L‘attivismo è in crisi o, quantomeno è in una situazione di forte mutamento, almeno se consideriamo la riduzione del numero di volontari e attivisti iniziata in Italia nel nuovo millennio e proseguita in contrasto con le tendenze europee.
Non c’è dubbio che una delle principali cause della riduzione numerica degli attivisti è il fattore tempo: impegnare il proprio tempo nell’attivismo può interferire con la vita sociale e, in tempi in cui il tempo è il più autentico status symbol, può dedicarcisi solo chi dispone di abbastanza tempo libero.
La criticità maggiore è tuttavia dovuta ai recenti cambiamenti che hanno portato tensioni sociali e diseguaglianze culturali: sebbene, con l’avvento di internet e dei social media, l’attivismo abbia trovato nuovi canali di comunicazione, si è creata una frattura sempre più grande tra chi questi canali li utilizza e li padroneggia e chi li subisce, la stessa identica frattura tra chi vive attivamente la società e chi la subisce guardandola dalla serratura dei media quando non è impegnato con la routine giornaliera.
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La trappola dell’attivista
Negli ultimi anni, abbiamo assistito a cambiamenti politici significativi in molte parti del mondo, accompagnati a volte da un irrazionale sentimento di ostilità verso i diritti delle minoranze. Questa tendenza ha avuto ripercussioni importanti sull’attivismo in termini sociali e geopolitici, modificando il ruolo stesso dell’attivismo nella società odierna.
Questa fase non si sta affatto esaurendo, ma sembra destinata a proseguire ancora e destare anzi sempre meno sorpresa e condanna sociale: le stesse aziende tecnologiche USA della costa occidentale, da sempre promotrici dell’attivismo per i diritti civili e generalmente “sensibili” verso le istanze sindacali dei propri dipendenti (almeno rispetto alle altre aziende statunitensi), stanno cavalcando molto volentieri l’onda della narrazione trumpiana che vuole equiparare la rivendicazione dei diritti a un elemento di disturbo che mina la competitività del sistema USA.
Il punto è che la diffusione di narrazioni ostili contro l’attivismo determina sempre una reazione a catena che porta a depotenziarne la portata. In questo senso, è paradigmatico il caso dell’attivismo per la tutela dei diritti dei migranti; l’immigrato è per definizione una persona per la quale l’attribuzione di diritti non è mai immediata, ma è sottoposta a verifiche, compromessi e limitazioni e proprio per questo è un simbolo della tensione tra riconoscimento e negazione dei diritti.
Oggi, da un lato, movimenti populisti e nazionalisti hanno guadagnato terreno, spesso promuovendo politiche che mirano a limitare i diritti delle minoranze e a rafforzare l’idea di un’identità nazionale omogenea; dall’altro, la retorica anti-immigrazione e le politiche restrittive nei confronti di gruppi marginalizzati sono diventate un elemento paesaggistico della politica.
Questo inasprimento del clima da un lato ha agevolato la nascita di nuove iniziative spontanee di attivismo focalizzate sul supporto e la tutela dei migranti, ma d’altra parte la maggioranza della popolazione percepisce sempre più il problema migratorio con un misto di impotenza, fastidio e preoccupazione. In un quadro del genere si dedicano all’attivismo solo persone contraddistinte da una fortissima motivazione, spesso coincidente con una particolare connotazione ideologica e politica, ma quella stessa fortissima motivazione, per buona parte della popolazione, è motivo di diffidenza: gli attivisti per i diritti dei migranti diventano quindi nella percezione comune dei soggetti strani, anormali e “diversi”, forse ancora più “diversi” di quanto non lo siano gli stessi migranti.
La trappola dell’attivista è proprio questa: se un’iniziativa di attivismo risponde a una compressione dei diritti, più sarà forte quella compressione maggiori saranno le risposte degli attivisti ma questo impatterà sulla percezione della maggior parte della popolazione; gli attivisti che se ne occuperanno saranno soprattutto i soggetti più “divergenti” rispetto alla maggior parte della società, ma così facendo la società può percepirli come veri e propri estranei e scatenare i propri anticorpi su di essi.
