Quando si parla di privacy occorre specificare cosa si intende esattamente, in quanto si tratta di un concetto complesso, dalle molteplici sfaccettature e interpretazioni, che significa per ciascuno qualcosa di diverso e che varia nei luoghi e nel tempo (Acquisti et al. 2015).
Anche volendosi soffermare sul significato prettamente economico del termine, il quale guarda ai trade-off, ovvero cosa si guadagna e cosa si perde quando si protegge la propria sfera privata – sia essa intesa come proprietà fisico-geografica sia come patrimonio di informazioni personali – troviamo almeno due scuole di pensiero: chi pensa alla privacy come bene finale, ossia un bene che, in gergo economico, viene consumato e dà utilità in sé, e chi invece la intende come bene intermedio, ovvero un bene che dà utilità solo in quanto consente di ottenere qualcos’altro, non perché viene consumato direttamente (Acquisti et al. 2016).
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Privacy come bene finale o intermedio: un esempio pratico
Per rendere la distinzione un po’ meno astratta, prendiamo l’esempio di un cliente di un supermercato che deve decidere se iscriversi a un programma fedeltà: ogni volta che fa la spesa e utilizza la carta fedeltà ottiene degli sconti su determinati prodotti, oltre ad accumulare dei punti che serviranno poi per redimere dei premi; in cambio, deve fornire al gestore del supermercato i suoi dati personali, tra cui nome e cognome, data di nascita, indirizzo, insieme ovviamente a tutti i prodotti acquistati ogni volta che viene utilizzata la carta fedeltà. In questo caso, per privacy si intende la protezione dei dati da fornire al gestore del supermercato. Il trade-off da valutare è costituito, da un lato, dal costo dell’operazione, ossia il rischio che i propri dati non vengano trattati con la dovuta riservatezza o che vengano rubati, insieme al fatto che il gestore può profilarci, cioè creare un dossier su tutte le nostre preferenze in termini di prodotti acquistati ed eventualmente effettuare discriminazione di prezzo, mostrandoci prezzi più alti per i prodotti che acquistiamo sempre. Dall’altro lato, ci sono poi i benefici ricevuti in termini di sconti e premi e, nel caso in cui si abbia una preferenza personale per la pubblicità targetizzata, anche la ricezione di raccomandazioni pubblicitarie personalizzate per l’uno o l’altro prodotto.
Fondamentalisti vs indifferenti
Colui che pensa alla privacy come bene finale è un cliente che prende la decisione di iscriversi o meno al programma fedeltà indipendentemente da questo trade-off: se è un “privacy fundamentalist,” come direbbe Westin, grande studioso delle preferenze per la privacy dei dati dei cittadini statunitensi tra gli anni ’90 e 2000, è uno che dà grande valore alla privacy in sé e per sé, quindi in nessun caso condividerebbe volontariamente i propri dati; se è un “privacy unconcerned”, non ha mai problemi a condividere le proprie informazioni (Kumaraguru & Cranor, 2005).
Calcolatori vs pragmatici
Chi invece pensa alla privacy come bene intermedio è un cliente che prende in considerazione i costi ed i benefici della transazione, effettua quello che alcuni chiamano un “privacy calculus” (Culnan & Armstrong 1999) e decide se iscriversi o meno in base ai benefici ricevuti al netto dei costi imposti. Westin chiamerebbe questo cliente un “privacy pragmatist,” un pragmatico che riflette su quali siano i costi e benefici finali piuttosto che sul piacere intrinseco di proteggere o condividere qualcosa di personale. Probabilmente la maggior parte dei consumatori guarda alla privacy in parte come bene finale e in parte come bene intermedio: noi tutti abbiamo una preferenza più o meno marcata per la riservatezza in sé e per sé ma valutiamo cosa abbiamo da perdere e da guadagnare in una transazione che coinvolge informazioni personali.
