alternative alle big tech

La nostra libertà immolata sui social? Il “fediverso” è l’alternativa, ma nessuno lo usa

Ormai si sa: lo scopo delle piattaforme di comunicazione digitale è (lecitamente) il lucro, e il loro funzionamento è (forse meno lecitamente) molto opaco. Eppure, non ci importa, nonostante gli interventi per frenare l’enorme crescita del potere di queste aziende. Vediamo perché è anche questione di competenze digitali

Pubblicato il 26 Ott 2022

Giovanni Salmeri

Università degli Studi di Roma Tor Vergata

Fediverse

Usare un canale Google, o un canale Meta, o Twitter o TikTok, non è affatto «cattivo»: è solo una scelta in un cui cediamo qualcosa (per esempio il possesso di alcuni dati personali, o un certo controllo sulla propria espressione), in cambio di qualcos’altro (per esempio la comodità d’uso). Ragionare sui sistemi alternativi non significa emettere astratti giudizi morali, ma ragionare su quanto questi scambi, caso per caso, siano davvero un buon investimento, e quanto invece portino con sé, prima o poi, una diminuzione di libertà maggiore del vantaggio ottenuto.

E un’alternativa alle attuali piattaforme di comunicazione, sempre più simili a imperi globali del controllo, esiste già e si chiama Fediverso. Ma perché se tutti si lamentano dello strapotere delle Big Tech, nessuno lo frequenta?

Proviamo allora a ragionare su social network, Fediverso e libertà.

Distributed social media - Mastodon & Fediverse Explained

Distributed social media - Mastodon & Fediverse Explained

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Big tech, nuovi imperi globali del controllo

Si fa fatica a stare dietro alle notizie che aggiornano sul continuo braccio di ferro tra le grandi società informatiche e le autorità pubbliche, che tentano di ricondurre il loro comportamento al rispetto delle leggi.

Da poco si erano attenuati gli echi dei provvedimenti contro Google Analytics che è piombata, all’inizio di settembre, la notizia della multa di 405 milioni di euro nei confronti di Instagram.

I motivi, seppure tecnicamente siano sempre un po’ diversi, da un punto di vista sostanziale si assomigliano tutti e pongono un problema cruciale per il futuro della società: il crescere della dipendenza nei confronti di poche infrastrutture tecniche, il cui principale scopo è (lecitamente) il lucro, e il cui funzionamento è (forse un po’ meno lecitamente) molto opaco, sposta sempre più il potere reale in mani private, che non debbono praticamente rispondere a nessun controllo pubblico.

Enunciare in questo modo il problema non significa certo vagheggiare un controllo statale sui mezzi di comunicazione (una cura in genere peggiore del male, o almeno molto pericolosa), ma solo osservare la crescita di un potere parallelo, che appare più forte di quello politico e soprattutto più sfuggente e difficile da controllare, nascosto com’è dietro l’apparenza di una maggiore possibilità di comunicazione e informazione da una parte, e dietro algoritmi ignoti o quanto meno scivolosi dall’altra. Se tra gli elementi essenziali di una dittatura vi è il controllo dell’informazione (su questa caratteristica George Orwell scrisse pagine indimenticabili), come non temere di fronte al crescere di un potere parallelo di controllo, che per di più attraversa quasi tutti i confini nazionali?

Detta in maniera semplice, la situazione è questa: ogni volta che usiamo un canale Google, ogni volta che usiamo un canale Meta (ex Facebook), ogni volta che usiamo Twitter o TikTok (per non citare che i protagonisti), stiamo dando un briciolo in più di potere a nuovi imperi, che perfino dal punto di vista semplicemente economico superano di gran lunga le possibilità di molti piccoli e medi stati. La quantità di dati personali e il potere implicitamente riconosciuto cresce sempre più.

Ma è immaginabile un’alternativa? O forse nel momento stesso in cui si desidera giustamente l’esistenza di canali di comunicazione potenzialmente universali è inevitabile immaginare un enorme potere nelle mani di chi li gestisce? Qui la domanda socio-politica si incrocia immediatamente con considerazioni tecniche, peraltro molto semplici. Un sistema di comunicazione potenzialmente universale non è necessariamente un sistema unico: può essere semplicemente un sistema che usa un protocollo unico, i cui dati sono cioè utilizzabili da altri sistemi e che goda quindi, come si dice con un facile termine tecnico, dell’interoperabilità.

