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L’ombra della censura sul Digital Services Act



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Vengono al pettine nodi del rapporto tra istituzioni e piattaforme digitali, in uno scontro di poteri senza precedenti. I casi Telegram, Meta e X-Musk lo dimostrano. Da noi è anche il banco di prova del Digital Services Act, che rischia di eccedere sul piano della censura dei contenuti

Pubblicato il 3 set 2024

Massimo Borgobello

Avvocato a Udine, co-founder dello Studio Legale Associato BCBLaw, PHD e DPO Certificato 11697:2017



musk censura

Ad agosto sono venuti al pettine alcuni nodi del rapporto tra istituzioni e piattaforme digitali, in uno scontro di poteri senza precedenti.

  • Mark Zuckerberg, owner di Meta, ha ammesso di aver letteralmente censurato delle notizie – vere – in merito al Covid-19 e di aver ricevuto pressioni per oscurare contenuti legati alla copertura del New York Post su Hunter Biden prima delle elezioni del 2020.
  • In Francia è stato arrestato Pavel Durov, fondatore di Telegram, app di messaggistica e non solo.
  • Il 31 agosto, per finire il mese in bellezza, la Corte Suprema brasiliana ha bloccato X, che era stata anche oggetto di critiche da parte del commissario europeo Thierry Breton, a sua volta “stoppato” dalla “sua” Commissione.
Elon Musk's X under pressure amid Brazil ban | BBC News

Vediamo cosa è successo e se c’è – anche se le apparenze appaiono contrarie – un collegamento.

Cosa ha detto Mark Zuckerberg su “censura” covid

L’owner di Meta ha affermato, con uno scritto di due pagine, che i tema di Meta hanno ricevuto pressioni direttamente dalla casa Bianca “to censor certain Covid 19 contents, including humor and satire”, manifestando molta frustrazione nei casi in cui Meta non ha accondisceso alle richieste.

Discorso simile, ma forse pure più grave, quello relativo all’inchiesta del New York Post su Hunter Biden, di fatto accusato di corruzione: in quel caso, Zuckerberg afferma che fu direttamente l’FBI a “mettere in guardia” Meta dalla pubblicazione di quei contenuti, considerati disinformazione Russa.

Con estrema semplicità, Mark Zuckerberg ha “scaricato politicamente ” l’amministrazione democratica a poco più di due mesi dalle elezioni presidenziali americane del 2024, dove, a questo punto, si deve presumere che Donald Trump sia assolutamente favorito.

 
 

Dala lettura della missiva di Zuckerberg, inoltre, emergono almeno altri due elementi.

Il primo è l’attacco diretto ai propri fact checkers, su cui viene riversata interamente la responsabilità dell’aver dato seguito alle richieste della White House e dell’FBI.

Più che di uno “scaricabarile”, però, sembra di assistere ad un avviso di messa in liquidazione: il messaggio è del tipo “avete fallito, ora vi licenzio”.

L’altro dato, legato al precedente, è che Zuckerberg ha affermato che eviterà, in futuro, di dare seguito a richieste analoghe e qui il filone si sdoppia.-

In primo luogo, pare che vi sia una dichiarazione di intenti per avvicinare Meta ad un modello più simile ad X in materia di moderazione dei contenuti, censurando di meno.

Questa presa di posizione può essere determinata da una scelta politica di entrare nel business della disinformazione come X, per fare concorrenza al social di Elon Musk.

Dall’altra, c’è l’esigenza di tagliare i costi della moderazione, considerati molto alti cavalcando il tema – peraltro vero – della censura e dell’inefficacia dei fact checkers, politicamente influenzabili.

La mossa di Zuckerberg è certamente spregiudicata, ma è sostenuta anche dall’evidenza per cui nessun commendatore di notizie è neutrale, nemmeno i fact checkers.

Implicazione diretta: un attacco diretto al sistema, considerato sovietico, del Digital Service Act europeo, che impone costi elevatissimi in termini di moderazione e determina una censura vera e propria di svariati contenuti.

Musk ed X

Anche per Elon Musk agosto 2024 è stato un mese…memorabile.

Il patron di X ha deciso di mettere in diretta un’intervista a Donald Trump: inspiegabilmente, questa operazione è stata attenzionata dal commissario europeo Thierry Breton.

Quest’ultimo, proprio con riferimento all’intervista al candidato presidente repubblicano, ha di fatto accusato X di essere veicolo di disinformazione e di violare del regole del Digital Service Act.

Musk ha risposto mandando letteralmente a quel paese il commissario europeo, che è stato “scaricato” anche dalla Commissione stessa.

Era del tutto evidente che una simile intromissione nelle dinamiche elettorali statunitensi fosse del tutto fuori luogo e non poteva essere “fatta passare”.

Da ultimo,  la STF brasiliana (Corte Suprema Federale), ha ordinato il blocco di X su territorio brasiliano per non avere nominato un legale rappresentante in Brasile.

X aveva chiuso il mese scorso il suo ufficio in Brasile, affermando che la sua rappresentante era stata minacciata di arresto se non avesse rispettato gli ordini che ha descritto come “censura”, illegale secondo la legge brasiliana.

Il giudice Moraes aveva ordinato che gli account di X accusati di diffondere disinformazione – molti dei quali appartenevano a sostenitori dell’ex presidente di destra Jair Bolsonaro – fossero bloccati durante le indagini.

