La fine del 2019 e l’inizio del 2020 hanno registrato un dibattito serrato sulla riforma delle intercettazioni, tema per anni oggetto di disputa sia nelle aule di giustizia che in quelle parlamentari; le Sezioni Unite della Cassazione e il Legislatore hanno modificato in maniera sostanziale la disciplina di un mezzo di ricerca della prova ormai al centro di ogni “ragionamento” nel pianeta giustizia. Solo l’emergenza Covid-19 poteva farcene dimenticare.
Ma a maggior ragione, in tempi in cui la privacy corre i rischi più gravi degli ultimi decenni, è opportuno dare una panoramica dell’assetto attualmente in vigore, in seguito alla sentenza 51 del 2 gennaio 2020 delle Sezioni Unite della Cassazione e della legge 28 febbraio 2020, n. 7, di conversione del decreto-legge 30 dicembre 2019, n. 161.
Il lungo cammino delle restrizioni del diritto alla riservatezza
Ogni restrizione del diritto alla riservatezza che viviamo oggi è figlio di un dibattito di almeno trent’anni in tema di utilizzabilità di intercettazioni telefoniche ed ambientali in sede processuale.
Avvocati, magistrati e professori universitari per anni hanno discusso sul quanto e sul come lo strumento più invasivo previsto dal Codice di procedura penale per la prosecuzione delle indagini preliminari potesse essere utilizzato, in una costante tensione tra necessità di limitarne il ricorso a ipotesi residuali e l’esigenza di estenderne quanto più possibile l’impiego per facilitare e potenziare le attività investigative.
Il dibattito giurisprudenziale ha visto recedere sempre il diritto alla riservatezza nel bilanciamento rispetto alle esigenze investigative, fino ad una controtendenza determinata dagli arresti delle sezioni Unite della Cassazione del 2017 e del 2020 (di cui si darà conto nel corso dell’articolo).
La ragione è presto detta: fino alla riforma Orlando nessuna maggioranza politica aveva la “forza” per portare avanti riforme in materia di intercettazioni; l’adeguamento della regolamentazione delle intercettazioni all’avvento delle nuove tecnologie è avvenuto, quindi, per via giurisprudenziale.
In seguito alla riforma Orlando si è registrato un fenomeno contrario: le “maglie” erano state aperte forse oltre quanto si potesse prevedere (soprattutto con l’avvento del trojan horse) e la giurisprudenza di legittimità è intervenuta per contenere l’ipertrofico flusso di materiale investigativo reperito con intercettazioni.
La riforma del febbraio 2020 elimina ognuna delle barriere poste per via giurisprudenziale ed amplia a dismisura, per la prima volta nella storia repubblicana, la facoltà di intercettazione delle conversazioni in sede di indagine.
Giustizialismo e politica del controllo sociale sono sfumature diverse di un autoritarismo che si legittima con le emergenze: prima la criminalità organizzata (per le intercettazioni), oggi l’emergenza sanitaria (che nessuno vuole negare, ma il cui contenimento non necessariamente passa per precetti a volte irrazionali). La paura di un male maggiore resta sempre alla base delle scelte con le quali, ogni giorno, rinunciamo ad una particella di libertà.
In principio c’era solo il telefono, o quasi
Come siamo arrivati a questo? La disciplina originaria del Codice di procedura penale del 1988 vedeva le intercettazioni telefoniche come uno strumento residuale, da limitare per invasività e pervasività e, soprattutto, da far tenere sotto stretta sorveglianza da parte dell’Autorità giudiziaria.
In altre parole, le operazioni di intercettazione dovevano svolgersi esclusivamente nei locali della Procura della Repubblica, anche per ragioni tecniche: all’epoca era necessario un allacciamento ai cavi della Sip.
Erano ammesse anche le intercettazioni ambientali, mediante microfoni occulti (le c.d. “cimici” dei film), ma era necessario che nel luogo in cui erano collocati fosse in atto l’attività criminosa.