I diritti dei migranti possono sembrare certamente un caso molto particolare e circoscritto, ma sfruttare il conformismo della società per costringerla a scatenare reazioni autoimmuni verso i “divergenti” è una strategia consolidata; è stata spesso impiegata anche su un ordine di grandezza maggiore, quando si è cercato di mettere in discussione lo stesso concetto di partecipazione di tutti i cittadini. Questo è in effetti un caso molto utile ai fini del nostro ragionamento.
La costruzione del conformismo: limitare la partecipazione
Limitare la partecipazione politica dei cittadini è la massima tentazione cui è sottoposta qualsiasi classe dirigente. La limitazione della partecipazione , come per tutte le iniziative repressive, può essere conseguita attraverso due strade: la produzione di norme penalizzanti da un lato e dall’altro lo svuotamento, lo smantellamento o il malfunzionamento delle norme o delle istituzioni poste a garanzia.
Per limitare la partecipazione politica, la legislazione può operare su tre fronti: limitazioni alla rappresentanza elettorale, limitazione degli spazi pubblici, limitazione degli spazi privati.
Le leggi elettorali maggioritarie o con sbarramento sono la soluzione più semplice, poiché tendono a favorire i grandi partiti e a penalizzare quelli più piccoli, riducendo la rappresentanza politica delle minoranze. A questo tipo di leggi possono essere aggiunti ingredienti che peggiorano l’esperienza dell’elettorato attivo, quali liste bloccate e gerrymandering, o quello passivo, come la difficoltà di sottoscrizione e presentazione delle stesse liste elettorali. Se presentarsi alle elezioni è difficoltoso e se gli elettori non trovano un’adeguata proposta politica l’astensionismo peggiorerà: in Italia, per esempio, nelle ultime elezioni del 2022, grazie al combinato di sbarramento e astensionismo, per la prima volta nella storia la rappresentanza parlamentare esprime meno del 50% degli aventi diritto. Le possibilità di ricorrere legalmente per invalidare queste norme o per impugnare le esclusioni sono scarse e prevedono comunque tempistiche lunghe e irrilevanti sul breve termine. Infine, paradossalmente, chi si dà da fare per garantire maggiori diritti di rappresentanza per tutti i cittadini, viene trattato con disprezzo in quanto “professorino concentrato su tecnicismi che non interessano alla gente” o accusato di essere animato solo dalla propria volontà di ritagliarsi un “posto” in politica.
Limitare la rappresentanza parlamentare è però solo uno dei modi per frustrare la partecipazione politica del cittadino. Infatti, il varo di leggi di gestione dell’ordine pubblico a carattere repressivo e focalizzate sulla criminalizzazione del dissenso, a prescindere dalla loro costituzionalità, creano un quadro normativo pieno di insidie per chi vuole praticare azioni di protesta; infatti se qualsiasi comportamento del cittadino che protesta può sconfinare nell’illegalità sulla base di un’interpretazione arbitraria delle forze dell’ordine o delle istituzioni cittadine, questo significa che il perimetro di legalità dei comportamenti del cittadino si riduce. Leggi di questo tipo vengono spesso giustificate con la necessità di mantenere l’ordine pubblico o di proteggere la sicurezza nazionale e la salute pubblica, ma l’impatto sulla libertà di manifestazione è molto elevato. Anche in questo caso, quello di impugnare un provvedimento di precettazione di uno sciopero o di annullamento di una manifestazione è un processo lento, che anche in caso di vittoria si ripercuote sul numero dei partecipanti e quindi sul successo dell’iniziativa. Naturalmente è facile accusare chi si oppone a queste leggi di essere complice dei nemici dell’ordine pubblico o addirittura uno di essi.
Manifestare è quindi sempre più difficile, anche solo per motivi organizzativi, ma per organizzare manifestazioni e cortei è necessario un lavoro pregresso di coinvolgimento. Qui interviene il terzo dispositivo normativo che è quello per esercitare una sorveglianza stretta sulle abitudini dei cittadini. L’uso diffuso di tecnologie di sorveglianza, come telecamere, software di riconoscimento facciale e monitoraggio delle attività online, demotiva e disincentiva le forme di protesta. I cittadini infatti possono sentirsi costantemente osservati e temere ritorsioni legali o sociali per il loro attivismo. Inoltre, con la recente ufficializzazione del sodalizio tra BigTech e amministrazione Trump, la possibilità che governo e aziende tecnologiche costituiscano un unico sistema di controllo ha portato anche nel nostro occidente il modello cinese della sorveglianza di stato. Qui gli oppositori vengono semplicemente accusati di essere nemici della tecnologia, della modernità e del progresso, o brevemente, dei “neoluddisti”.
