l'analisi

Immuni, funzionalità vuol dire fiducia: ecco la vera sfida

Ragionare su modi e forme attraverso cui adottare un’app di tracciamento dei contatti in ragione della pandemia di Covid-19, vuol dire affrontare una questione che merita, per la sua delicatezza, il massimo dell’attenzione. Bene ha fatto il Governo ad approvarne l’uso con un decreto legge e non con un Dpcm. Vediamo perché

Pubblicato il 04 Mag 2020

Francesco Clementi

Professore di diritto pubblico comparato – Università degli Studi di Perugia

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A distanza di oltre tre mesi dalla dichiarazione di emergenza (31 gennaio), si può e si deve arrivare a dire che il tempo dei dpcm è finito. E che si deve aprire una nuova fase, che viva di provvedimenti di legge.

E’ una buona notizia, in questo senso,  la decisione del Governo di approvare l’utilizzo di un’app mobile di tracciamento dei contatti per mezzo di un decreto legge. Certo, mancano ancora – come vedremo – diversi chiarimenti in merito alle funzionalità di Immuni (e non di poco conto), ma sembra ci si stia avviando sulla buona strada per infondere nei cittadini quella fiducia necessaria affinché l’app abbia la diffusione adeguata per avere efficacia nel contenimento dei contagi nella Fase 2.

La contrazione delle libertà ai tempi del Covid-19

Per chiarire meglio, partiamo da un dato di fatto: l’esplosione della pandemia di Covid-19 ha visto adottare in molti ordinamenti atti fortemente restrittivi pure delle libertà fondamentali a tutela della sicurezza di tutti. In questo quadro, dentro un principio di attento bilanciamento delle libertà e dei diritti, in particolare tra il diritto alla salute e quello alla privacy, anche il nostro Paese si sta per dotare quindi di un’app (Immuni quella scelta dal Governo) di tracciamento dei contatti e di allerta.

La questione in sé non è di poco conto. Non da ultimo perché questa scelta va di pari passo con la revoca graduale delle misure di confinamento che sono state adottate. Si viene così a legare in modo evidente il ripristino delle libertà compresse (a partire innanzitutto da quella di circolazione) ad uno strumento che mira, al tempo stesso, a vincolarne il loro esercizio, a misurarne la loro estensione, a determinare insomma, proprio in ragione del ripristino del loro uso, cioè del ritorno all’espansione di quelle libertà, conseguenze su altre libertà; in particolare riguardo alle potenziali lesioni della privacy dei singoli cittadini derivate dall’utilizzo, appunto, di un’applicazione mobile.

Si dirà che nessuna libertà, d’altronde, è totalmente libera dalle altre: vero. Ma proprio per questa ragione deve essere ben chiaro al legislatore che il necessario bilanciamento tra le stesse oggi passa, appunto, anche da un’applicazione mobile. Fatto non così evidente, almeno all’inizio, a molti.

Per cui, ragionare intorno ai modi e alle forme attraverso le quali adottare un’applicazione mobile di tracciamento dei contatti e di allerta in ragione della pandemia di Covid-19, vuol dire affrontare una questione che merita, proprio per la sua delicatezza, il massimo dell’attenzione, innanzitutto da parte del Legislatore che la deve adottare.

D’altronde, come è ormai noto, per prevenire il coronavirus nel nostro Paese, il Governo ha progressivamente approvato una serie di provvedimenti di emergenza, per lo più fondati su decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri (dpcm), poi sanati attraverso decreti-legge; una situazione di marginalizzazione del Parlamento che ha portato addirittura uno studioso oggi parlamentare, l’onorevole Stefano Ceccanti, a proporre per questa fonte del diritto – il dpcm – un serio scrutinio e controllo parlamentare tramite un parere preventivo, obbligatorio ma non vincolante, con un tempo certo di una settimana. Si tratta di una proposta importante anche perché scoperchia il velo di ipocrisia di una strategia normativa del Governo che, per lo più a parole, è vissuta di un dialogo con il Parlamento, ma che invece si è sostanziata, durante una lunga parte del periodo di emergenza, di forti criticità, innanzitutto denotate dall’assenza di confronto reciproco.

