Quello dell’advertising online è un Far West in cui i minori rischiano continuamente in contenuti non appropriati e a pubblicità estremamente persuasive, specie perché non sono facilmente identificabili come reclame.
Il problema è amplificato, paradossalmente, quando l’obiettivo della pubblicità non è ottenere denaro (effetto che può essere precluso da un’impostazione genitoriale degli strumenti di accesso alla rete) ma piuttosto dati personali.
Pubblicità mirata e minori: i paletti della nuova strategia Ue
È quanto viene denunciato da uno studio realizzato da una squadra di volontari appartenenti alle Autorità europee per la privacy, creato dalla Commissione Europea con il supporto del Gruppo Europeo dei Garanti.
A valle dei risultati dello studio, sono stati diffusi cinque principi chiave di correttezza nell’advertising rivolto ai bambini da parte delle istituzioni comunitarie.
Le “trappole” della pubblicità online per i minori
La pubblicità online può essere presentata sfruttando una infinità di diversi “canali” autonomi l’uno rispetto all’altro (ogni app e anche ogni gioco online con i propri contenuti in-game acquistabili costituisce una vetrina a sé e potenzialmente autonoma di contenuti promozionali, tra l’altro declinati sul singolo utente il che rende ancor più difficile che contenuti inappropriati vengano segnalati data la ridotta, ma ben selezionata, platea interessata), il che rende davvero inedito lo scenario rispetto al modello dell’autodisciplina pubblicitaria, efficace proprio perché i player coinvolti sono pochi e perché la pubblicità è visibile alla generalità del pubblico.
A questi elementi si aggiungono le vulnerabilità specifiche dei minori, che già dai cinque anni di età possono comprendere e riconoscere l’advertisement e il suo significato, ma faticano a “resistere” alle pratiche più aggressive declinate online, anche per la competizione dei pari che si instaura nell’ambiente sociale di riferimento.
I cinque principi di correttezza per l’advertising online rivolto ai minori
Questi i cinque principi ritagliati dalle autorità UE:
- Le vulnerabilità dei bambini dovrebbero essere prese in considerazione dai fornitori di servizi nel momento della progettazione dell’advertisement o di ideazione di tecniche di marketing che potrebbero essere viste da bambini.
- La particolare vulnerabilità dei bambini a causa della loro età o credulità non può essere sfruttata dai fornitori di servizi.
- Quando l’advertisement è rivolto ai bambini o è probabile che sia visto da loro, la finalità di marketing dovrebbe essere indicata in modo chiaro e comprensibile per i bambini.
- I bambini non devono essere destinatari di annunci tailor-made, o sollecitati all’acquisto di contenuti in-app o in-game. I giochi commercializzati gratuitamente non dovrebbero richiedere acquisti in-app o in-game per un’esperienza d’uso soddisfacente.
- I bambini non devono essere profilati per scopi pubblicitari.
Su internet nessuno sa che sei un minore
Il problema principale nella disciplina dell’advertisement rivolto ai minori online è quello di individuare quando si è di fronte ad un soggetto minore di età.
I vari banner che richiedono di confermare la propria maggiore età all’atto dell’accesso al sito web o alla app costituiscono ben fragile difesa rispetto all’accesso non autorizzato di minori.
TikTok, ad esempio, è stata oggetto di pesanti censure da parte del Garante Privacy proprio per l’omesso controllo circa l’effettiva età dei propri iscritti, portando a soluzioni di compromesso (che hanno incluso una richiesta di conferma dell’età anagrafica a tutti gli iscritti) che però non risolvono del tutto la problematica e si fondano ancora almeno in parte su un’”autocertificazione” della propria età, con tutti i limiti del caso.
C’è chi propone di aggirare l’ostacolo attraverso il sistema bancario, chiedendo agli istituti di credito di “marcare” le carte di pagamento dedicate ai minori, un’altra soluzione potrebbe coinvolgere SPID (o meglio, un hub europeo per la verifica delle identità digitali), in entrambi i casi è però evidente l’appesantimento delle procedure e l‘aumento delle difficoltà per i gestori dei siti/app che si trovano a dover gestire una mole di dati personali ulteriori per interiorizzare questa verifica prima lasciata ad autodichiarazioni.
L’Unione Europea, con i principi appena visti, va invece in una direzione diversa e impone a chi crea la pubblicità di adottare cautele ogniqualvolta la sua pubblicità è indirizzata ai minori (o comunque è probabile che sia vista da loro, formula quest’ultima che nelle intenzioni delle istituzioni servirebbe ad evitare facili giustificazioni in capo ai fornitori di servizi pubblicizzati e comunque a tutelare i minori nel caso in cui su un sito/app a loro rivolto compaiano pubblicità “generaliste”).
Il problema dell’identificazione del minore sul web passa quindi in secondo piano nel settore pubblicitario in quanto il contenuto “rivolto” ai minori deve essere creato secondo correttezza a prescindere dall’età dell’utente.
Il problema ricade però sulle piattaforme stesse che, se vogliono essere appetibili a livello pubblicitario, avranno interesse a separare il grano dalla crusca, ovvero a indicare ai loro inserzionisti con sicurezza se la pubblicità verrà mostrata o meno ai loro utenti minorenni.