Dopo le leggi elettorali e quelle contro il dissenso ecco che la ricognizione invasiva e preventiva dei cittadini, soprattutto attraverso gli strumenti tecnologici, ci aiuta a capire che la principale minaccia all’attivismo, ossia l’utilizzo delle tecnologie di sorveglianza, è quella sulla cui conoscenza gli attivisti di ogni tipo, non solo quelli che si dedicano alla privacy e alla protezione dei dati personali, devono concentrare il massimo delle risorse materiali e delle energie intellettuali.
Tecno-sorveglianza e attivismo digitale: la privacy, canarino nella miniera dei diritti
Ammettiamolo: la grande maggioranza della popolazione sembra mostrare una incomprensibile insofferenza verso il diritto alla privacy. Sarà forse a causa del fatto che viene invocata dai personaggi più ricchi e potenti per offuscare la visibilità sulle loro abitudini e frequentazioni più discutibili o forse perché viene spesso utilizzata come pretesto per limitare la trasparenza sui processi di organizzazioni pubbliche e private; ma probabilmente il motivo è che non la si conosce bene, come non si riesce a distinguere facilmente la portata giuridica del diritto alla privacy, dall’applicazione specifica delle leggi sulla tutela dei dati personali.
Infatti, se la tutela dei dati personali costituisce oggi uno degli strumenti più importanti per salvaguardare la riservatezza delle informazioni su identità, abitudini e relazioni dei cittadini, la privacy presenta un profilo più vasto: la privacy è un diritto umano, una diretta conseguenza dell’habeas corpus che si è consolidata in un ambiente culturale liberale (l’articolo “The Right to Privacy” pubblicato nel 1890 da Samuel Warren e Louis Brandeis sulla Harvard Law Review segna l’inizio di questa rivendicazione) e che è oggi alla base della maggior parte dei diritti civili che caratterizzano i paesi “occidentali”: il Quarto Emendamento alla costituzione degli USA, adottato nel 1791, protegge i cittadini da perquisizioni e sequestri irragionevoli senza l’intervento della magistratura, fornisce la prima base costituzionale per il diritto alla privacy in uno stato; la legge del Connecticut che proibiva l’uso di contraccettivi è stata annullata dalla Corte Suprema nel 1965 (Griswold vs. Connecticut) proprio in considerazione del diritto alla privacy coniugale; addirittura il diritto all’aborto è stato assicurato negli USA dal 1973 (Roe v. Wade) fino al recentissimo pronunciamento della Corte Suprema, proprio in base all’assunto che la privacy fosse un diritto costituzionale; infine, come non ricordare la scena del film “Il Rapporto Pelikan” (non presente nel romanzo di Grisham) in cui l’allieva Julia Roberts spiega al suo professore di diritto l’impatto che il diritto alla privacy ha sulla nostra libertà di praticare rapporti omosessuali, ricordando la sentenza Griswold vs. Connecticut. E si potrebbe andare oltre pensando ai diritti sulla libertà di cura e sul fine vita che si basano sempre sui principi di autodeterminazione della persona umana.
Allo stesso modo quando i governi hanno voluto colpire i beneficiari alcuni di questi “diritti derivati” hanno sempre puntato parte della loro strategia sulla violazione del diritto alla privacy: è successo proprio in USA contro la comunità LGBTQ (leggi anti-sodomia, penalizzazioni lavorative, stigma dell’AIDS) e contro il diritto all’aborto (individuando le donne da perseguire attraverso il sequestro dei dati delle app di tracciamento del ciclo mestruale).
Purtroppo, almeno in Italia, la maggior parte delle organizzazioni per la rivendicazione di questi diritti sembrerebbe aver dimenticato il ruolo che il diritto alla privacy ha rivestito per l’ottenimento o la difesa dei loro diritti. Queste organizzazioni dovrebbero rivedere completamente il quadro della lotta normativa alla luce della minaccia alla privacy, spesso ottenuta attraverso l’accesso legale o meno ai dati personali e comportamentali delle persone a rischio.
Ecco perché la privacy è il canarino nella miniera che, con la propria morte, indica al minatore che il rischio sta divenendo mortale.