Peraltro, come molti hanno fatto notare, l’uso di una fonte normativa di rango secondario per disciplinare questa emergenza è stato altamente problematico, non da ultimo perché i dpcm si sono sostanziati di contenuti ampi e flessibili rispetto a quanto stabilito dalla stessa legge che dà loro fondamento; arrivando così a delineare – in ragione appunto di un potere extra ordinem del Governo – una normalizzazione amministrativa dell’emergenza. Una scelta, peraltro, difficilmente spiegabile di fronte alla presenza di uno strumento normativo ad hoc che la Costituzione prevede, all’art. 77, proprio «in casi straordinari di necessità e di urgenza», ossia il decreto-legge.

Basta coi Dpcm

E’ arrivato dunque il tempo, come si diceva, di aprire una nuova fase, che viva di provvedimenti di legge.

In questo senso, la scelta del Governo di approvare l’uso di un’applicazione mobile di allerta dei contatti con un provvedimento di legge, un decreto legge, è già in sé – tenuto conto appunto del contesto e della strategia normativa perseguita dal Governo in questa emergenza – una notizia positiva, perché riporta nell’alveo della normalità, se così si può dire, quella che è inequivocabilmente una decisione molto forte sul piano dei diritti e delle libertà.

Tenere traccia, seppure per un periodo limitato, dei contatti tra i dispositivi degli utenti con questa app, vuole dire infatti toccare il cuore più profondo della nostra libertà personale: una scelta che impone un continuo e attento bilanciamento tra la tutela della salute – si badi: l’unico diritto che nel testo costituzionale viene sottolineato come fondamentale – e la tutela della propria privacy e, amplius, della propria libertà personale.

Una strada comune europea

Ciò diviene ulteriormente rilevante non da ultimo perché questo testo emerge da un percorso comune europeo, delineato dal 15 aprile, dalla Presidente della Commissione europea e dal Presidente del Consiglio europeo, poi dalla raccomandazione (UE) 2020/518 relativa a un pacchetto di strumenti comuni dell’Unione per l’uso della tecnologia e dei dati al fine di contrastare la crisi Covid-19 e poi, infine, dal “Common EU Toolbox for Member States” dell’ eHealth Network; tutti elementi utili a definire una strada comune, appunto, nell’ambito delle misure di contenimento durante gli scenari di de-escalation dalla epidemia.

Il formato comune europeo, infatti, protetto innanzitutto dalla normativa europea delineata dal Gdpr (Regolamento n. 2016/679), come è stato da più parti evidenziato, offre una tutela maggiore, in longitudine e in latitudine, rispetto a quello asiatico (Singapore, Corea del Sud e Cina), in quanto si basa saldamente, tanto sulla costruzione teorico-concettuale del costituzionalismo europeo (in primis: diritti e garanzie per i singoli e le collettività), quanto sulla strategia di difesa degli elementi chiave di un modello democratico che vede nella società aperta e nello Stato di diritto, gli argini a potenziali derive autoritarie, eventualmente pure attraverso questi nuovi strumenti in capo agli esecutivi.

Ben venga dunque la scelta per un formato europeo, a maggior ragione tenuto conto che questi strumenti – compresa la app in corso di adozione nel nostro ordinamento – perseguono una serie di obiettivi specifici: ricercare ed allertare rapidamente il maggior numero possibile di contatti con un caso confermato di COVID-19 (invitandoli ad isolarsi e socializzando ai loro contatti il fatto, in modo da invitarli se possibile ad una auto-quarantena) e, al tempo stesso, valutare se l’insieme dei dati anonimi e aggregati raccolti possano contribuire ad un contenimento locale da parte delle amministrazioni (anche se si prevede che il database con tutte le informazioni sarà eliminato alla fine dell’emergenza Covid, tenuto conto pure che dovrà essere cancellato entro il 31 dicembre 2020).

