Il cosiddetto “Great Firewall” cinese prende sempre più la forma di un sofisticato modello di “autoritarismo digitale”, alternativo all’attuale configurazione della Rete globale decentrata e in grado di realizzare un pervasivo controllo delle comunicazioni online.
Perseguendo l’obiettivo di raggiungere la “sovranità digitale” mediante la progressiva emancipazione da interferenze esterne sulla stabilità delle proprie infrastrutture “domestiche”, si sta intensificando, nella strategia generale di Pechino, il perfezionamento di svariati sistemi di sorveglianza e censura a presidio della sicurezza nazionale.
Tali sistemi, rafforzano la capacità di controllo dell’ambiente virtuale di cui sembra dotato l’ubiquitario “occhio tecnologico” del Dragone nel monitoraggio di qualsivoglia contenuto immesso dagli utenti, come peculiare tratto distintivo della Rete centralizzata predisposta da Xi Jinping.
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Tecniche di manipolazione e strumenti di censura
Si assiste così al tentativo – praticamente pressoché riuscito – di monopolizzare lo spazio informativo esistente nell’ottica di orientare l’opinione pubblica verso la narrazione ufficiale avallata dagli apparati di governo mediante l’utilizzo di raffinate tecniche di manipolazione che prevedono, unitamente alla massiccia creazione di account fake come fonte di inquinamento dei contenuti automatici generati da bot (anche grazie ad efficaci campagne di comunicazione), il ricorso a strumenti restrittivi di censura e di tracciamento profilato delle identità personali.
Un recente articolo del New York Times documenta, in tal senso, l’impatto del sistema cinese di sorveglianza sull’identificazione dettagliata delle persone mediante l’uso di tecnologie di riconoscimento facciale in grado di raccogliere un’elevata quantità di dati e vocali estrapolati da videocamere integrate dai dispositivi di localizzazione installati sui telefoni delle persone.
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ChinaFile e la burocrazia di sorveglianza
L’articolo, nell’ambito di una ricerca molto più ampia sul tema, rinvia alle evidenze di studio pubblicate, all’interno del progetto ChinaFile, dal Center on US-Cina Relations presso Asia Society, dopo aver esaminato una mole significativa di contratti governativi, avvisi di offerte e procedure di affidamento di appalti pubblici assegnati da Pechino, da cui si evince l’erogazione di un budget di spesa di oltre 2,1 miliardi di dollari che inaugura l’era di una vera e propria “burocrazia di sorveglianza”.
In particolare, lo studio citato descrive le principali tappe del programma governativo, avviato già tra il 2004 e il 2006, con un picco attuativo registrato tra il 2018 e il 2019, mediante la graduale progettazione dei primi test di sperimentazione localizzata come inziali “progetti pilota” effettuati in alcune aree selezionate del Paese, per poi realizzare una strategia volta all’installazione massiva di telecamere di sorveglianza nei luoghi pubblici del tessuto urbano delle principali città più affollate e dei piccoli borghi rurali. Sembra così manifestarsi l’intento di creare un vero e proprio sistema reticolare di vigilanza sociale senza precedenti. A tal fine, la ricerca riporta gli orientamenti politici di indirizzo formalizzati in un documento programmatico nazionale risalente al 2015 ove, appunto, l’obiettivo della sorveglianza generale risulta giustificato dalla necessità di salvaguardare esigenze di pubblica sicurezza per reprimere, anche in chiave preventiva, i dilaganti fenomeni di criminalità, unitamente al controllo dei gruppi etnici e religiosi ostili al regime, in modo da garantire la stabilità sociale. Secondo lo studio, si tratta peraltro di una tendenza ulteriormente accentuata durante la pandemia “Covid-19” anche per assicurare la tutela della saluta collettiva.
I dettagli del Project Sharp Eyes
“ChinaFile” descrive le caratteristiche del “Project Sharp Eyes” con cui il governo di Pechino “mira ad estendere la copertura della “videosorveglianza al 100% degli spazi pubblici chiave della Cina” e fa riferimento alla realizzazione di una sorta di “Rete tridimensionale di percezione del ritratto” con finalità di prevenzione e controllo. Dopo aver mappato l’esistenza dei “punti chiave” (ingressi dei ristoranti, negozi alimentari, centri commerciali, stazioni degli autobus, asili, scuole, ospedali, cinema, palestre, luoghi di intrattenimento), il progetto stabilisce l’installazione di telecamere, scanner e sniffer WiFi “compatibili con il software di riconoscimento facciale, insieme ad apparecchiature aggiuntive e cavi in fibra ottica” in grado di rilevare i volti dei passanti per fronteggiare i “pericoli intrinseci posti dall’attività umana quotidiana” esposta al rischio di furti, rapine, atti di violenza e ulteriori eventi pericolosi che incidono sul benessere della collettività. Per le medesime finalità, anche la polizia è autorizzata a scansionare i codici QR disponibili sulle porte d’ingresso delle abitazioni private al fine di ottenere, in tempo reale, informazioni complete e generali sui nuclei familiari ivi residenti.
Esistono anche strumenti che monitorano i cittadini mediante un sistema di collegamento geolocalizzato alle carte d’identità in grado di assicurare l’identificazione facciale delle persone, al pari di una costante rilevazione sui relativi spostamenti.
Addirittura, in alcune regioni del Paese viene riscontrata la presenza di sistemi di sorveglianza ancora più “pervasivi e invasivi” in grado di distinguere i gruppi etnici persino mediante il tracciamento dei “peli del viso da cui trarre possibili segni di pericolosità come minacce sensibili per la sicurezza pubblica anche rispetto ai rischi di “terrorismo religioso” che giustificano, nelle intenzioni governative di Pechino, l’uso massivo di tecnologie di sorveglianza e riconoscimento facciale, al punto da consentire di scansionare “i volti di 1,4 miliardi di persone in un solo secondo”.
