Nell’era delle fake news e dell’hate speech, molto è stato scritto contro l’uso (e l’abuso) dello pseudonimo, una scorciatoia per gettare il sasso e nascondere la mano, disinformando e insultando personaggi noti dietro la maschera di un nome fasullo.
Tuttavia, sotto le democrature e i regimi autoritari, l’utilizzo dello pseudonimo ha consentito a tanti dissidenti di dire ciò che pensavano liberamente, anche se. Ovviamente, non basta un nom de plume per proteggere un dissidente sotto le più feroci dittature: a chi si oppone a un regime serve invece una cassetta degli attrezzi ben più solida per cercare di essere anonimi, spaziando dalla Vpn alla crittografia forte.
Il dibattito su nomi legali, pseudonimi e soprannomi è comunque molto più complesso di quanto si creda e si intreccia con questioni quali la libertà di espressione e il controllo delle big tech sui nostri dati: esaminiamone alcune sfaccettature, partendo da un episodio recente.
L’odio sui social è un business: ecco perché le piattaforme fanno poco per frenarlo
L’ondata razzista sui social media dopo la finale UK-Italia agli Europei
A inizio luglio, quando agli Europei l’Inghilterra ha perso la finale contro l’Italia, alla sconfitta è seguito sui social media uno tsunami di insulti razzisti indirizzato contro i giocatori neri della squadra britannica. I messaggi, modellati su un certo bigottismo, sono stati condannati dai politici, dalle piattaforme social, dalle squadre di calcio e dai tifosi.
Sotto attacco è anche finita la familiare figura, rispuntata ultimamente, del “troll mascherato“, il leone da tastiera, i cui rigurgiti xenofobi, si materializzano sui social network dietro ad account pseudonimi. La fonte di ogni disinformazione. Uno dei bracci armati dei bot. Il leader di ogni mobilitazione online. Accusato di essere un hacker (ma l’hacking è etico e nulla ha a che fare con questo sottobosco), a volte un cracker, altre un truffatore. Il troll mascherato ha anche una mascotte: un ragazzo con la felpa alla tastiera, volto oscurato nell’ombra, ad eccezione per un sorrisetto maligno. Nell’immaginario popolare, opera sotto falso nome o con uno pseudonimo scelto ad arte.
Ciò spiega perché sempre più spesso le persone facciano pressione per smascherare chi si cela dietro lo pseudonimo. Anche in Italia, alcuni parlamentari da anni provano a chiedere normative stringenti per imporre alle piattaforme che si acceda su Twitter o Facebook solo dopo aver inviato i propri documenti d’identità: si tratta di proposte controverse che, dopo aver sollevato aspre critiche, sono sfumate nel nulla in quanto farraginose e impraticabili oppure perché limitavano la libertà d’espressione dei cittadini. Ma il solo fatto che membri del Parlamento si siano esposti per proporle, rende l’idea della difficoltà e complessità a contenere l’hate speech nell’alveo del dibattito democratico.
Anche nel Regno Unito l’episodio xenofobo che ha colpito i calciatori di colore della squadra inglese, ha riportato in agenda la richiesta alle Big tech per l’enforcement della verifica dell’identità degli utenti delle piattaforme.
L’insofferenza verso l’abuso dello pseudonimo
Il New York Times ha verificato che sfiora le 700 mila firme una petizione al governo britannico per la richiesta di verificare l’identità di chi apre un account sui social media. L’editorialista del New Statesman, Paul Mason, ha scritto una frase lapidaria: “Abbiamo il diritto alla libertà di espressione come cittadini reali, non come persone fasulle”.
L’odiosa ondata razzista registrata sui social media, forse, ha anche un risvolto meno pessimista, secondo una curiosa interpretazione di ciò che è avvenuto: la xenofobia è talmente stigmatizzata in UK da costringere chi vuole ricorrere a espressioni razziste a usare uno pseudonimo. Chi è razzista non osa “metterci la faccia” e il proprio nome e cognome, ma può esserle solo sotto falsa identità, ricorrendo a un fake. Deve servirsi di uno pseudonimo.