I presupposti di applicazione e l’allargamento dell’utilizzo dello strumento
L’autorità giudiziaria può disporre le intercettazioni solo per un novero limitato di reati (art. 266 Cod. proc. pen.), laddove siano assolutamente indispensabili per la prosecuzione delle indagini e vi siano gravi indizi di reato (art. 267 Cod. proc. pen).
La legge 12 luglio 1991, n. 203, aveva “mitigato” i presupposti di ammissibilità per i reati di associazione a delinquere e terrorismo, per i quali “bastano” necessità ai fini della prosecuzione delle indagini e “sufficienti” indizi di reato affinché possano essere disposte le intercettazioni.
La giurisprudenza di legittimità, inoltre, ha allargato di molto le maglie operative dello strumento captativo, sia di mera intercettazione che di ascolto di conversazioni tra presenti.
Su tutte, una questione operativa aveva impattato sulle intercettazioni “tradizionali” (quelle cioè ante avvento degli smartphone), ossia la “remotizzazione” delle operazioni.
Questa consisteva nel consentire agli operatori di polizia giudiziaria delegati alle operazioni di intercettazione di svolgere le stesse da centrali specializzate delle sedi operative delle forze di appartenenza e non presso i locali della Procura della Repubblica.
Le Sezioni Unite della Cassazione nel 2008 avevano ritenuto lecita la pratica a condizione che l’unica attività svolta da remoto fosse l’ascolto delle conversazioni, telefoniche o tra presenti, stabilendo che solo l’inserimento presso i nodi della rete dovesse avvenire attraverso il server della Procura della Repubblica e che quest’ultimo non fosse utilizzato come mero ripetitore ma come strumento di registrazione vero e proprio.
L’avvento del Trojan Horse
Le intercettazioni come strumento di indagine compiono un balzo in avanti decisivo con l’avvento del captatore informatico, cosiddetto trojan horse, ossia un malware inserito nel dispositivo dell’intercettando.
Se la potenzialità operativa dello strumento è innegabile – il trojan rende di fatto possibile ascoltare tutte conversazioni, telefoniche e non, con flusso di dati e non, di qualunque apparecchio connesso a rete in cui sia installato – il tema dei limiti di ammissibilità è delicatissimo.
In assenza di riforma legislativa, nel 2016 sono intervenute le Sezioni Unite della Cassazione a dettare una -parziale – regolamentazione della tematica.
Dato che l’utilizzo del malware determina, di fatto, uno strumento di intercettazione itinerante, si poneva una delicata questione, ossia la determinazione – e conseguente indicazione nel decreto autorizzativo delle intercettazioni – a priori dei luoghi in cui il trojan poteva essere attivato ed utilizzato lecitamente per l’ascolto di conversazioni tra presenti.
Le Sezioni Unite hanno risolto la questione in maniera condivisibile e rispettosa del dettato testuale del Codice di procedura penale: il trojan poteva essere attivato in maniera massiva ed indiscriminata solo per i reati di criminalità organizzata, per i quali non vigono i limiti posti dall’art. 266 Cod. proc. pen.
In conclusione, nelle ipotesi “ordinarie” di intercettazione, la captazione informatica non poteva essere indiscriminata ma localizzata nel tempo e nello spazio; per i reati associativi e di terrorismo il limite non sussisteva.
Il D.lgs. 29 dicembre 2017, n. 216
Il legislatore era quindi dovuto intervenire e lo aveva fatto con la cosiddetta riforma Orlando delle intercettazioni.
Temi dominanti erano la tutela della privacy dei soggetti ascoltati incidentalmente e la regolamentazione normativa dell’utilizzo del captatore informatico, citato espressamente nel novellato art. 266 Cod. proc. pen. e l’ampliamento delle ipotesi di utilizzo dello strumento rispetto a quanto deciso dalle Sezioni Unite della Cassazione nel 2016.
Venivano regolate anche le modalità di autorizzazione e i requisiti del decreto di autorizzazione, anche nei casi di urgenza.
Con sentenza n. 51 del 2 gennaio 2020 le Sezioni Unite della Cassazione hanno affrontato una questione delicata e sulla quale erano state svariate criticità – evidenziate in dottrina e giurisprudenza – ossia l’utilizzazione delle intercettazioni in procedimenti diversi da quello per cui erano state disposte.