La censura dei contenuti online
In stretta connessione con il perfezionamento di sofisticate tecnologie di sorveglianza, si sta sviluppando un poderoso sistema di censura dei contenuti online che trova terreno fertile sul piano regolatorio a seguito della revisione del quadro normativo vigente, tenuto conto delle recenti riforme legislative sempre più funzionali ad assecondare, in sede di interventi prescrittivi di natura vincolante e cogente, un approccio selettivo di controllo delle informazioni mediante l’imposizione di tecniche di filtro ex ante volte a monitorare il flusso comunicativo generato dagli utenti.
Come riporta un articolo di approfondimento a cura del MIT – Technology Review, la Cina, infatti, “vuole censurare i commenti online”, prevedendo un aggiornamento del sistema di regolamentazione incidente, con stringenti modalità attuative, sul regime di responsabilità dei gestori di piattaforme telematiche e dei creatori di contenuti digitali, perseguendo così l’effetto deterrente di disincentivare, a pena di ingenti sanzioni, la pubblicazione viralizzata dei contenuti condivisi nell’ambiente virtuale.
A tal fine, secondo quanto riportato dal citato articolo, l’authority nazionale Internet Cyberspace Administration of China ha pubblicato una bozza di aggiornamento sulla gestione dei post e dei commenti pubblicati via Internet, destinata a modificare la disciplina di riferimento – risalente al 2017 – in materia di responsabilità telematica nella parte in cui prescrive, in via generalizzata, la preventiva approvazione di tutti i commenti online come adempimento necessario per la successiva pubblicazione e visualizzazione dei medesimi.
Si tratta di una proposta normativa non del tutto inedita, anzi perfettamente in linea con l’obiettivo generale di adeguamento integrale del quadro normativo vigente alle primarie esigenze di protezione dei dati personali e dell’ordine pubblico nel rispetto di quanto previsto dalla legge in materia di sicurezza informatica che impone, proprio allo scopo di proteggere i cittadini cinesi da interferenze esterne di governi stranieri, la raccolta e la conservazione di tutti i dati personali nel territorio cinese, nonché – se si tratta di aziende straniere che operano in Cina – di autorizzare l’accesso dei medesimi dati in condivisione con le società cinesi proprietarie dei relativi server come adempimento necessario per conformarsi alle normative nazionali.
Il caso Gitee
Emblematico, in tal senso, il caso “Gitee” – sempre segnalato dal MIT – da cui si evince il tentativo di censura del governo cinese sul funzionamento del codice open source, per impedire agli sviluppatori il diretto e libero utilizzo del servizio in assenza di una supervisione preliminare prescritta dalle nuove policy aziendali che prevedono l’installazione di appositi strumenti di filtro in grado di selezionare e bloccare parole ritenute offensive, dal contenuto illecito o “politicamente sensibile”, con conseguente interruzione dei servizi.
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Si registra quindi un clima di censura realizzato (come ad esempio, il blocco predisposto da WeChat – riportato dal MIT), peraltro, talvolta con il coinvolgimento attivo delle piattaforme cinesi indotte alla collaborazione anche per evitare di subire conseguenze punitive di natura patrimoniale in caso di inerzia nella capillare rimozione dei contenuti “sgraditi” immessi dagli utenti, motivata da esigenze di salvaguardia dell’ordine e della sicurezza pubblica a presidio di interessi generali dello Stato.
Rispetto alle insidiose criticità che stanno erodendo la stabilità della Rete globale mettendo in discussione l’attuale governance digitale multilaterale esistente su scala planetaria, di pari passo con il preoccupante indebolimento delle democrazie occidentali sempre più minate dai disordini sociali amplificati dalle campagne manipolative di disinformazione in grado di inquinare il dibattito politico generato dal processo decisionale di formazione dell’opinione pubblica, il caso “cinese” è senza dubbio emblematico.
Conclusioni
Il “Great Firewall” si perfeziona come alternativo modello “orwelliano” di censura e sorveglianza virtuale che persegue una sovranità tecnologica “ibrida” – contrapposta alla configurazione occidentale (USA-Europa) – da cui discendono pervasivi poteri di controllo per evitare il rischio di proteste politiche interne socialmente destabilizzanti, pur senza rinunciare però alla crescita competitiva della Cina declinata secondo standard di sviluppo “occidentale” così sfruttando i vantaggi dell’innovazione digitale per raggiungere la leadership mondiale in attuazione del programma internazionale di “Belt and Road Initiative” (cd. “via della seta digitale”), che prevede una strategia di esportazione tecnologica del proprio modello di governance.
Siamo forse solo all’inizio di un pervasivo controllo autoritario, dalle implicazioni future ancora non del tutto chiare e definite? Di certo, anche grazie ai solidi apparati burocratici supportati da aziende specializzate nel settore ICT, si intensifica, come precisa strategia nazionale, il dominio digitale di Pechino alimentato da una visione culturale comunque prevalente nella società cinese, ove si registrano atteggiamenti patriottici di spontanea adesione al governo o – all’estremo opposto – reazioni inconsce di autocensura per paura di ritorsioni, dando vita ad un inedito modello “orwelliano” di sorveglianza algoritmica diffusa.
Tale tendenza sembra destinata ancor più a rafforzarsi per effetto del ranking reputazionale prodotto dal sistema (premiale/punitivo) “di credito sociale”, con il risultato di appiattire qualsivoglia forma di protesta o dissenso politico all’interno della collettività dei consociati largamente favorevoli a mantenere lo status quo governativo.