La crisi dell’attivismo e la necessità di riorganizzarsi nella società cibernetica
Di fronte a queste sfide, l’attivismo tradizionale sembra trovarsi in stallo, ma già alcune organizzazioni si stanno dotando di competenze digitali e cultura informatica tali non solo da riuscire a inquadrare correttamente il fronte di battaglia, ma anche da capire come e dove rilevare i segnali precursori di quelle che potranno essere politiche repressive su vasta scala.
Generalizzando, possiamo affermare che questi precursori si verificano ogni volta che vengono utilizzate tecnologie di tracciamento per controllare categorie che tradizionalmente non godono del favore di buona parte della popolazione.
Abbiamo visto come la sensibilità antiabortista di alcuni stati americani abbia facilitato la persecuzione delle donne che si sono avvalse del supporto di app del tracciamento del ciclo siano state e dobbiamo prestare attenzione a come il controllo delle preferenze sessuali potrebbe essere promosso in quei casi in cui si correla con la diffusione di focolai epidemici.
Un altro caso è quello dei governi che forzano le politiche di sorveglianza approfittando del consenso generale del pubblco sul controllo dell’immigrazione. Se la popolazione riflettesse sul fatto che progetti a dir poco distopici come iBorderCTRL, oggi finalizzati al tracciamento e al respingimento dei migranti, potrebbero essere già utilizzati per limitare il diritto alla circolazione dei cittadini regolari, forse questo diverrebbe un argomento di discussione più dibattuto.
Purtroppo però, per il grande pubblico non solo il migrante non sembra meritare la tutela dei diritti umani, ma chi si occupa dei suoi diritti appare come un molesto disturbatore animato da manie di protagonismo o rispondente a chissà quali committenti nemici della nazione; e forse uno dei casi più gravi di spionaggio a scapito di giornalisti e attivisti, da parte di strutture riconducibili al governo è ormai scivolato praticamente in fondo all’agenda politico-mediatica del nostro Paese proprio perché ha riguardato attivisti che si occupano della tutela di migranti.
Se volessimo ancora scandagliare le categorie che nel grande pubblico provocano comunemente sentimenti di indifferenza se non di accanimento, troveremmo i detenuti delle carceri; ed è curioso che uno degli esperimenti più vasti di punteggio sociale mai realizzato nel mondo occidentale ha riguardato le carceri dell’Arizona. Come immaginabile, in quel caso, il software utilizzato dal Dipartimento carcerario dell’Arizona non riusciva a identificare i soggetti meritevoli da quelli non meritevoli, ma lo scandalo (emerso solo grazie a un whistleblower) non ha avuto la risonanza che avrebbe meritato: anche in questo caso, il pubblico non ha capito che “i galeotti” spesso sono le cavie di sperimentazioni che possono poi essere estese alla grande massa dei cittadini.
Quando poi l’obiettivo non è solo quello di colpire categorie invise alla maggioranza della popolazione o a una certa base elettorale, ma a veri e propri criminali, come pedofili e trafficanti di materiale pedopornografico, anche le istituzioni solitamente più sensibili ai diritti personali arrivano a rinnegare in maniera indiscriminata a tutti i cittadini alcuni “diritti sacri”, come quello alla riservatezza della corrispondenza messo a repentaglio dal regolamento europeo CSA, già chiamato #chatcontrol dai detrattori.
L’attivismo nelle rivendicazioni dei lavoratori
Se finora l’accento è stato posto soprattutto sull’attivismo per i diritti civili, questo non deve far dimenticare l’attivismo legato ai lavoratori, argomento che meriterebbe una trattazione a parte. I lavoratori delle piattaforme tecnologiche hanno infatti dovuto misurarsi sia con la riconquista dei diritti ritenuti acquisiti, come il diritto alla rappresentanza sindacale, sia con le nuove frontiere determinate dalle mutate condizioni di lavoro attraverso per esempio la costituzione di vere e proprie associazioni non necessariamente legate ai sindacati tradizionali.
A questo proposito è significativo ricordare un recente esempio molto interessante di hacktivism, una intersezione tra attivismo e hacking informatico, che proprio in Italia ha portato l’Autorità Garante per la Protezione dei Dati Personali a sanzionare l’azienda Foodinho, la srl controllata da Glovo, il gigante tecnologico spagnolo delle consegne di cibo a domicilio: il provvedimento del Garante è nato infatti da una strategia di lotta basata sul reverse engineering per supportare i lavoratori della gig economy.