Una prima valutazione del decreto legge

Su questa base, allora quale valutazione, a prima vista, esprimere?

Il testo, complice anche l’intensa attività del Parlamento che intorno è avvenuta (dalle audizioni al Copasir agli interventi di molti esponenti politici), sembra aver fatto propri molti dei rilievi via via emersi:

  • non si prevede così alcuna forma di penalizzazione per chi deciderà di non scaricare l’applicazione, posto che questa sarà scaricabile in maniera volontaria e il mancato utilizzo non comporterà alcuna limitazione o conseguenza in ordine all’esercizio dei diritti fondamentali;
  • non si prevede alcuna forma di geolocalizzazione degli utenti, posto che questa applicazione utilizzerà il solo bluetooth;
  • non si prevede, inoltre, neanche alcuna forma di identificazione dell’utente, posto che il trattamento effettuato per l’allerta dei contatti sarà basato sui dati di prossimità dei dispositivi, i quali saranno resi anonimi o associati a un codice identificativo temporaneo, dunque caduco.

Insomma, a quanto consta, i principi di precauzione, prevenzione e proporzionalità che sono stati adottati dovrebbero consentire di proteggere adeguatamente, ed in modo permanente, la riservatezza degli utenti e l’integrità dei loro dati personali.

I punti da chiarire

Certo, al momento, molte tecnicalità ancora non sono chiare: dal collocamento fisico del sistema (è nel sistema operativo del cellulare o meno?), alle diverse funzionalità dell’app (Quali informazioni? Come si controllano i sintomi?) al meccanismo di allerta, compreso il fatto che l’eventuale contagiato è opportuno che rimanga libero di scegliere lui stesso se dare l’alert o meno, lasciandolo così comunque nel pieno della sua responsabilità decisionale e nella garanzia dei diritti a lui riconosciuti previsti dal GDPR, compresi tanto la minimizzazione dei dati personali che lo riguardano (ossia che siano solo quelli necessari e limitati rispetto alle specifiche finalità previste) quanto, evidentemente, la libertà di disinstallazione da parte dell’utente (che dovrebbe essere semi-automatica allo scadere della pandemia e comunque entro il 31 dicembre 2020).

E poi: quale comportamento deve essere seguito da chi riceve una notifica di alert? Nel senso che ne discende un obbligo giuridico vincolante nel dover seguire una profilassi “di quarantena” o meno?

Un poco di più di una semplice forma di moral suasion dovrà comunque esservi, se non altro perché a seguito dell’alert vi saranno delle istruzioni e delle linee guida – si immagina – predisposte innanzitutto dal Ministero della Salute, che assumeranno, inevitabilmente, una qualche forma giuridica di tipo vincolante. Se ciò non fosse, d’altronde, si renderebbe vano questo grande sforzo comune di prevenzione reciproca.

In ogni modo, di certo rimane un fatto: che questo tipo di applicazione troverà la funzionalità auspicata soltanto se essa sarà vissuta con fiducia dai cittadini. Non serve d’altronde scomodare le parole di grandi studiosi o le immagini di famosi film per sottolineare come questo passo – che a molti, erroneamente, pare assomigliare senza ansie a quello che quotidianamente già si fa scaricando app sul proprio cellulare – possa essere invece molto più grande, incisivo e penetrante per le nostre vite, di quanto ora, al momento, invece, sembra apparire.

Nella cautela, allora, che si pretende dal Governo, in fondo, c’è la forza della fiducia che il Governo chiede al cittadino.

Cogliere il senso di questo bilanciamento può rendere l’applicazione in corso di adozione capace di raggiungere appieno gli obiettivi specifici per i quali essa è nata, divenendo uno strumento efficace in quanto espressione di un successo di fiducia tra cittadino ed istituzioni, prima che una applicazione che lo è stata pienamente, perché è riuscita a realizzare le programmate funzionalità, ossia contribuire a sconfiggere il ritorno della pandemia.

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