’identità di genere di una persona fisica qualora tali dati non siano esatti, ai sensi di tale regolamento”.
Il nodo dell’operazione di riassegnazione del sesso e rettifica dei dati
Nella sua decisione, la Corte europea sottolinea che “ai fini dell’esercizio del suo diritto di rettifica, tale persona può essere tenuta a fornire gli elementi di prova pertinenti e sufficienti che possono ragionevolmente essere richiesti per dimostrare l’inesattezza di detti dati. Tuttavia, uno Stato membro non può in alcun caso subordinare l’esercizio del diritto di rettifica alla presentazione di prove di un trattamento chirurgico di riassegnazione sessuale”.
Spiega Cataleta che “una simile previsione, infatti, lederebbe il diritto all’integrità della persona e il diritto al rispetto della vita privata, di cui agli articoli 3 e 7 della Carta dei diritti fondamentali”.
Il requisito dell’operazione per la riassegnazione del genere non è in ogni caso, scrive la Corte, “necessario né proporzionato al fine di garantire l’affidabilità e la coerenza di un registro pubblico, quale il registro dell’asilo, dal momento che un certificato medico, ivi compresa una precedente psicodiagnosi, può costituire un elemento di prova pertinente e sufficiente al riguardo”.
Come da procedura, questa decisione non chiude la controversia nazionale, ma fornisce al giudice locale gli strumenti per risolvere la causa in conformità alla decisione della Corte europea. E non solo: la decisione della Corte vincola allo stesso modo gli altri giudici nazionali che si dovessero trovare ad affrontare una situazione simile.