L’iniziativa in particolare è stata intrapresa dagli attivisti di Reversing.work, uno spin off di Tracking Exposed dedicato a utilizzare la reverse engineering per scoprire le trappole nascoste nel codice dei sistemi di gestione dei lavoratori delle piattaforme e limitare la posizione di forza e il potere asimmetrico che le BigTech esercitano sui singoli lavoratori. Anche in questo caso l’iniziativa nasce dalla consapevolezza che l’alterazione delle condizioni a svantaggio dei più deboli avviene sempre attraverso il preventivo controllo sui loro dati personali e comportamentali.
Attivismo e indifferenza: cosa ci insegna l’attivismo per la privacy
Abbiamo quindi visto perché l’attenzione di tutti gli attivisti di oggi dovrebbe soffermarsi sulla conoscenza approfondita del diritto alla privacy e della gestione dei dati personali che del diritto alla privacy rappresenta la più immediata proiezione in una società basata sull’informazione.
Ma la privacy offre un ulteriore spunto di riflessione anche riguardo al problema, solo accennato all’inizio, che potremmo chiamare la cattiva reputazione delle buone cause: perché tra Barabba e la Privacy, la folla sceglie Barabba?
Generalmente la maggior parte dei diritti viene avvertita come decisiva o importante solo da alcune categorie di persone, solitamente quelle più coinvolte direttamente, mentre il resto della società ne sottovaluta l’impatto e una circoscritta categoria di persone guarda addirittura a quel diritto come una minaccia o un sovvertimento dello status quo.
Il diritto alla privacy purtroppo riscuote invece diffidenza e insofferenza da parte non di una piccola fetta di rappresentanti di interessi, ma di una fetta enorme della popolazione, spesso costituita proprio da quelle persone più vulnerabili alle violazioni della privacy e addirittura, come ha dimostrato il recente caso delle reazioni alla richiesta di accesso agli atti da parte del collettivo di attivisti di MonitoraPA, gli stessi esperti di privacy e data protection si sono mostrati insofferenti verso gli attivisti che si battevano per questo diritto.
I motivi sono abbastanza specifici ma seguono uno schema che si ripropone anche per altri diritti. In primo luogo infatti la privacy e la protezione dei dati personali presentano profili giuridici e tecnici che ne rendono difficoltosa la comprensione anche da parte di soggetti scolarizzati sopra la media e pertanto non è facile comprendere i rischi che conseguono la perdita di questi diritti, come il furto di identità, la sorveglianza invasiva e l’abuso dei dati personali. Come se non bastasse, l’esercizio di questo diritto risulta asimmetrico: se non si dispone di risorse economiche, operative e consulenziali diventa difficile rivendicare tale diritto, mentre soprattutto quando a pregiudicarlo sono enti pubblici (fisco e sanità su tutti) o privati (le BigTech, i data broker). Infatti è risaputo che i diritti generalmente meno amati dal “popolo” sono quelli che le persone ricche possono ottenere con più facilità: maternità surrogata, matrimonio omosessuale o il mix tra le due cose, ma anche il suicidio assistito, benché siano avversati soprattutto per motivi ideologico-religiosi, vengono combattuti spesso sulla base di argomentazioni antielitarie: siccome sono diritti che finora sono stati appannaggio dei ricchi, allora non sono diritti del popolo; quasi dimenticando che se l’accesso a quei diritti è riservato ai ricchi, questo è dovuto al fatto che esiste una barriera normativa che ne impedisce il godimento alla popolazione meno ricca.
Nel caso della privacy si aggiunge inoltre una sorta di desensibilizzazione, quasi di rimozione del problema da parte del pubblico; la sensazione di “non avere nulla da nascondere” è un processo di autoconvincimento. L’abbiamo visto anche durante le fasi della recente pandemia, quando la maggior parte dei cittadini si è mostrata poco interessata alle limitazioni alla libertà di cura, alla libertà di circolazione, ai diritti dei lavoratori o, più semplicemente, alla libertà di vivere liberamente la propria socialità. Infatti la maggior parte della popolazione aveva (comprensibilmente) scelto di vaccinarsi e sentirsi maggioranza ha determinato l’assenza di una riflessione collettiva sul problema della limitazione dei diritti, se non da parte di quei pochi che si trovavano in un limbo normativo e civile dovuto all’impossibilità di vaccinarsi (o perché per ragioni irrazionali si rifiutava di farlo). Il “sono vaccinato e quindi non è un problema mio” somiglia molto al “non ho niente da nascondere”, sia per la evidente rassegnazione che traspare, sia per la scarsa consapevolezza su quanto sia importante la tenuta della propria libertà.