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Le tutele giuridiche riguardo all’advertisement rivolto ai minori online
I principi appena visti si inseriscono in un quadro normativo complesso ed articolato sin dal livello comunitario.
I principali testi normativi che incidono sulla pubblicità online, specie se rivolta ai minori, si rinvengono nel GDPR (Reg. UE 679/2016) e nella Direttiva europea in tema di pratiche commerciali scorrette (Direttiva 2005/29/EC), declinata nel diritto italiano all’interno del Decreto Legislativo n. 146/2007.
Ad esempio, il Considerando 38 del regolamento GDPR afferma, in sintonia con i principi stesi dalle istituzioni europee, che:
“I minori meritano una specifica protezione relativamente ai loro dati personali, in quanto possono essere meno consapevoli dei rischi, delle conseguenze e delle misure di salvaguardia interessate nonché dei loro diritti in relazione al trattamento dei dati personali. Tale specifica protezione dovrebbe, in particolare, riguardare l’utilizzo dei dati personali dei minori a fini di marketing o di creazione di profili di personalità o di utente e la raccolta di dati personali relativi ai minori all’atto dell’utilizzo di servizi forniti direttamente a un minore.”
Mentre la Direttiva 2005/29/EC indica (all’All. I art. 28) quale pratica commerciale scorretta quella con cui un inserzionista:
“Include in un messaggio pubblicitario un’esortazione diretta ai bambini affinché acquistino o convincano i genitori o altri adulti ad acquistare loro i prodotti reclamizzati.”
La situazione in Italia
In Italia la tutela si declina poi nei codici di condotta/autodisciplina pubblicitaria, che però non coinvolgono direttamente l’advertisement online (sebbene alcuni dei principi possano essere declinati in via di analogia alle specificità di internet) nonché nel divieto di determinati siti web, anche per tutelare i minori di età, spesso destinatari di aggressive campagne pubblicitarie, ad esempio, con riguardo alle sigarette elettroniche.
In particolare, l’Agenzia delle Dogane si occupa di vigilare sulle inibizioni relative a determinate attività online, a tutela anche dei minori, come la vendita di prodotti derivati dal tabacco (inclusi i liquidi da inalazione per sigarette elettroniche) e i siti di scommesse non autorizzati, oscurando numerosi siti ogni anno.
Il quadro normativo e di principio è quindi molto complesso e la questione della “correttezza” dell’advertisement online rivolto ai minori è ancora agli albori.
L’iniziativa BIK+
Nell’ambito dell’iniziativa BIK+ (Better Internet for Kids) lanciata a maggio, l’Unione Europea sta lavorando a varie iniziative per rendere internet un posto sicuro per i minori di età, con l’intento così di far sviluppare ai bambini competenze digitali in un ambiente protetto.
La lodevole iniziativa si scontra però con un mondo online per sua natura frammentato e tentacolare, dove è “facile” disciplinare solamente i grandi player e centri di aggregazione, mentre è estremamente difficile imporre regole ai fornitori/inserzionisti ai margini del sistema.
Inoltre, l’Unione sta spingendo (e in certo modo legittimando) i gestori delle piattaforme online ad acquisire il dato relativo alla fascia di età dell’utente con maggiore certezza, consentendo così in potenza una migliore profilazione dei contenuti rivolti alle varie fasce di età.
Considerando che il legislatore fatica a stare al passo con le sempre nuove tecniche di persuasione pubblicitarie il pericolo è che questa evoluzione finisca per essere un utile strumento più che un ostacolo per i pubblicitari più smaliziati.
In questo senso è essenziale che l’Unione lavori sulle nuove frontiere dell’advertisement, tra cui ad esempio quella relativa ai contenuti in-game molto opportunamente citata nei principi diffusi dall’Europa.
Un videogame free scaricato su uno smartphone costituisce un ecosistema a sé dove alla pubblicità tradizionale (ad esempio la possibilità per l’utente di guardare per 30 secondi una pubblicità per guadagnare crediti da spendere nello shop in-app) si somma una più subdola attività di “marketing” di contenuti in-game da comprare (ad esempio un boss di fine livello molto più facile da sconfiggere se per qualche euro si acquista una spada particolarmente efficace contro di lui).
Conclusioni
Questi fenomeni, pur banditi secondo i principi appena annunciati dall’Unione, sono molto difficili da intercettare, e questa difficoltà è ben espressa dalla particolare formulazione usata nel documento diffuso dall’UE il 9 giugno scorso, ovvero: “I giochi commercializzati gratuitamente non dovrebbero richiedere acquisti in-app o in-game per un’esperienza d’uso soddisfacente.”
Il principio è sacrosanto, così come è corretto non censurare i marketplace interni ai videogiochi di per sé, ma questo bilanciamento è sicuramente complesso nella pratica: definire quando un marketplace è essenziale per un’esperienza d’uso “soddisfacente” su un videogioco è infatti un attività davvero ardua da documentare e c’è da pensare che l’advertisement online rivolto ai minori si sposterà sempre più spesso verso queste “zone grigie” di difficile normazione e di ancor più complessa applicazione delle discipline.