la sentenza

L’accesso all’email del coniuge non sempre è reato. I paletti della Corte di Strasburgo

La Corte di Strasburgo, ha ritenuto che non sia stato violato il diritto alla riservatezza, tutelato dall’art. 8 CEDU, da parte di un uomo in seguito alla denuncia della moglie avente a oggetto l’introduzione abusiva nella propria casella di posta elettronica con conseguente appropriazione di alcune mail compromettenti

Pubblicato il 07 Ott 2021

Rossella Bucca

avvocato, Studio Previti associazione professionale

Micol Sabatini

praticante avvocato, Studio Previti

diritto di accesso

Una recente pronuncia della Corte di Strasburgo segna un’importante evoluzione del bilanciamento tra il diritto alla riservatezza e la tutela di un proprio diritto in giudizio.

Il caso in questione riguarda una donna che reclamava il fatto che il marito non fosse stato incriminato dai giudici portoghesi per aver immesso nel dossier del procedimento di divorzio – incardinato dinanzi al giudice civile – alcune email compromettenti, scambiate dalla stessa con altri uomini, su un sito di incontri.

La ricorrente aveva infatti presentato denuncia penale accusando il marito di aver violato il proprio diritto alla riservatezza, oltre che il diritto al segreto della corrispondenza, tutelati dall’articolo 8 della CEDU. Pertanto, si è rivolta alla Corte di Strasburgo che, con la sentenza 7 settembre 2021, n.27516/14, ha, tuttavia, accolto la tesi sostenuta dai giudici portoghesi.

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Le argomentazioni dei giudici di Strasburgo

La CEDU ha sottolineato che, nel corso del procedimento, il tribunale di merito aveva appurato il consenso della ricorrente a concedere al marito il pieno accesso all’account di posta elettronica sul sito di incontri, autorizzando che lo scambio di comunicazioni tra la donna ed altri uomini entrasse a far parte della “vita familiare”.

Muovendo da tale assunto, la Corte ha precisato che i messaggi prodotti in giudizio fossero attinenti al procedimento di divorzio, in quanto idonei a valutare la situazione personale dei coniugi e della famiglia. Pertanto, non poteva ravvisarsi violazione alcuna dell’articolo 8 (Diritto al rispetto della vita privata e della corrispondenza) della Convenzione europea sui diritti dell’uomo al fine di determinare una responsabilità condivisa nella separazione.

La Corte ha accolto la tesi dei giudici portoghesi stabilendo specificamente che “gli effetti della divulgazione dei messaggi contestati sulla vita privata della ricorrente erano limitati”, in quanto “sono stati divulgati solo nell’ambito di procedimenti civili” ai quali il pubblico ha accesso “limitato”.

È vero che il diritto portoghese considera penalmente perseguibile colui che acceda al contenuto delle lettere o delle telecomunicazioni in assenza di consenso da parte dell’autore, ma è altrettanto pacifico – secondo quanto affermato dalla Corte di Strasburgo – che i giudici portoghesi hanno correttamente contemperato gli interessi in gioco: da una parte, il diritto della ricorrente al rispetto della sua vita privata; dall’altra, il diritto del marito ad una ragionevole possibilità di sottoporre il suo caso nei procedimenti civili. Difatti, considerata la situazione di spiccata conflittualità tra i coniugi, l’assenso all’accesso ai messaggi di posta elettronica da parte della donna nei confronti del marito ha permesso di qualificare tale corrispondenza come elemento integrante della vita di coppia.

Si tratta, senza dubbio, di una pronuncia che fa registrare un’importante evoluzione, specie a seguito degli orientamenti finora affermatisi in materia. All’uopo, pare opportuno compiere una breve digressione sulla fattispecie di reato che, secondo la prospettazione dei fatti da parte della ricorrente, si sarebbe perpetrata e sulla giurisprudenza affermatasi sul punto.

Il reato di accesso abusivo ad un sistema informatico e telematico nel nostro ordinamento

La normativa di riferimento è costituita dall’articolo 615-ter del codice penale, il quale punisce chiunque “abusivamente si introduce in un sistema informatico o telematico protetto da misure di sicurezza ovvero vi si mantiene contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo”.

Quindi il reato in esame sanziona due condotte distinte e separate: quella dell’accesso abusivo e quella dell’illecito mantenimento (quest’ultima si concretizza quando il soggetto, pur essendo stato autorizzato ad accedere al sistema informatico e telematico, vi si intrattenga in assenza di permesso specifico).