Questo tipo di desensibilizzazione diventa ancor più incredibile quando gli stessi utenti cercano di convincersi che in fondo le BigTech si impegnano in prima persona nella difesa dei dati personali degli utenti, facendo confusione tra l’affidabilità e la continuità di servizio che i giganti tecnologici sono in grado di offrire, con la reale attitudine a rendere conto ai propri utenti degli errori di gestione, peraltro avvenuti non così di rado. Si tratta di un problema del tutto analogo a quello con cui si scontrano i sindacati, quando i lavoratori, piuttosto che comprendere tutte le norme che lo statuto dei lavoratori mette a disposizione per la tutela dei loro diritti, preferiscono fidarsi del “datore di lavoro”; tutto sommato si vive più sereni pensandolo come un alleato piuttosto che (com’è tecnicamente) una controparte.
Il problema principale però è legato alla stanchezza che porta sempre a prendere la decisione più facile rispetto a quella migliore: la facilità d’uso dei servizi on line nasce proprio dalla rinuncia al proprio diritto alla privacy: usare il sistema di messaggistica più diffuso tra i propri contatti, guardare una quantità pressoché illimitata di video, disporre di un cloud quasi infinito è un servizio oggettivamente di valore e non è facile capire che quel valore è di diversi ordini di grandezza minore rispetto a quello ottenuto dalle Big Tech. Pretendere i propri diritti da parte di chi sembra stia regalando i propri servizi non è facile e questo ricorda molto l’inerzia del cittadino a intraprendere azioni di protesta per pretendere servizi di buona qualità dall’assistenza sanitaria o dai servizi sociali: anche in quel caso, la percezione di gratuità del servizio, porta il cittadino a non esagerare nelle proprie pretese.
Strettamente legata alla facilità è la diffusione del comportamento e la conseguente pressione sociale in favore della condivisione di contenuti e dati sui social media; queste abitudini non sono solo normalizzate ma addirittura, in alcuni contesti sociali, il fatto di non condividere informazioni personali (nascondere il proprio nome, non mostrare foto e video della propria vita privata) viene percepito come un comportamento sospetto o addirittura antisociale e comunque in contrasto con le aspettative sociali percepite. Come non pensare alla difficoltà che gli attivisti LGBTQ hanno sempre riscontrato, quando la maggior parte dei beneficiari delle loro battaglie trovavano più comodo e accettabile socialmente mantenere una condotta pubblica eterosessuale?
Empatia e attivismo
Le casistiche accennate al paragrafo precedente aiutano a capire che la sfida principale dell’attivismo sarà quella di conquistare la simpatia e provocare l’empatia di quei soggetti esterni al perimetro delle specifiche rivendicazioni.
Naturalmente sappiamo che le categorie che più necessitano del supporto di attivisti, sono quelle più trascurate o addirittura minacciate dalla società e che chi si occupa di attivismo per la tutela di diritti non garantiti a una qualche categoria o è parte di quella categoria o è comunque vicino alle persone che vi appartengono; questa comunanza fa si’ che l’indifferenza o la diffidenza o la vera e propria ostilità che parte della popolazione riserva ai soggetti difesi dagli attivisti difendono, può estendersi anche agli attivisti stessi.
Questo implica che, se l’obiettivo primario dell’attivista è di conseguire un riconoscimento o l’ottenimento di una tutela, la condizione necessaria è ottenere il consenso della maggior parte del pubblico o almeno diminuirne l’ostilità: bisogna quindi trovare modi per connettersi con le persone comuni e guadagnare la loro fiducia e comprensione, iniziando a capire le preoccupazioni e quali sono gli ostacoli che separano la simpatia del pubblico dalla loro “causa” e, possibilmente, utilizzando un linguaggio accessibile, lontano dal gergo tecnico che solitamente crea senso di appartenenza nella comunità chiusa, ma che potrebbe alienare il pubblico esterno.