La questione, in termini semplici, riguarda la possibilità o meno di utilizzare conversazioni intercettate nell’ambito di un’indagine per reati verosimilmente gravi nell’ambito di un altro procedimento, riguardante, magari, reati per i quali le intercettazioni non sarebbero ammissibili.
Le Sezioni Unite, nuovamente, hanno assunto una decisione condivisibile nella sostanza e nella ratio, affermando che le intercettazioni disposte in un procedimento diverso da quello per cui sono state autorizzate possono essere utilizzate solo nelle ipotesi di reati per i quali la legge prevede l’arresto obbligatorio in flagranza.
Il Decreto-legge 30 dicembre 2019 e la legge di conversione 28 febbraio 2020
L’attuale legislatore ha ritenuto troppo stringenti i limiti, pur dilatati, posti dal legislatore nel 2017 e dalle Sezioni Unite a gennaio 2020.
Così si è estesa l’applicabilità del captatore anche ai reati propri di pubblici ufficiali ed incaricati di pubblico servizio con pena non inferiore nel massimo ad anni 5 di reclusione e demolendo, in tal modo, il limite posto dalle Sezioni Unite nel 2016.
Il tema dell’utilizzazione dei risultati delle intercettazioni in un procedimento diverso, inoltre, è stato affrontato leggendo alla lettera la sentenza 51/2020 delle Sezioni Unite della Cassazione ed estendendo i confini delineati fino a tutti i reati per i quali sono astrattamente ammissibili le intercettazioni.
Detto altrimenti, il captatore informatico infrange tutte le barriere, fisiche, cibernetiche e…del diritto.
Alcuni presidi tuttavia rimangono.
È vietata non solo l’intercettazione delle conversazioni tra avvocato e cliente ma anche la relativa trascrizione; i difensori possono ottenere copia delle conversazioni inserite nel cosiddetto archivio riservato, ossia il database delle conversazioni ritenute superflue o inutilizzabili dal Procuratore della Repubblica.
Una scelta orwelliana
Il dato di fatto è che dal 1988 ogni barriera posta a presidio della riservatezza delle conversazioni che avvengono per telefono (allora) e con dispositivi (oggi) è caduta o, quantomeno, è arretrata di molto.
L’ascolto di conversazioni tra presenti, ossia l’intercettazione ambientale, vista come extrema ratio dal legislatore del Codice di procedura penale è, ormai, lo strumento più utilizzato nell’ambito delle indagini per le quali è consentito.
Nel caso in cui vengano intercettate incidentalmente conversazioni non attinenti direttamente alle indagini, queste vengono vagliate prima per capire se siano o meno rilevanti per quel determinato procedimento, poi per verificare se non attengano ad un reato per il quale le intercettazioni possono essere disposte.
Solo dopo questi vagli possono, se il Procuratore della Repubblica lo ritiene, essere indirizzate nell’archivio delle intercettazioni irrilevanti per poter essere smaltite; unica eccezione: la richiesta di inserimenti del fascicolo da parte del difensore dell’imputato, cui è riservata la facoltà di valutare ulteriormente il materiale delle intercettazioni.
Tale scelta è coerente con la casistica che vede spesso derubricato come “irrilevante” materiale d’indagine che non porta indizi all’accusa ma che, al contrario, può essere rilevante per la difesa dell’imputato.
Conclusioni
In conclusione, le intercettazioni di nuova generazione determinano uno stato di polizia permanente, con seria compressione del diritto previsto dall’art. 15 della Costituzione; compressione sempre più accentuata e giustificata con esigenze di sicurezza sociale e repressione dei reati.
In altre parole, più controllo e meno libertà per la nostra sicurezza.
In questo periodo, in cui l’emergenza da Covid-19 sta mostrando tutto l’arsenale a disposizione dello Stato per la diminuzione delle libertà personali, con divieti a volte anche irrazionali, le intercettazioni con captatore ci insegnano che la soppressione delle libertà individuali viene da lontano e corre veloce quanto l’evoluzione tecnologica.