Quarantaquattro avvocati, un colosso, una buona causa…forse.
Il colosso in questione è Facebook, nella sua incarnazione di Instagram, il quale ha annunciato di essere al lavoro su una piattaforma dedicata ai ragazzi minori di 13 anni, che per il momento è stata identificata come Instagram Youth (ma il nome potrebbe cambiare).
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I concetti ribaditi dalla piattaforma social più grande del pianeta sono sempre i soliti: sicurezza e privacy.
Temi già sentiti, e che oramai fanno da eco costante per ogni iniziativa rivolta ai più giovani.
Immediate le preoccupazioni dei genitori, i quali hanno avuto da ridire sulla base degli effetti negativi che questi social network avrebbero sui più giovani, soprattutto in termini di salute mentale.
A loro si sono uniti 44 avvocati, i quali hanno mostrato numerose resistenze e perplessità a proposito.
Come al solito la verità sta nel mezzo, e tra i due litiganti il terzo, ossia i nostri ragazzi, ne fanno inevitabilmente le spese.
Come sempre.
Di quale salute mentale stiamo parlando
Partiamo dalla prima grande resistenza: la salute mentale.
L’opinione pubblica vuole che queste piattaforme causino seri problemi mentali ai loro utenti, o comunque li alimentino.
Questi problemi vanno da un più sottile senso di solitudine fino ad arrivare a parlare di profonda depressione.
In passato sono infatti sorte alcune ricerche che hanno associato un uso intensivo di queste piattaforme ad ansia, FOMO (Fear Of Missing Out), solitudine, invidia, depressione, e da lì i mass media hanno poi svolto il loro lavoro nel creare un clamore mediatico a base di allarmismi e panico sociale.
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Perché queste ricerche sono reali, ma se le leggiamo a fondo scopriamo che ci offrono solamente una fotografia di ciò che sta accadendo, ma non il filmato del prima e del dopo.
Detta in parole povere: la correlazione, esiste, ma le prime ricerche, ossia proprio quelle su cui si sono basati i mass media, non ci indicano quale sia il rapporto tra causa ed effetto.
Ci sono volute ricerche successive per capire meglio questo importante dettaglio, ma sono state tranquillamente evitate dai mass media, oramai già impegnati su scoop di altra natura.
Le successive ricerche quindi ci hanno indicato che molto spesso i canali social non sono la causa, ma fungono da contenitore dei vissuti in cui gli utenti riversano i loro sogni, le loro speranze, le loro ansie e le loro paure.
Sono state inoltre trovate delle forti correlazioni tra stato d’animo interiore e modalità di utilizzo di questi mezzi.
Quindi di nuovo: non sono i social a condizionare l’utente, ma è l’utente che riproduce all’interno di questi spazi una modalità che è già presente dentro di lui.
Inoltre, è stato anche rilevato che non è il mezzo in sé, ma è la consapevolezza l’elemento che segna lo spartiacque tra un utilizzo “normale” e un utilizzo che potremmo, per semplicità, definire patologico.
Ossia: è l’utilizzo passivo che alimenta nel soggetto sentimenti quali la solitudine o l’insorgere di una depressione.
E tutte queste dinamiche riguardano anche i più giovani.
Quindi vorrei potere tranquillizzare questi 44 avvocati dicendogli che, se i nostri figli utilizzano in malo modo i social network, il vero responsabile non sono questi ultimi, ma una mancata educazione digitale.
Privacy by design?
L’elemento a mio giudizio più spinoso, quindi, appare essere quello della sicurezza.
Oramai sappiamo come vanno le cose: le piattaforme social non sono autorità pubbliche, e non ti chiedono un documento di identità nel momento dell’iscrizione.
Si fidano invece di una tua autodichiarazione, che ha più il sapore di uno scarico di responsabilità dalla piattaforma all’utente, e che ha la stessa utilità di quando approdi per la prima volta su un sito di materiale pornografico e ti viene chiesto di confermare la tua maggiore età.
Di conseguenza chiunque può essere chiunque, e purtroppo abbiamo anche esempi di adulti che si fingono ragazzini per adescare i minorenni.
In che modo un eventuale Instagram Youth potrebbe tutelare i più giovani contro questa dinamica?
Si corre infatti il rischio di creare un vero e proprio terreno di caccia per i malintenzionati.
Certo, piattaforme come TikTok ci hanno promesso algoritmi in grado di capire l’età dell’utente in questione, e questo potrebbe aiutare a creare un ambiente frequentato unicamente da ragazzini di 13 anni o meno.
Ma fino a che punto? Quanto è possibile raggirare questi algoritmi?
La partita è ancora aperta, e più ci addentriamo in questo campo e più vediamo che la risposta non può essere che: maggiore responsabilità (anche legale) sulle piattaforme, e maggiore educazione digitale.
Rimane anche la questione della profilazione: in che modo verranno trattati i dati dei nostri figli?
Sicuramente una piattaforma social realmente attenta alla privacy dei più piccoli non può essere una derivazione di una piattaforma per adulti: non può ereditarne le criticità.
Abbiamo bisogno di qualcosa di radicalmente nuovo.
La necessità di un parco giochi digitale
Viviamo in tempi moderni, in cui il digitale è parte integrante delle nostre vite, e ha finito per creare un nuovo layer nella nostra realtà.
Il fenomeno è destinato a rinforzarsi, non possiamo arrestarlo e né avrebbe senso farlo.
Inoltre, il digitale sarà il nuovo ambiente di vita dei nostri figli, per cui è necessario che imparino a viverlo sin dai primi anni, esattamente come li abituiamo a vivere una città ma esponendoli in modo graduale, non vietando loro di uscire di casa.
Abbiamo quindi bisogno di un parco giochi digitale che sia costruito su misura per i più piccoli.
Se ne è già accorto Google con YouTube Kids, adesso se ne sta accorgendo Instagram, anche se qui si ha il sentore di un’iniziativa volta ad accaparrarsi una fetta di popolazione, quella degli under 13, che viene sempre più esclusa da questi canali, a volte anche per via di provvedimenti di legge.
Una bella fetta quindi, per una piattaforma che otterrebbe anche i favori dell’opinione pubblica: una combinazione perfetta.
Mi chiedo quindi quanto dovremmo lasciare questo compito a organizzazioni private guidate dai profitti, e che presentano nel loro DNA un modello di business che invece va contro i principi della Privacy che vorremmo vedere applicati per i nostri piccoli, e che di sicuro sono guidate prima dal cashflow dei loro investitori e solo in seconda battuta dal benessere dei nostri figli.