La creazione di spazi di dialogo, forum di discussione, tavole rotonde e incontri pubblici, insomma l’attivazione di luoghi in cui possibile costruire un senso di comunità e appartenenza sarebbe un metodo utile, tuttavia abbiamo visto che spesso il problema non risiede tanto nell’impossibilità di trovare un luogo adeguato, ma di trovare un tempo adeguato.
Se, come accennato all’inizio, la mancanza di tempo è un problema per gli attivisti, tanto più è un problema per la grande massa dei cittadini. Disporre di tempo significa disporre di libertà, esercitare le proprie passioni, accedere a un’istruzione e a un’informazione adeguata.
Anche in questo caso, tematiche ben conosciute da parte degli attivisti per la privacy aiutano a comprendere due elementi che ostacolano il coinvolgimento della maggior parte delle persone sulle questioni legate ai diritti: la stanchezza e l’indifferenza.
Infatti, come abbiamo già visto nei servizi “gratuiti” voraci di dati personali, dove è quasi debilitante perdere trenta secondi per deselezionare le opzioni di tracciamento, la comodità, la gratuità e la facilità d’uso che porta le persone a rinunciare alla propria privacy non è altro che una conseguenza della stanchezza.
L’indifferenza è dovuta all’incapacità di comprendere quella tematica specifica: se gli stessi attivisti di diritti intrinsecamente legati alla privacy non padroneggiano le questioni legate alla privacy semplicemente, questo è dovuto al fatto che non è facile dedicare il proprio tempo ad attività diverse dalla “causa principale”. Stravolgendo il principio di Anna Karenina, si potrebbe quasi dire che i “non attivisti” sono tutti indifferenti in maniera simile, mentre gli attivisti lo sono in maniera diversa e selettiva…
Una volta comprese queste due criticità, entrambe legate al poco tempo che riusciamo a ritagliarci nelle nostre giornate, sarà possibile capire meglio l’indifferenza e la stanchezza dei non attivisti e magari provare un po’ di empatia per loro: comprendere e connettersi con la maggior parte della popolazione è fondamentale per il successo dell’attivismo e servirà a costruire alleanze più forti e a influenzare i decisori politici.
Gli attivisti sembrano più felici della maggior parte delle persone e sono effettivamente più entusiasti, informati e dispongono di più tempo; al contrario la maggior parte delle persone non ha tempo, non dispone di informazioni di qualità, si sente spesso esaurita e ha spesso un rapporto precario con la felicità. Se la popolazione vedrà gli attivisti come dei privilegiati, questa connessione emotiva tra attivisti e pubblico non avverrà; ma chissà che non possa avvenire se gli attivisti si adopereranno per migliorare la “felicità” dei non attivisti e per rivendicare tutti insieme il diritto al tempo libero per le persone comuni. Inoltre, nel trasmettere il concetto per cui l’attivismo è faticoso ma che è gratificante perché consente di essere più informati e più entusiasti di collaborare per il miglioramento della società, potrebbero forse attirare nuove energie nei loro movimenti.
Come ci hanno insegnato gli studi più acuti sulla privacy nell’era digitale, ogni persona che rinuncia alla propria privacy costituisce una minaccia per il diritto alla privacy delle altre persone: la rinuncia alla privacy da parte di un individuo può infatti avere ripercussioni più ampie, poiché può facilitare la sorveglianza di massa e l’abuso dei dati personali da parte di terzi. Per gli attivisti della privacy è evidente che la tutela del maggior numero di persone non interessate al problema serve a diminuire il perimetro di attacco complessivo. Questo è un principio che deve essere interiorizzato da tutti gli attivisti.
Il vero paradosso dell’attivismo è che gli attivisti non dovrebbero dimenticarsi mai di prestare cura e attenzione anche a chi non è oggetto delle loro rivendicazioni, a chi non avverte il bisogno della loro battaglia, a chi si sente comodamente inserito nella società: in fondo è importante prendersi cura degli “indifferenti” ed è importante farlo prima che, peggiorando la loro percezione degli attivisti, gli indifferenti diventino essi stessi, per acquiescenza o per complicità, carnefici degli ultimi o i carnefici di coloro che difendono gli ultimi.
Si tratta di una questione utilitaristica e, quel che più importante, di una questione etica.