Nel primo caso, la condotta si consumerà quando l’utente si troverà a:

  • superare le misure di sicurezza poste a protezione del sistema;
  • essere nella condizione di poter consultare i dati ivi contenuti.

L’accesso si configura nel momento in cui il sistema informatico altrui esegue un’operazione richiestagli dal soggetto agente mediante una serie di comandi, mettendolo nelle condizioni di poter conoscere quanto in esso contenuto. Tuttavia, il soggetto non risulta sanzionabile nel momento in cui immette solamente la password e il nome utente: è necessario che si autentichi e riesca ad utilizzare le risorse contenute nel sistema. Al contrario, per far sì che si configuri una permanenza non autorizzata, quindi nel secondo caso, il legislatore presuppone che l’introduzione sia avvenuta in modo casuale o autorizzato, per cui, affinché il comportamento diventi penalmente rilevante, è necessario che l’utente non si scolleghi, nel momento in cui si sia reso conto di trovarsi all’interno di un’area riservata, nella quale non poteva certamente avere accesso.

In tale contesto, secondo un orientamento, il bene giuridico tutelato dalla norma è il “domicilio informatico”, in virtù della collocazione del dettato normativo nella sezione relativa alla inviolabilità del domicilio, bene costituzionalmente protetto dal combinato disposto degli artt. 2 e 14 della Costituzione e, a livello transnazionale, dall’art. 7 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione europea e dall’art. 8 CEDU. Secondo un altro orientamento, la finalità del legislatore è quella di proteggere la riservatezza dei dati, in quanto chi si introduce in un sistema informatico ha, nella maggior parte dei casi, l’obiettivo di sottrarre informazioni personali e/o riservate, all’insaputa della vittima. Senza voler scendere nel dettaglio della questione dottrinale, il reato è comunque considerato plurioffensivo, in quanto i beni giuridici e gli interessi in gioco sono eterogenei, trattandosi del diritto alla riservatezza correlato alla protezione del domicilio informatico. Ed effettivamente, la stessa collocazione della norma all’interno del codice penale spingerebbe a riflettere sulla qualificazione del domicilio informatico quale bene giuridico primariamente tutelato.

Gli orientamenti della giurisprudenza nazionale su casi analoghi a quello di specie

Senza pretese di esaustività sull’argomento, occorre passare brevemente in rassegna le pronunce giurisprudenziali sul punto, al fine di comprendere la ragione per la quale l’enunciato della Corte di Strasburgo abbia provocato così tanto stupore.

Si rinvengono due diverse pronunce della Corte di Cassazione, una del 2017, l’altra del 2019 che si occupano dell’accesso abusivo al sistema telematico da parte del coniuge ed affermano alcuni principi di diritto rilevanti che sembrano contrastare con quanto sostenuto da ultimo dalla Corte di Strasburgo.

Infatti, nella prima sentenza su menzionata, gli ermellini sostengono il carattere abusivo dell’accesso al sistema informatico, anche se il coniuge abbia precedentemente confidato la password del proprio account, quando il soggetto, pur essendo abilitato, “violi le condizioni e i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema per delimitarne oggettivamente l’accesso”. “E certo non può ritenersi rispettosa delle regole dettate dal titolare della casella elettronica per consentirne l’accesso, la condotta di chi utilizza la password, fosse anche ottenuta con il consenso del titolare, per modificarla indebitamente, impedendo a quest’ultimo di accedervi”. Nella seconda pronuncia, con attestazione pressoché similare, la Cassazione ha confermato la condanna per il reato di cui all’articolo 615-ter del codice penale ai danni di un uomo che, utilizzando nome utente e password della moglie (già impiegati e dal medesimo conosciuti prima che la loro relazione entrasse in crisi), effettuava l’accesso al profilo Facebook della donna, senza il suo consenso, fotografando una chat che la donna aveva intrattenuto con un altro uomo (da lui poi prodotta nel giudizio di separazione giudiziale) e cambiando la password del social, così da impedire alla persona offesa di accedervi in un secondo momento. Tali enunciati sono stati confermati da un’ulteriore decisione, la n. 2942 del 2019 – speculare alla 2905 su citata – che ha qualificato il social network e la correlata pagina personale quale vero e proprio “domicilio virtuale”. Pertanto, anche se uno dei coniugi si trovasse a conoscenza della password che protegge l’accesso al server di posta elettronica, e nel caso in cui tale informazione venisse fornita dall’altro coniuge, la Cassazione sembra proprio non escludere il concretizzarsi della fattispecie di reato di accesso abusivo al sistema informatico. Com’è stato precisato nei superiori arresti, l’account di posta elettronica costituisce “uno spazio di memoria protetto da una password personalizzata di un sistema informatico destinato alla memorizzazione di messaggi o di informazioni di altra natura nell’esclusiva disponibilità del suo titolare identificato da un account registrato presso il provider del servizio”.

