In poco meno di un anno e mezzo di applicazione del GDPR, come giuristi ci siamo costantemente trovati nella necessità di rispondere alla domanda su cosa fare per essere compliant al regolamento.
La frequenza con cui questa richiesta ci viene rivolta, ci induce a sospettare che qualcosa di importante davvero non funzioni: sospetto condiviso anche dal Garante della Privacy che, non a caso, il 7 ottobre 2019 ci ha informato – attraverso la sua home page – che sta sviluppando un software per l’autovalutazione del grado di adeguamento al GDPR da parte dei titolari del trattamento (coloro che trattano i dati personali altrui direttamente o per interposta persona, definendo in autonomia la finalità del medesimo: ad esempio, marketing, profilazione, studi scientifici, elaborazioni statistiche).
La difficoltà: un’impostazione generica
Perché vi è questa difficoltà di comprensione del GDPR da parte di chi tratta dati personali? Perché alcune autorità di regolazione hanno sentito (è il caso dell’autorità di regolazione francese) e sentono ancora oggi l’esigenza di proporre dei software come quello ora in corso di sviluppo da parte del Garante? La risposta, volendola anticipare rispetto al ragionamento che si svolgerà di seguito è: perché il GDPR è impostato in modo diametralmente opposto rispetto al Codice della Privacy. Laddove quest’ultimo poneva precetti precisi ed incisivi che indicavano cosa si doveva fare, il GDPR, ora, offre ed impone all’utente quasi esclusivamente principi generali, senza designare affatto cosa fare per osservarli. E lo fa in forza di un ulteriore principio generale, per così dire “primario” che ispira gli altri, posti dal GDPR a presidio del trattamento dei dati personali: il principio di accountability. Tale termine, di certo non scelto per caso, significa “affidabilità”, “responsabilità” e nell’ambito del Regolamento appare con la seconda accezione laddove (art. 5, comma 2°) si prevede che “Il titolare del trattamento” deve rispettare una serie di principi espressi ed elencati appena prima (comma 1°) dalla medesima norma, in quanto essi costituiscono i cardini ed i requisiti del trattamento lecito dei dati personali, alla luce del GDPR. Nel fare ciò, per giunta, il titolare del trattamento deve sempre essere in grado di “comprovare” il suo diuturno sforzo ed impegno verso la “compliance” al GDPR: tale atteggiamento, nel suo complesso, viene definito “responsabilizzazione”; vale a dire: “accountability”.
Tale principio generale, applicato al trattamento dei dati personali delle persone fisiche, è poi recepito in altri passaggi del Regolamento della protezione dei dati (articoli 24 e 25). I precetti espressi da quelle norme sottolineano aspetti importanti, anche se in modo piuttosto criptico per il profano. Ci dicono, per esempio, che sulla base della natura, dell’ambito di applicazione, del contesto e delle finalità del trattamento, nonché in considerazione dei rischi per i diritti e le libertà delle persone fisiche (ovviamente caratterizzati da gravità e probabilità differenti in funzione del trattamento specifico preso in considerazione), il titolare del trattamento deve porre in essere misure tecniche e organizzative adeguate in modo da garantire e dimostrare, che il trattamento dei dati personali di volta in volta preso in considerazione sia compliant, con la precisazione che tutto questo deve essere riesaminato ed aggiornato “qualora necessario”.
I compiti del titolare
Si impone pertanto al titolare del trattamento: una prima valutazione in ordine al contesto nel quale il trattamento avverrà; una seconda valutazione afferente i rischi insiti nel trattamento dei dati personali, con particolare riferimento al grado di probabilità dei medesimi ed alla loro gravità; una terza valutazione in ordine alla adeguatezza di misure tecniche ed organizzative, che il titolare del trattamento deve predisporre per dimostrare che i dati vengono trattati conformemente agli altri principi generali posti dal Regolamento (sui quali si rifletterà tra poco). Si precisa inoltre che tutte queste valutazioni generali sono rivedibili in corso di tempo, laddove “necessario” (e naturalmente il perimetro di tale necessità è, di nuovo, piuttosto nebuloso e lasciato alle valutazioni del titolare del trattamento).
Ma non finisce qui! Perché il titolare del trattamento, nel predisporre (sulla base delle valutazioni appena richiamate) tutte quelle procedure, strumenti organizzativi e misure tecniche che il GDPR gli impone di adottare senza dirgli cosa e come fare, deve fare tutto ciò mediante una progettazione, e verrebbe da dire una impostazione mentale che tiene conto del trattamento dei dati personali e delle sue implicazioni “a priori” rispetto ad ogni singolo concreto caso (art. 25). I principi generali che permeano tutto il GDPR impongono al titolare del trattamento complesse valutazioni di ordine giuridico e tecnico, senza guidarlo e abbandonandolo a sé stesso, attribuendogli una discrezionalità apparentemente amplissima (e questo è un grosso problema quando si tratta di capire se ciò che si è fatto, si sta facendo o si farà era, è o sarà corretto); gli impongono di adottare procedure organizzative e strumenti tecnici coerenti con i “principi di protezione dei dati”, dunque ad altri concetti generali ed astratti non a linee guida/istruzioni precise e definite; lo obbligano a progettare la propria attività, laddove essa imponga od implichi il trattamento di dati personali, “a priori”, prima di iniziare una qualsiasi categoria di trattamenti (per esempio: marketing mediante invio seriale di e-mail commerciali).