L’elogio dello pseudo-anonimato: rivalutiamo i nickname?
Ma questa lettura dei fatti potrebbe avvicinarsi a come funzionano veramente le cose. Da decadi l’identità è sotto controllo centralizzato: le identità digitali e offline sono sempre più interconnesse e mescolate, mentre i dati personali diventano una commodity globale. Il controllo sull’identità inizia a sembrare, in effetti, sempre più un privilegio minacciato che un diritto. Per esistere online, ci viene continuamente richiesto di metterci in mostra.
L’anonimato e lo pseudo-anonimato sopravvivono da decenni, anche se sono sempre più spesso messi sul banco degli imputati, accusati di mandare Internet in rovina.
L’abuso degli pseudonimi da parte di cattivi player ha creato equivoci su questa pratica vecchia quanto i primi Bulletin Board System. Una cattiva fama, non suffragata da studi, affligge l’anonimato. Ma dalla letteratura scientifica che indaga sui comportamenti online degli utenti, emerge che chi usa pseudonimi tende ad essere più ligio alle regole di chi utilizza il proprio nome e cognome. Lo riporta il ricercatore J. Nathan Matias.
Più della metà delle vittime di molestie conosce il nome vero del proprio molestatore. C’è scarsa evidenza del nesso fra mitigare gli abusi e le policy sull’uso dei nomi reali al posto dei nickname. Invece il fenomeno degli abusi s’intensifica all’aumentare delle richieste di esposizione di maggiori informazioni private: i ricercatori infatti hanno scoperto che, in alcuni contesti, i commentatori più aggressivi tendono a rivelare le loro vere identità.
Il valore della privacy, oltre la cortina fumogena del dark web
Thais Sardá, ricercatrice della Loughborough University, lecture all’Università di Trento, ha analizzato circa due decenni di stampa britannica, scoprendo che la copertura degli spazi anonimi, spesso imprecisamente definita dark web, è stata sostenuta da una caratterizzazione per lo più negativa dell’anonimato. Solo in casi eccezionali, vengono riportati casi positivi di anonimato (o pseudo): per esempio, ha senso per i cyber-dissidenti, ma ci si chiede a cosa serva per chi non ha nulla da nascondere.
Rispondendo alla recenti richieste di fine dell’anonimato, il giornalista Hussein Kesvani ha ancora una volta illustrato che, cancellando l’anonimato, non verranno purtroppo cancellati gli abusi legati al razzismo. Inoltre, costringere i più vulnerabili a spogliarsi dello pseudonimo potrebbe peggiorare la loro situazione. Kesvani ha poi elencato altre perdite minori, ma a carattere universale a cui assisteremmo col tramonto dell’anonimato.
Al New York Times, Kesvani, autore di un libro sulla vita dei giovani musulmani, ha spiegato che l’anonimato (e lo pseudo-anonimato) rappresentano per questi ragazzi l’unica via per sfuggire alle gabbie imposte dalle loro famiglie, per esplorare oltre i confini della loro comunità d’origine e per socializzare. Sono le ragioni che accomunano tutti noi, donne e uomini, nella comunicazione online: la ricerca della libertà nella privacy, fuori dagli stereotipi e dai pregiudizi, fuori dalle etichette e dalle gabbie pre-costituite. Il desiderio di privacy, online e nella vita offline, è ineludibile e accomuna tutti gli esseri umani.
L’origine dei conflitti sull’identità online
Le costrizioni e gli obblighi della vita reale si allentano, fino a sfumare, nei forum online. Ma l’ascesa delle piattaforme social ha reso più raro l’utilizzo di pseudonimi. Ed è sorta questa aspettativa sull’allineamento fra vita reale e social: “Se non dici ciò nel mondo reale, perché dovesti dirlo in rete?”.
