L’annuncio della chiusura di Google+ al pubblico consumer nel 2019 – che di per sé non arriva certo come un fulmine a ciel sereno – è un fatto importante se lo vediamo come un campanello d’allarme. Il segnale che ci ricorda com’è cambiata la rete e che cosa sono diventati i social network, ormai, oggi nel 2018.
Già, perché la morte di Google+ non è solo la morte di una piattaforma non riuscita. Ma è la morte di un modello di rete che ha caratterizzato internet nei suoi primi anni. Ormai soppiantato da social network chiusi e divisivi.
G+, cronaca di una morte annunciata
La piattaforma, nata nel 2011 sulle ceneri di altri progetti di Big G, a loro volta chiusi nel giro di pochi anni o addirittura mesi, non ha mai brillato particolarmente ed è sempre rimasta nell’ombra di Facebook, nonostante il pedigree del suo illustre genitore.
Che potesse prima o poi chiudere i battenti era assolutamente nell’aria e non stupisce più di tanto (c’è piuttosto chi si è stupito del fatto che questa piattaforma fosse ancora attiva), ma sul come e sui perché di questa decisione bisogna necessariamente interrogarsi.
Intanto va detto che Google+ non chiude subito, ma nel 2019. Fino alla fine di agosto gli utenti potranno scaricare i propri contenuti e dire addio alla piattaforma in modo graduale. Poi G+ rimarrà attivo solo per le aziende, come piattaforma ad uso interno, come Facebook Workplace, e in fondo, il senso più alto di questo progetto è stato sin dall’inizio quello di favorire la collaborazione tra le persone. Ma non è questo il motivo della decisione di relegare G+ agli ambienti chiusi delle aziende e delle organizzazioni.
Un data leak alla base della chiusura di G+
Alla base di questa decisione c’è la scoperta di un bug nelle API della piattaforma, che secondo Big G sarebbe stato individuato e corretto a marzo 2018 e che avrebbe esposto i dati contenuti nel profilo di circa 500.000 utenti. Questa vulnerabilità, secondo quanto dichiarato da Google a seguito della diffusione della notizia riportata dal The Wall Street Journal, potrebbe nel periodo tra il 2015 e il 2018 aver lasciato nelle mani degli sviluppatori di terze parti i dati dei profili degli utenti. Non soltanto i dati condivisi in forma pubblica, ma anche quelli privati.
Un nuovo caso di data leak che, unito agli altri emersi in questi mesi e che hanno interessato molte piattaforme sociali, Facebook tra tutte (vedi scandalo Cambridge Analytica), rilancia l’allarme e l’urgenza di ridefinire non soltanto la privacy e la sicurezza dei social media, ma anche il loro ruolo e il senso della presenza e della condivisione da parte di persone e aziende.
Nel frattempo, e ormai da alcuni anni, il successo di piattaforme “chiuse” come Whatsapp (e più in generale del cosiddetto “dark social”), soprattutto tra i giovanissimi, sembra essere un chiaro indizio che i social come li conosciamo siano prossimi all’estinzione, più che ad un semplice riassetto.
La molla del cambiamento
La molla di questo cambiamento ha molte forme e facce differenti. Per quel che riguarda i giovanissimi lasciare le piattaforme aperte per le chiuse ha significato difendere la propria privacy da genitori, nonni, zii, parenti, insegnanti e conoscenze moleste, indesiderate o invadenti. Per molti altri la scintilla è riconducibile ai molti episodi negativi scaturiti da usi impropri o illeciti della Rete, dalle molestie al bullismo, passando attraverso furti di dati e di identità, spam e violenze di vario genere.
Quella che all’inizio, nell’era delle prime chat e forum e ancor più dei blog e dei social media (web 2.0) era stata la grande illusione di poter tutti disporre di piattaforme con una platea potenzialmente universale, si sta oggi spegnendo, sacrificata sugli altari (sacrosanti) della privacy, della sicurezza e ancor più della constatazione che tutto questo ha potuto funzionare soltanto all’inizio.
Quell’era felice, che ricorda vagamente quella dei Pastori dell’Arcadia, in cui a frequentare i social media erano in pochi e per lo più “smanettoni della Rete”. Gente curiosa, entusiasta e motivata ad utilizzarli per networking, per lavorare meglio, per creare nuove sinergie e opportunità, anziché per vomitare rabbia e frustrazione o, peggio, per approfittare di queste piattaforme per rubare dati, per insidiare le persone, per fare affari illeciti, etc.
Il web motore di iniquità e divisione
Del resto, quello che sta accadendo non è molto diverso da quanto è accaduto nelle varie epoche di quell’urbanesimo che ha cambiato il mondo e la società. È ciò che è successo passando dalla vita nei piccoli borghi, in cui ci si conosceva tutti e si poteva tenere aperta la porta di casa senza paura dei ladri, a quella nelle grandi città, in cui le porte devono essere blindate e non si può girare nelle strade senza guardarsi attorno con circospezione.
Prenderne atto è doveroso, sia dal punto di vista personale che professionale. Ridefinire la presenza e l’attività su questi canali è oggi urgente e inevitabile. Di recente Sir Tim Berners Lee, il padre del WWW, ha affermato che, a distanza di oltre 25 anni dalla sua nascita, il “web è ora un motore iniquità e divisione” usato per fini personali e spesso illeciti. Qualcosa di molto diverso dal World Wide Web che ha riscritto la storia delle relazioni umane e della conoscenza.
In questi anni la poesia dell’Arcadia non è svanita, perché la maggior parte dei pionieri del Web è ancora in Rete e continua a credere in questo grande strumento, ma il rumore di fondo è diventato insopportabile e con esso i rischi connessi all’utilizzo delle sue piattaforme e strumenti.
Ecco perché occorre rivedere il modo in cui ognuno di noi si approccia a questa grande opportunità. Se è vero che Facebook e pochi altri sono riusciti a stanare centinaia di migliaia di “topolini” che, prima dell’era delle piattaforme sociali aperte, si interfacciavano privatamente tra loro nel “dark web” rappresentato allora da strumenti come IRC, portandoli alla luce, è anche vero che questo è avvenuto nel modo più spensierato e leggero che si potesse immaginare. I social media hanno esposto milioni di persone (oggi miliardi) a una Rete che allora non era in grado di garantire la privacy, la sicurezza e la relazione, finendo per far scappare via molti e per esasperare tutti gli altri, fino all’orlo di questo baratro.
Io sono la rete
La fine di Google+ non rappresenta un dramma per la Rete, ma per chi in questo fluido marasma ha liberamente deciso di nuotarci deve necessariamente suonare come un campanello d’allarme. Possiamo ridere quanto vogliamo della pecora nera G+ e della sua morte annunciata, ma il motivo di questo decesso deve aprire in noi una riflessione importante, senza la quale continueremo a nuotare come dei pesci impazziti nella corrente fredda e violenta di un Web senza futuro.
La ricetta? Prendere coscienza e consapevolezza di cosa sia davvero la Rete. Non uno strumento, non un mezzo, non un canale, ma “tutti noi, connessi” (newclues.cluetrain.com). La Rete non è buona né cattiva, ma è quello che ciascuno di noi fa, giorno dopo giorno. Esattamente come accade fuori, offline.
Il mantra per venirne a capo? “Io non uso la Rete. Io sono la rete” e no, oggi non mi sento troppo bene.