I principi generali del GDPR
Vediamo allora, per scendere nel concreto (si fa per dire) quali sono i principi generali “di protezione dei dati”, che secondo il GDPR, ove concretamente implementati nel trattamento dei dati personali, rendono lo stesso “compliant”, e soprattutto, “accountable” il titolare del trattamento che “riesce” a metterli in pratica.
Il comma 1 dell’art. 5 a tale riguardo prevede che i dati personali siano: trattati lecitamente (è necessario che il trattamento abbia una copertura giuridica), correttamente (secondo correttezza e buona fede appunto) e in modo trasparente nei confronti dell’interessato” (principi di liceità, correttezza e trasparenza); raccolti per finalità chiaramente individuate, indicate esplicitamente, legittime, e successivamente trattati in modo compatibile con tali finalità (principio di limitazione della finalità del trattamento); selezionati in modo che per qualità e numero siano solo quelli necessari, coerenti e pertinenti con/alla finalità del trattamento (principio di minimizzazione dei dati); esatti e sempre aggiornati rispetto a qualsiasi loro variazione successiva alla loro acquisizione iniziale (principio di esattezza dei dati); immagazzinati in formati e con modalità tali da consentire la loro conservazione “per un arco di tempo non superiore al conseguimento delle finalità per le quali sono trattati”, terminato il quale devono essere immediatamente e completamente cancellati (principio di limitazione della conservazione dei dati); protetti mediante adeguate misure tecniche da trattamenti non autorizzati/illegittimi, dalla loro cancellazione accidentale o malevola e/o dal loro accidentale o malevolo danneggiamento (tutti fenomeni oggi raggruppati sotto l’espressione “data breach”; principio di integrità e riservatezza dei dati).
All’evidenza, si tratta di principi criptici per un titolare del trattamento profano di tutela legale della privacy, e soprattutto, spesso costituiti da clausole generali, che dal punto di vista esecutivo, per chi tratta i dati, si risolvono in veri e propri inviti ad arrangiarsi; e così: i dati devono essere trattati “in modo che non sia incompatibile” con le finalità del trattamento (cosa si debba fare per evitare tale incompatibilità è un mistero); è difficile comprendere cosa significhi l’adeguatezza, la pertinenza e la limitazione dei dati “a quanto necessario rispetto alle finalità per le quali sono trattati”; è spiazzante il dover comprendere la portata dell’obbligo di aggiornamento dei dati, ove agganciato, come nel caso di specie, alla espressione “se necessario”; è difficile essere certi della “adeguata sicurezza dei dati personali” oggetto di trattamento, piuttosto che della “adeguatezza” delle “misure tecniche e organizzative” che devono essere implementate per la protezione dei dati.
Conclusione
È questo, a mio parere, un primo dato da tenere presente: poiché sono venute meno prescrizioni precise, e poiché esse sono state sostituite da principi generali che non dicono all’utente cosa fare per adempiervi, la domanda “cosa si deve fare per essere in regola col GDPR?” non era e non è corretta. La domanda corretta dal 25 maggio 2018 in avanti avrebbe dovuto, dovrebbe e dovrà essere: “Come ci si deve porre rispetto al trattamento dei dati personali delle persone fisiche per adempiere ai principi generali posti dal GDPR?”.
In altre parole, si dovrebbe cambiare l’approccio alla normativa, se non altro, da parte di chi è obbligato ad adempiervi, e ciò, come conseguenza ineludibile della nuova radicalmente diversa impostazione conferitale dal legislatore; adottando una filosofia progettuale ove il trattamento dei dati personali (che, sia chiaro, coincide con qualsiasi utilizzo dei medesimi, arrivando fino alla loro mera consultazione) è visto come un complesso di procedure, strumenti organizzativi, misure di sicurezza tecnologiche assemblati in modo per così dire sartoriale dal titolare del trattamento e/o dai suoi consulenti, sulla base delle esigenze specifiche del contesto e dei principi sopra sinteticamente esaminati.
Cercare nel GDPR indicazioni precise in ordine a cosa sia necessario fare per essere adempienti, a fronte del principio di “accountability” è dunque ormai impensabile; e perseverare in ciò significa andare incontro a risposte insoddisfacenti (come è successo sino ad ora) e, purtroppo, a sanzioni assai dolorose, soprattutto, potenzialmente fatali per l’attività del titolare del trattamento.