I conflitti sull’identità online sono vecchi quanto Internet, dai tempi delle BBS delle mailing-list negli anni ’90. Su Usenet nessuno voleva utilizzare l’account email di lavoro, con il dominio militare, governativo o accademico in cui operava nella vita reale, e l’unica soluzione per comunicare liberamente consisteva nel servirsi di nickname per mascherare la propria identità, evitando di dover rispondere a domande imbarazzanti sul proprio vero lavoro. Le persone cercavano solo spazi in cui comunicare liberamente e non maschere per celare la propria frustrazione. I troll c’erano, ma venivano marginalizzati dalle persone più competenti. Probabilmente è stata l’età aurea della costruzione dell’identità online. Poi, abbiamo assistito al marketplace delle identità: non identità anonime, ma con l’aspirazione allo pseudonimo.
La nascita di MySpace, all’alba del Web 2.0, ha coinciso con la ricerca da parte degli utenti di costruirsi una propria identità sui social network: lontana dagli sguardi degli insegnanti e dei colleghi di lavoro. In questo contesto, non ha senso chiedere a qualcuno se oserebbe dire/fare online qualcosa che non direbbe/farebbe mai nel mondo reale: equivale a chiedere se una persona agirebbe allo stesso modo accanto agli amici più intimi come farebbe davanti ai genitori. Una domanda assurda.
L’arrivo di Facebook, e soprattutto la sua apertura universale, è coinciso con la concentrazione di tanti social network in un unico grande nuovo contesto dove disparate norme e aspettative di chi proveniva da altri social si sono fuse insieme, in maniera disordinata, dopo essere state gettate in un frullatore.
La richiesta di usare il “vero nome” nel 2014 è stata uno choc, e non solo nella comunità transgender, dove il nome “reale” non coincide con quello “legale”. I nomi legali non sono sempre sinonimo di sicurezza e mutua accountability. Non significano sempre “comunità e affidabilità”, ma in certi contesti denotano l’altra faccia della medaglia: esposizione, rischio, vulnerabilità.
Nel fenomeno QAnon, molti utenti condividono molti contenuti cospirazionisti sotto il loro nome vero. Senza usare pseudonimi.
Le controversie sui nomi legali, pseudonimi e soprannomi attribuita è dunque più complessa di quanto si creda. E, del resto, le tecnologie di riconoscimento facciale, che rappresentano la più grande minaccia contro la privacy, puntano a mettere insieme tutte le identità, provenienti dai più disparati social, sotto il cappello di un unico nome. E, nell’economia dei dati, sono gli inserzionisti, i data broker e molti altri player che vogliono sapere tutto degli utenti, dai loro pseudonimi alle loro molteplici identità.
Il controllo delle identità nell’economia dei dati
La necessità del controllo delle identità è dunque legato all’economia dei dati. Ma il 22% degli americani, secondo una ricerca di Emily van Duyn, assistente all’Università dell’Illinois, desidera nascondere le sue conversazioni politiche agli altri, e ciò avviene sia fra i repubblicani che i democratici: è il fenomeno della “marginalizzazione contestuale”.
Facebook ha utenti più adulti, perché i giovani gravitano laddove non c’è richiesta di “nomi reali”: app – come Snapchat o TikTok e non solo – piattaforme di videogiochi e servizi dove lo pseudonimo è tuttora vivo e vegeto.
La realtà virtuale (Virtual reality o VR), la realtà aumentata (Augmented reality o AR) e i mondi virtuali che sopravvivono (metaversi) sono più vicini alla filosofia del 2001 che del 2021: promettono alle persone di essere sé stesse o rappresentarsi come credono e connettersi con i loro pseudonimi.
Le aziende più potenti al mondo, le Big tech, hanno successo grazie al controllo delle nostre identità da cui estraggono dati che valgono miliardi di dollari. Ma il desiderio del semi-anonimato va in conflitto con il controllo. Un Troll vuole controllare chi sa cosa su di sé; i giovani cercano spazio per esplorare, i vecchi per reinventarsi. Il desiderio di apparire differenti a persone diverse è comune a tutti. Il successo di OnlyFans, un sito in abbonamento dove le persone condividono contenuti esclusivi ed espliciti, è uno spazio dove le identità sfumano e sono costruite all’insegna della discrezione, legalità e sicurezza. Forse, chissà, un’era sta finendo e il tramonto è dovuto al cambiamento di abitudini.