A sei mesi dalla piena operatività del GDPR possiamo fare qualche considerazione sulle conseguenze che il nuovo regolamento europeo sulla protezione dei dati personali potrà avere sulle aziende italiane e sui loro clienti, partendo da quello che il GDPR non deve essere e finendo con un consiglio: occhio ai talebani del nuovo regolamento. Ma andiamo con ordine.
Quello che il GDPR non deve essere
Sicuramente comincia ad essere più chiaro quello che il GDPR non deve essere:
- Non deve essere (solo) un adeguamento burocratico (“Ho (ri)fatto le nomine a tutti, ho nominato il DPO, sono a posto…”)
- Non deve essere (solo) un adeguamento tecnologico (“Ho comprato il firewall, ho comprato un software per fare il registro dei trattamenti che mi risolve tutti i problemi …”)
- Non deve essere (solo) la paura delle sanzioni (“potresti prendere una multa fino a 20 milioni di euro, se non ti adegui subito …”)
- Non deve essere (solo) l’ennesimo costo aggiuntivo che grava sulle aziende (“con 300 euro ho fatto tutto…”)
E allora, cos’è questo GDPR?
A questa domanda, io rispondo semplicemente che deve essere prima di tutto una presa di consapevolezza, un percorso di crescita anche culturale che devono fare insieme le aziende ed i clienti in relazione ai dati trattati.
Sì perché, prima di iniziare ad “adeguarsi”, occorre prima di tutto capire quali sono i dati e le informazioni che sono gestiti e soprattutto il loro valore per l’azienda stessa e per gli interessati.
La “digital transformation” inizia proprio dalla individuazione e conoscenza del valore dei dati gestiti. Sul server aziendale o sul nostro pc ci sono centinaia di GByte, perché non si cancella mai nulla, ma quasi mai sappiamo esattamente cosa contengono con precisione le centinaia di directory create.
Non sappiamo cosa abbiamo in casa e che valore ha.
Quanto valgono i nostri dati
Siamo portati a pensare che i nostri dati valgano poco o niente (“a chi vuoi che interessi sapere gli affari miei, non son mica la NASA…”), fino a quando non iniziamo a valutare l’impatto che può avere se finiscono in mani sbagliate.
E allora cominciamo a scoprire che sapere il reddito, le assenze, lo stato di famiglia di un dipendente, i partecipanti ad un corso di formazione, i log di navigazione, le abitudini dei clienti, la loro posizione, le foto della festa aziendale, la valutazione dei fornitori possono essere tutte informazioni interessanti, che rendono vulnerabile e magari ricattabile sia l’azienda che l’interessato.
Penso sia noto a tutti che la prima causa di incidenti informatici sono i comportamenti delle persone. Ma questo è, secondo me, proprio perché manca la consapevolezza del valore dei dati. Lascereste 100 euro sulla scrivania prima di andare a pranzo? E allora perché lasciate il pc accesso senza neanche una password sul salvaschermo?
Il Gdpr, un aiuto per viaggiare sicuri
Se vogliamo, è proprio qui l’essenza principale del GDPR, un insieme di regole condivise per proteggere le nostre informazioni personali. Spesso si pensa che questa regolamentazione sia un impedimento alla gestione dei dati, in realtà nasce proprio dalla volontà di favorire la circolazione delle informazioni. È un po’ come il codice della strada, è fatto per viaggiare più sicuri, non per impedire la circolazione.
Uno degli adempimenti più importanti è infatti proprio l’”informativa”, brutto nome, perché ha un sapore di un qualcosa di burocratico, ma è l’elemento portante, è il patto tra il cliente che affida i suoi dati e l’azienda che deve gestirli. Dareste 100 euro al primo che passa senza neanche chiedere cosa intende farne? Ecco questa è l’informativa, cioè l’insieme di informazioni che viene dato all’interessato per aumentare la sua consapevolezza e fiducia.
Le aziende sono e saranno quindi sempre di più obbligate ad un ripensamento della loro organizzazione proprio in relazione ai dati gestiti (“data centric”) e al loro valore.
La principale misura di sicurezza è la formazione
Spesso si confonde la sicurezza informatica con la sicurezza delle informazioni, ma ridurre le contromisure ad una soluzione tecnologica non risponde ai requisiti del GDPR che parla di misure “tecnico-organizzative”, dove in gran parte dei casi ci dimentichiamo che la sicurezza parte prima di tutto dall’organizzazione. Non a caso, la misura di sicurezza più importante è proprio la formazione, che serve per aumentare la consapevolezza e la conoscenza delle minacce a cui si può essere sottoposti, non c’è malware che tenga se l’utente è sprovveduto.
Adeguarsi al regolamento europeo significa prima di tutto ridisegnare l’intera circolazione dei flussi dei dati all’interno dell’azienda, definendo il livello di rischio a cui sono esposti, in funzione del loro valore, delle minacce a cui sono esposti e delle contromisure applicate. Ecco perché il regolamento ha introdotto il registro delle attività di trattamento come strumento fondamentale per obbligare a mappare i processi all’interno delle aziende e valutarne il rischio associato.
Tutela dei dati: non c’è solo la privacy
Ricordiamoci sempre che la data protection non comprende solo la difesa del diritto alla riservatezza, ma anche la difesa della integrità e disponibilità dei dati. Spesso noi identifichiamo la privacy esclusivamente con la riservatezza, ma un “data breach”, cioè una violazione dei dati può essere anche solo la distruzione dei dati o la conservazione di dati non corretti. Per cui, anche solo chi conserva il dato realizza un trattamento, e come tale va conseguentemente considerato. Ad esempio, chi offre servizi di hosting in cloud va considerato a tutti gli effetti un responsabile esterno (“processor”) pur non accedendo necessariamente al dato.
La difficoltà nostra italiana in termini di privacy nasce proprio dal decreto 196, che pur essendo una legge molto valida, aveva un approccio paternalistico, che tendeva a dirti nel dettaglio cosa si poteva e non si poteva fare, come il famoso allegato B in cui si specificava anche il numero minimo dei caratteri delle password.
Occorre invece tenere a mente che il GDPR non è formale, ma sostanziale. Serve a poco avere fatto la lettera di incarico ai dipendenti, se questi non sono opportunamente informati e formati, così come nominare responsabili esterni senza condividere i contenuti dell’accordo e le misure di sicurezza da mettere in campo.
L’approccio del GDPR è basato sul principio della responsabilizzazione, è come se i figli (i titolari) fossero diventati improvvisamente grandi, obbligati a prendere decisioni con valutazioni proprie e non su consultazioni preventive del garante.
Attenzione ai talebani del GDPR
E, per finire, un consiglio: attenzione ai talebani del GDPR che girano indisturbati travestiti da consulenti e DPO.
Sono quelli che minacciano ad ogni occasione le famose sanzioni fino a 20 milioni di euro, sono quelli che ad ogni domanda rispondono “perché lo dice il regolamento”, senza mai ricordare che le sanzioni sono “fino ad un massimo di…” lasciato nei poteri discrezionali delle autorità nazionali, e che la maggior parte del regolamento è basato su principi generali, e che forse sarebbe meglio leggere attentamente le linee guida dei garanti o del WP29.
Considerare “profilazione” semplicemente un ordinamento di un file clienti per CAP, obbligare alla cifratura indiscriminata di tutti i database, non utilizzare mai il legittimo interesse o usare solo il consenso come base giuridica valida sono solo alcuni esempi di estremismi che possono bloccare le attività delle aziende e questa è proprio l’ultima cosa per cui il regolamento è stato scritto.