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Posta e email esempi di comunicazioni interoperabili

Il sistema epistolare, fondamentale nella vita umana fino a qualche decennio fa, è certamente un sistema universale: ma questo non suppone affatto che esista un gestore della posta universale. L’essenziale è solo che i due corrispondenti siano d’accordo sul codice di comunicazione (cioè, banalmente, la scrittura: il cui funzionamento non solo è pubblico, ma è la base dell’educazione!), e che le varie agenzie postali siano fra loro minimamente d’accordo nella gestione dei loro servizi: ciò che di fatto avviene grazie all’Unione Postale Universale, un ufficio di coordinamento dell’ONU. È grazie a tutto ciò se una lettera imbucata in Italia con francobollo italiano e indirizzo belga arriva in Belgio, piuttosto che essere bloccata alla frontiera. Se il paragone con le poste può sembrare troppo arcaico, nella posta elettronica si trova qualcosa di esattamente equivalente. Chi gestisce dunque la posta elettronica? Ovviamente nessuno, se si cerca una risposta generale. Esistono molti tipi di server di posta elettronica e innumerevoli loro istallazioni dislocate in tutto il mondo, esistono diversi programmi di posta elettronica (più o meno efficienti e comodi): ciò che è essenziale è solo che tutta questa immensa e frastagliata costellazione usi gli stessi standard di comunicazione.

Il tutto lo usiamo così spontaneamente che non ci badiamo neppure più, ma anche quando qualcuno mi scrive un messaggio all’indirizzo g.salmeri@mondodomani.org sta implicitamente sfruttando proprio questo meccanismo: dopo il segno della chiocciola il nome del server, uno dei milioni di server esistenti (il cui nome, tra parentesi, in questo caso è proprietà mia!), che comunica senza problema con gli altri milioni, senza in linea di principio nessun problema di censura o raccolta e sfruttamento di dati. E anche se ciò avvenisse (puta caso: in un indirizzo Gmail) la soluzione è banale: passo ad un altro indirizzo, lo pubblicizzo e avverto i miei corrispondenti di scrivermi da ora in poi là.

Anzi, si potrebbe fare un passo avanti e osservare che perfino questi standard di comunicazione non sono controllati da nessuno e non sono stati emessi da nessun vero organo ufficiale: piuttosto si tratta di accordi raggiunti in maniera informale grazie a proposte e sperimentazioni alle quali chiunque potenzialmente può prendere parte (donde la curiosa situazione per cui i testi che più si avvicinano a «normative» vengono chiamati «RFC», cioè «Requests for Comments», richieste di commenti!).

È immaginabile un canale, analogo ad uno di quelli dominanti prima citati, che però sfrutti un meccanismo simile? Prendiamo l’esempio di Twitter. Qui basterebbe semplicemente definire uno standard pubblico che permetta la lettura e l’inoltro di messaggi di microblogging; tale standard pubblico permetterebbe la creazione sia di vari «server» (il programma che raccoglie e rende accessibili i messaggi), sia di vari «client» (il programma nel mio computer o telefono che mi permette di leggere e scrivere messaggi); gli indirizzi potrebbero essere analoghi a quelli ora esistenti di Twitter, salvo che, come nel caso della posta elettronica, dovrebbe essere aggiunta la parte che specifica in quale server si trova l’indirizzo: il mio, per esempio, potrebbe essere @salmeri@mondodomani.org. Risolto il problema di ogni censura e di ogni raccolta e sfruttamento di dati! O meglio, se io installo un server di questo ipotetico sistema nel mio spazio @mondodomani.org sarò liberissimo di realizzarvi tutte le censure che voglio, per esempio: ma se a qualche ipotetico utente non piacciono, gli basterà spostare il suo account, puta caso, su un server @mondoieri.org, le cui regole gli piacciano di più: esattamente come prima abbiamo detto che chi non ama le regola di Gmail può un minuto dopo spostarsi altrove, senza perdere (questo è l’essenziale!) la capacità di corrispondere con chi ha il proprio indirizzo in Gmail, o in qualsiasi altro servizio di posta elettronica.