Come categorizzare i clienti
Conoscere che “tipo” siamo, se apparteniamo all’una o all’altra categoria Westiniana, avrebbe molto valore per chiunque volesse venderci un bene o servizio, perché potrebbe personalizzare la proposta in base alle nostre preferenze. Un’azienda che vende abbonamenti a contenuti di intrattenimento, come Sky o Netflix, potrebbe, ad esempio, risparmiare i costi di inviare pubblicità personalizzata ad i “privacy fundamentalists”, che non solo sottoscriveranno l’abbonamento con scarsa probabilità, ma potrebbero persino infastidirsi per essere stati anche solo targetizzati. L’azienda potrebbe invece massimizzare il rendimento dell’inverstimento inviando pubblicità soltanto agli “unconcerned” ed ai “pragmatist”. Purtroppo, distinguere l’uno dall’altro tipo di cliente non è semplice, proprio perché nella maggior parte dei casi la distinzione non è così netta: una persona può essere una “privacy fundamentalist” per quanto riguarda la sua ideologia politica ma una “unconcerned” per lo shopping; può valutare la privacy in sé e per sé quando scrive un testamento ma se si tratta di diagnosticare una malattia considera i rischi ed i benefici associati ad una ricerca dei sintomi su Google.
Proponiamo qui una distinzione tra due componenti della preoccupazione per la privacy che potrebbe aiutare nella categorizzazione delle varie tipologie di cliente. Quando si parla di preoccupazione della privacy nel contesto specifico del mercato dei dati, ovvero della compravendita di dati personali, si può distinguere la dimensione della trasparenza da quella della privacy in sé e per sé. Alcuni consumatori possono essere particolarmente avversi alla segretezza che ricopre tutto il processo di raccolta ed utilizzo dei dati personali: a tali consumatori sta bene che il mercato esista e non hanno problemi di pura condivisione di dati, ma vogliono sapere esattamente quali dati sono oggetto di compravendita, come vengono raccolti e distribuiti, che valore hanno, chi ha accesso ad essi, sia a titolo gratuito sia gravoso, e per quanto tempo.
Altri consumatori, al contrario, valutano la riservatezza e la protezione del dato in sé e preferiscono non venga scambiato sul mercato.
Distinguere queste due categorie di persone, ad esempio rendendo il flusso dei dati trasparente, è più semplice che individuare i “privacy fundamentalists” a priori. Ad esempio, programmi come Disconnect o Ghostery servono a gestire e visualizzare le aziende pubblicitarie o di analisi dei dati che tracciano la nostra attività online. Chi li utilizza solo per visualizzare tali aziende cerca trasparenza, chi li utilizza, insieme magari a degli ad-blockers, per bloccare il tracciamento e le pubblicità targetizzate è invece preoccupato di essere tracciato e valuta la privacy in sé e per sé. Certo, anche sapere come i consumatori utilizzano strumenti simili non è immediato – richiederebbe una collaborazione con il fornitore di tali servizi o un sondaggio – ma è meno proibitivo che distinguere i “privacy fundamentalists” dagli “unconcerned” e dai “pragmatists”.
Conclusioni
Il mercato dei dati è estremamente complesso ma fortunatamente la tecnologia ci fornisce strumenti che possono aiutare sia il consumatore a ottenere privacy e/o trasparenza, sia le aziende a massimizzare il rendimento del loro investimento nel mercato dei dati rispettando allo stesso tempo le preferenze dei clienti.
Bibliografia
Acquisti, A., Brandimarte, L., & Loewenstein, G. (2015). Privacy and human behavior in the age of information. Science, 347(6221), 509-514.
Acquisti, A., Taylor, C., & Wagman, L. (2016). The economics of privacy. Journal of economic Literature, 54(2), 442-92.
Culnan, M. J., & Armstrong, P. K. (1999). Information privacy concerns, procedural fairness, and impersonal trust: An empirical investigation. Organization science, 10(1), 104-115.
Kumaraguru, P. and Cranor, L. F. (2005) .Privacy indexes: A survey of Westin’s studies. ISRI Technical Report.