Il 5 agosto 2022 Amazon ha annunciato l’acquisizione di iRobot, azienda produttrice dell’aspirapolvere intelligente Roomba e leader del settore, avendo superato già a metà 2020 il milione di unità vendute in Italia.
Ed è notizia che può lecitamente preoccupare anche chi per ora non ha nessuna scopa robot a casa.
Domotica smart, quello che i consumatori non sanno: così ci giochiamo privacy e sicurezza
Certo, la Federal Trade Commission, autorità americana di supervisione sulla concorrenza dei mercati, non ha ancora espresso giudizio sull’operazione, che deve dunque essere ancora ufficializzata, ma i numeri sono stati resi noti: 1 miliardo e 700.000 dollari, ovvero la quarta più grande acquisizione di cui si sia reso protagonista il gigante guidato da Jeff Bezos dopo Whole Foods (catena di supermercati per la classe sociale medio-alta americana), la leggendaria Metro-Goldwyn-Mayer e 1Life Healthcare Inc. (azienda sanitaria privata). Riflettiamo: 1,7 miliardi di dollari, più del PIL di S. Marino. Bezos avrebbe potuto acquisire un piccolo Stato, ma ha preferito un’azienda che produce aspirapolveri. Perché investire tanto nella produzione di un elettrodomestico?
Perché Amazon vuole comprare iRobot (Roomba)
La risposta sta nel fatto che, in realtà, Roomba non è solo un aspirapolvere autonomo, ma una macchina dotata di sofisticati sensori e, in alcuni modelli, telecamere che servono a creare una pianta digitale dell’ambiente da pulire, con tanto di dettaglio sugli oggetti posati a terra o sugli animali domestici da evitare. Roomba è anche in grado di memorizzare più di una pianta digitale, così che l’utente possa utilizzarlo in altri appartamenti o sui vari piani della propria abitazione.
Si tratta dunque di uno strumento per raccogliere informazioni sugli utenti, aggiungendole ai già ricchissimi dati che Amazon possiede grazie ai suoi business principali, cioè:
- le vendite online
- e la fornitura di servizi Internet tramite Amazon Web Services (più mirato alle aziende, però, che alle famiglie).
- A cui si aggiungono, sempre nella domotica, l’universo smart assistant Alexa (che si diffonde in sempre più dispositivi)
- e il campanello intelligente (o videocitofono) Ring.
Associazioni consumatori e antitrust in azione
L’acquisizione di Roomba, dunque, dà pensiero sia alle autorità per la concorrenza sia alle associazioni dei consumatori che si occupano della protezione dei dati dei privati.
L’antitrust e Amazon-iRobot
L’antitrust deve valutare come l’operazione influirà sulla concorrenza nel mercato e sul potenziale (ulteriore) sfruttamento da parte di Amazon della propria posizione dominante. Probabilmente la Federal Trade Commission non impedirà la conclusione dell’affare, visto che Amazon ha rivali importanti nel settore “smart home” come Google con tutta la linea Nest di termostati, telecamere, lucchetti digitali, sistemi wi-fi… Finché uno dei criteri principali di valutazione dell’antitrust resta il prezzo al consumatore, altre metriche di concorrenza, come la possibilità di sfruttare informazioni per inviare pubblicità targetizzata o per favorire la vendita dei propri prodotti e servizi rispetto a quelli dei rivali, restano poco rilevanti.
Associazioni consumatori e Amazon-iRobot
Le associazioni dei consumatori, dal canto loro, mettono in guardia gli utenti sulle implicazioni che l’acquisizione avrà sul trattamento dei loro dati. Ma quali sono, praticamente, i rischi di questa operazione relativi alla privacy? Cosa importa se Amazon conosce l’interno delle nostre case? Alcuni ritengono che non vi sia alcun aumento nei rischi di privacy per il consumatore – dopotutto, Amazon può dedurre molte più informazioni sensibili riguardanti gusti e preferenze dei propri utenti utilizzando la valanga di dati disponibili tramite la sua piattaforma di vendita online, dunque il valore aggiunto dei dati ricavati dalle piantine digitali di Roomba sembra basso. Gli esperti di privacy, tuttavia, non sono d’accordo.
Il nodo privacy
Nonostante Amazon abbia rassicurato gli utenti che i dati raccolti non vengono condivisi con terze parti, è già successo più volte che vari corpi di polizia e forze dell’ordine abbiano avuto accesso a dati provenienti da Amazon. Ad esempio, Ring, il ramo dell’azienda che produce campanelli con videocamere di sorveglianza, ha fornito dati al corpo di polizia statunitense senza il consenso dei consumatori e senza l’ordine di un giudice. Nel 2020 i suoi stessi impiegati hanno avuto accesso non autorizzato a video provenienti da utenti Ring.
E molti ricorderanno l’utilizzo di dati provenienti da Alexa per risolvere casi di omicidio in Florida, Arkansas o New Hampshire. Per non parlare poi della sicurezza dei database su cui tutti questi dati risiedono: sebbene gli standard di Amazon siano elevati, nessun sistema cui si possa accedere tramite rete Internet è mai assolutamente sicuro.