Il Fediverso esiste già

Come già in un caso analogo ho scritto, anche in questo debbo ahimè dire che per questa geniale idea (applicabile a sistemi analoghi a Facebook, a Whatsapp, a Instagram e così via) non potrò vincere nessun premio… perché è stata già realizzata. Si tratta del cosiddetto Fediverso, iniziato nel 2008 e formalizzato nel protocollo ActivityPub nel 2018.

L’esempio di Mastodon

Riprendendo l’esempio di prima: vogliamo usare una piattaforma di microblogging restando alla larga da Twitter? L’alternativa c’è, ed è Mastodon, i cui indirizzi hanno esattamente la forma che prima abbiamo descritto. Chi governa o possiede Mastodon? Nessuno, esattamente come nessuno governa o possiede il sistema della posta elettronica. Il sito orgogliosamente dichiara: «not for sale», «non in vendita!». D’altra parte, nessuno governa o possiede la rete stessa. Internet fin dall’inizio è stato pensato in una maniera interoperabile e decentralizzata: per entrarvi basta rispettare i protocolli su cui vi è stato accordo, ma che sono pubblici e dei quali nessuno è padrone. Non meraviglia troppo che qualche mese fa, nell’aprile del 2022, nel pieno dell’esplosione di preoccupazioni sul futuro di Twitter, la Comunità europea abbia scelto questo sistema per le proprie comunicazioni ufficiali, inaugurando il programma pilota EU Voice.

Ritorniamo al nostro esempio di Mastodon: perché allora non passare subito ad esso? Evidentemente gli inconvenienti rispetto a Twitter vi sono. Per esempio, esattamente come nel caso della posta elettronica, è impossibile che esista un modo universale per cercare l’indirizzo di una persona. E, in secondo luogo e soprattutto, benché concepito come universale e aperto, in questo momento è ancora un sistema di nicchia: entrarvi significa quasi necessariamente essere disposti a fare un po’ di campagna pubblicitaria presso amici e conoscenti! In terzo luogo, dato che lo standard è aperto, ovviamente ci sono molti server diversi tra cui scegliere (dove prendere il mio indirizzo? Quali condizioni d’uso sono le più adatta per me?). E ci sono anche diversi client tra cui scegliere: quale mi piace di più? La scelta è una bella cosa ma fa perder tempo!

È evidente che questi e consimili inconvenienti non possono essere deplorati come difetti di gioventù, se non in minima parte. Sono gli inconvenienti inevitabili di qualsiasi sistema, appunto, libero e decentralizzato. Tant’è vero che a questi inconvenienti abbiamo fatto perfettamente l’abitudine per la posta elettronica, o anche per altri meccanismi della rete stessa. Il fatto fondamentale è che (diciamolo con una battuta), la libertà costa sempre qualcosa. Dire questo ci fa subito pensare a grandi e sofferte lotte di liberazione, ma vale anche nella piccola scala delle decisioni sugli strumenti da usare nella vita quotidiana. Nascondere questo prezzo (pur piccolo che sia) e pubblicizzare alcune alternative come «facilissime da usare» non credo sia una buona strategia: sia perché non è oggettivamente vero, sia perché dissimula uno dei meccanismi sociali e umani più importanti, senza del quale tanti eventi, piccoli e grandi, resterebbero incomprensibili.

Una volta riconosciuto questo, si apre però anche lo spazio per riconoscere che l’intera esistenza umana si basa spesso su meccanismi di cessione di libertà in cambio di qualcosa.

Conclusioni

La filosofia dell’età moderna ha addirittura visto in questa dinamica l’origine stessa dello Stato: esso nascerebbe dall’accordo comune con il quale si cede ad un’entità superiore di governo una grande parte della propria libertà personale, in cambio della pace e della sicurezza di vita: uno scambio che la stragrande maggioranza degli uomini giudica vantaggioso! Detto ancora più radicalmente: ogni firma che mettiamo in un contratto è un vincolo alla nostra libertà, ma un vincolo che accettiamo più o meno volentieri in cambio di qualcosa che giudichiamo utile.

Sarebbe allora un’ottima cosa se chi propugna più o meno nebulosamente la diffusione delle «competenze digitali» aggiungesse nel loro novero anche l’elementare capacità di ragionare sulla propria vita e sul proprio futuro.

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