L’arresto di Pavel Durov e l’assalto a Telegram

Con un’operazione quantomeno torbida, l’autorità giudiziaria francese ha emesso un ordine di custodia cautelare nei confronti di Pavel Durov, fondatore dell’app Telegram, poco prima che l’aereo di quest’ultimo atterrasse sul suolo francese.

Dopo lo scompiglio delle prime ore, si è capito quali fossero capi di accusa nei confronti di Durov e si è compreso che nella stragrande maggioranza degli stessi il tema fosse legato alla crittografia impenetrabile della app.

Al netto della vicenda giudiziaria, che seguirà il suo corso, occorre dare alcune coordinate politiche e giuridiche.

Politicamente la Francia si pone come lo Stato dell’inclusione – fino all’aperta offensività e volgarità espressa negli ultimi giochi olimpici – ma esprime principi apertamente illiberali in materia di informazione: la riforma del Codice penale che ha introdotto le fattispecie di reato per cui Durov è stato accusato sono state approvate nella primavera del 2024; Thierry Breton, inoltre, è espressione del governo di Emmanuel Macron.

Se questa è la Francia del 2024, chi sostiene la libertà di informazione può certamente rimpiangere l’ancien regime senza tema di smentita o critica.

Le accuse a Pavel Durov, per la gestione della app Telegram, si muovono in due distinte direzioni.

Come detto, la maggioranza dei capi di imputazione attiene all’impenetrabilità della crittografa usata dalla app; come correttamente ha osservato Agostino Ghiglia su queste pagine, la questione attiene alla segretezza delle comunicazioni tra privati che, in Italia, è garantita dall’articolo 15 della Costituzione.

Che dice la Cedu

Nell’ordinamento sovranazionale, l’articolo 8 della CEDU (Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali) garantisce un diritto analogo, sotto la rubrica “Diritto al rispetto della vita privata e familiare”.

Questo è il testo: “1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza. 2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”.

La giurisprudenza della Corte EDU sul punto è costante e, nel merito, la normativa francese andrà valutata sula base di questo parametro.

Idem dicasi per quanto attiene alla legittimità delle accuse a Pavel Durov in termini di prevedibilità della natura criminosa della propria condotta: qui rileva l’articolo 7 della CEDU, rubricato “nulla poena sine lege”.

Ecco il testo: “1. Nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso. 2. Il presente articolo non ostacolerà il giudizio e la condanna di una persona colpevole di una azione o di una omissione che, al momento in cui è stata commessa, costituiva un crimine secondo i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili”.

Per capirci, l’Italia è stata condannata dalla CEDU al risarcimento del danno ai condannati per le prime ipotesi di concorso esterno in associazione mafiosa.

Questo “delitto” nasce dall’interpretazione giurisprudenziale – contrastata per lunghissimi anni – che “combina” gli articoli 110 e 416 bis del Codice penale ed è successiva alla commissione dei fatti.

Dato che al momento in cui i fatti sono stati commessi nessuno dei condannati poteva ragionevolmente prevedere di commettere quel determinato reato, la condanna definitiva era illecita per il diritto convenzionale.

Lo scenario, per Durov, è simile.

Ciò detto, la tensione con Telegram è legata più all’impossibilità di decrittare le chat che alla disinformazione veicolata tramite i canali della app, che è una piattaforma ibrida, tra messaggistica e social network.

L’ombra della censura

Le elezioni presidenziali americane del 2024 sono quasi certamente il fil rouge di tutte queste “notizie” sulla disinformazione.

L’amministrazione democratica uscente non può tollerare la vittoria di Donald Trump, e l’establishment europeo, comunque legato ai dem americani, è insofferente alla vittoria dell’esuberante candidato repubblicano.

Certamente la censura privilegia le forze politiche che hanno meno voti ed un elettorato più fidelizzato e costante, anche se minoritario: questo sono, perlopiù, oggi, le forze cosiddette progressiste in Europa.

Il modello orwelliano, però, non è la soluzione, è il problema, ed è questo che problema che le normative europee dovrebbero mirare a risolvere, invece di aggravarlo.

In altre occasioni, su queste pagine, si è sostenuto che il vero test del Digital Service Act sarebbe stata l’applicazione pratica, più che la lettura scientifica ed asettica della disciplina normativa.

Allo stato, purtroppo, il bilancio è negativo: pare avesse ragione chi urlava alla censura.

Un cambio di direzione, quindi, è altamente auspicabile.

Dalla vicenda Meta, peraltro, chi esce distrutto sono proprio i fact checkers, centrali nel sistema del DSA.

Qui si apre un tema di indipendenza e di qualifica di questi soggetti, spesso giornalisti professionisti o meno.

L’informazione mainstream, oggettivamente molto legata ai propri editori, risente della propria mancanza di imparzialità ed è il primo soggetto che viene aggredito economicamente dai social network, che ora innalzano la bandiera della libertà di pensiero e parola.

Non ci sono scuse per aver permesso questa debacle: l’impreparazione del sistema dell’informazione tradizionale è l’unica responsabile.


Una dedica

Questo è il primo articolo che scrivo dopo la morte di mio padre, Maurizio Borgobello, avvenuta improvvisamente il 19 agosto 2024. Questo pezzo è dedicato a lui, che mi ha insegnato a guardare sempre alla sostanza delle cose, ossia alle ragioni economiche e politiche sottese a fatti e notizie.

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