Lo statement di iRobot
Colin Angle, fondatore e CEO di iRobot, ha affermato: “Per iRobot la sicurezza dei prodotti e la privacy dei clienti sono di estrema importanza. Sappiamo che i clienti ci accolgono nelle loro case perché confidano che i nostri prodotti li aiuteranno nella loro quotidianità e che noi rispetteremo le loro informazioni. Prendiamo questo aspetto con molta serietà. Una volta acquisiti da Amazon, il nostro impegno nei confronti dei dati e della privacy dei clienti rimarrà invariato”.
Perché la concentrazione di dati deve preoccuparci
Il punto generale, dunque, va ben oltre il singolo caso di Amazon che acquista iRobot. I rischi di privacy sono oggi dovuti principalmente al fatto che il mercato dei dati non è stato regolamentato per anni e, anche oggi che esistono, almeno per i residenti in Europa, le protezioni di leggi complesse come il GDPR e la direttiva ePrivacy, la compravendita di dati sui consumatori è ancora estremamente lucrativa, in parte proprio perché tante delle protezioni che vengono dalla legislazione possono essere aggirate tramite operazioni di fusione o acquisizione. Amazon non ha acquisito un’azienda di aspirapolveri – ha acquisito tutti i dati che essa possiede e continua a raccogliere sui consumatori, 1 miliardo e 700.000 dollari di dati. L’acquisizione di WhatsApp da parte di Meta (allora Facebook) fu ancora più clamorosa (ricordiamo tutti la cifra record di 19 miliardi di dollari) ma era motivata dalle stesse considerazioni.
Stesso discorso su quella di Google per Nest. E quando si dice che tanto si tratta di dati anonimi o non sensibili, la verità è che metodi computazionali moderni, affiancati da macchine sempre più potenti, in grado di processare sempre più dati e sempre più velocemente, rendono tutti i dati re-identificabili (cioè non più anonimi) e, di fatto, sensibili.
Un recente esempio di de-anonimizzazione dei dati viene dal mercato (a molti utenti del tutto sconosciuto) dei veicoli con capacità di connessione ad Internet, le smart cars. Il mercato dei dati provenienti dalle smart cars è ancora relativamente piccolo ma, secondo alcune analisi, il suo valore potrebbe salire fino agli 800 miliardi di dollari entro il 2030. Sebbene molte aziende del settore sottolineino che utilizzano dati aggregati o anonimi, la natura unica dei dati di localizzazione e movimento aumenta notevolmente il potenziale di violazione della privacy degli utenti. In effetti, in determinate condizioni, i movimenti di una persona sono sufficienti per identificarla in modo univoco.
E come sanno bene le minoranze che subiscono discriminazioni, i propri movimenti possono essere informazione estremamente sensibile (qui un esempio di come informazioni sulla posizione di alcuni veicoli privati, raccolte tramite dei lettori automatici di targhe, sono state utilizzate per sorvegliare comunità musulmane a New York). Ma questo è solo un esempio – la letteratura scientifica studia metodi di re-identificazione di database anonimi da decenni nei settori più disparati: dall’intrattenimento al settore medico a quello finanziario (il lettore interessato può iniziare dai lavori di Latanya Sweeney, una pioniera in questo campo). Certo, gli esperti di privacy creano sempre nuovi metodi per aiutare aziende ed organizzazioni ad anonimizzare i propri database in maniera efficace, ad esempio tramite tecniche note con il nome di differential privacy, ad oggi lo standard più sicuro, ma il rischio di re-identificazione non è mai zero.
Passando poi alla discussione sui dati più o meno sensibili, perché mai una dettagliata piantina interna di un’abitazione, completa di immagini (e chissà, un giorno anche audio?), insieme ai dati sull’utilizzo di un aspirapolvere sono sensibili?
Ad esempio perché potrebbero essere utilizzati per proporre pubblicità targetizzata per determinati prodotti o servizi, che ad alcuni potrebbe risultare intrusiva, o perché potrebbero facilitare la discriminazione di prezzo di quei medesimi prodotti o servizi, e a nessuno piace pagare più del vicino per lo stesso bene. Oppure perché un governo autoritario potrebbe decidere di vietare il consumo di energia sopra un certo limite ai propri cittadini, e potrebbe avere accesso ai consumi di Roomba che, magari, può essere categorizzata come un bene superfluo. Come sempre accade quando si ha a che fare con i diritti umani fondamentali, di cui la privacy è esempio, anche la sua violazione è maggiore per soggetti a rischio, come le minoranze, chi è soggetto a persecuzione per qualsiasi motivo di natura ideologica, politica, o religiosa.
Il mercato dei dati non è solo un problema di pubblicità o di personalizzazione di prodotti e servizi: ha un effetto su un diritto fondamentale come la privacy che, nonostante validi tentativi di legislazione, non è ancora protetto in maniera efficace.