Ad onore del vero, pare importante dare atto dell’esistenza di un contrapposto orientamento giurisprudenziale, secondo il quale la presenza di un vincolo particolarmente stringente come quello matrimoniale possa comportare l’affievolirsi del profilo della riservatezza di ciascun coniuge all’interno della relazione senza però che questo venga del tutto sacrificato.

Con una pronuncia particolarmente risalente nel tempo, la n. 6727 del 10 giugno 1994, la Cassazione aveva già stabilito la piena compatibilità tra il diritto alla riservatezza e la vita coniugale. I giudici del Palazzaccio avevano affermato che “i doveri di solidarietà derivanti dal matrimonio non sono incompatibili con il diritto alla riservatezza di ciascuno dei coniugi, ma ne presuppongono anzi l’esistenza, dal momento che la solidarietà si realizza solo tra persone che si riconoscono di piena e pari dignità”. Tanto vale anche nel caso di infedeltà del coniuge, poiché la violazione dei doveri di solidarietà coniugale non è sanzionata dalla perdita del diritto alla riservatezza. Questa impostazione si ripercuote inevitabilmente sulla legittimità ed utilizzabilità delle “prove di infedeltà” acquisite, sulla base di quanto finora esposto, in maniera illecita. Certamente, nel caso di un procedimento penale, è applicabile l’art. 191 c.p.p., che al comma 1, stabilisce che “le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate”, per cui tutte le prove acquisite violando la privacy del coniuge sarebbero inutilizzabili in un eventuale processo penale; la stessa Corte di Cassazione ha constatato che non possono essere adottate, in quanto raccolte in violazione della norma dell’art. 615-bis c.p., le prove acquisite attraverso una interferenza illecita nella vita privata (Cass. pen., Sez. V, n. 35681 del 13 agosto 2014).

Differente orientamento si registra in ambito civile, ove trova applicazione il criterio della gerarchia mobile che consente al giudice di effettuare un contro bilanciamento tra il diritto alla privacy e il diritto alla difesa processuale. All’uopo, giova richiamare una sentenza del Tribunale di Roma, la n. 6432 del 30 marzo 2016, secondo la quale nonostante la legge vieti l’utilizzo in un processo di prove acquisite in modo illecito, la scoperta “casuale” – rectius – “non intenzionale” della relazione extraconiugale non solo non autorizza l’altro coniuge a rivendicare la violazione della propria privacy ma consente addirittura che il contenuto dei messaggi in chat con l’amante possa essere prodotto in giudizio e utilizzato come prova nella causa di separazione, perché il fatto che la coppia viva sotto lo stesso tetto possa rendere consuetudine la condivisione di oggetti, come smartphone e tablet, nonostante una mancata espressa autorizzazione.

Conclusioni

Alla luce di quanto sinora esposto, pare evidente che la pronuncia della Corte di Strasburgo abbia segnato un’importante evoluzione nella valutazione di questioni analoghe a quella oggetto di trattazione, valida a stimolare riflessioni interessanti sul bilanciamento tra il diritto alla riservatezza e la tutela di un proprio diritto in giudizio. Probabilmente, non è detto che la condotta perpetrata dall’uomo nel caso in esame integri la fattispecie di reato di cui all’articolo 615 ter del codice penale, ma potrebbe forse rientrare nelle condotte tipizzate da altre norme, ad esempio l’articolo 616 del codice penale? A questo punto, occorre chiedersi fino a che punto il diritto alla riservatezza e alla segretezza della corrispondenza, in quanto diritto inviolabile, possa essere “sacrificato” e in nome di quale altro fondamentale diritto, se quello alla solidarietà familiare o all’adempimento dei doveri di natura coniugale.

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