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Revenge porn, un reato in forte ascesa: la legge, i dati

La legge in materia di tutela delle vittime di violenza domestica introduce il reato di “Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti” (revenge porn). Restano dubbi interpretativi, mentre il fenomeno continua a crescere

Pubblicato il 25 Nov 2020

Marco Cartisano

Studio Polimeni.legal

Foto Roberto Monaldo / LaPresse

Il disegno di legge sul cosiddetto “revenge porn”, approvato in via definitiva il 17 luglio 2019 (qui il testo), introduce due fattispecie di reato diverse: la diffusione di  immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate da parte di chi queste immagini le ha realizzate e da parte di chi le riceve e contribuisce alla loro ulteriore diffusione al fine di creare nocumento alle persone rappresentate.

Analizziamo brevemente il testo mettendo in luce anche alcune problematiche interpretative.

Cos’è il revenge porn

Il revenge porn, definito anche come «pornografia non consensuale» ed anche abuso sessuale tramite immagini, è l’atto di condivisione di immagini o video intimi di una persona senza il suo consenso, attuato sia on-line che off-line.

Recentemente l’Accademia della Crusca ha suggerito la parola «pornovendetta» per limitare l’uso di termini stranieri, considerando che nel relativo disegno di legge si parla di «diffusione illecita non consensuale»; oltretutto, sempre secondo l’Accademia, il termine verrebbe già usato da molti giornali e da operatori web.

Tralasciando le questioni linguistiche, va precisato che il fenomeno è stato individuato e studiato per la prima volta negli Stati Uniti dove, attualmente, 45 Stati (oltre DC) hanno una legislazione in merito ed altri sono in procinto di legiferare.

Per quanto riguarda le modalità di esecuzione, il contenuto pornografico viene di solito linkato sulle pagine social della vittima, oppure caricato su siti web tematici o create delle pagine apposite, spesso incoraggiando chi visualizza a condividere, scaricare e commentare.

Succede anche che il contenuto sia inviato a familiari, amici e colleghi della persona offesa al fine di accrescerne il discredito sociale e può generare ulteriori condotte illecite quali ingiurie, minacce, stalking ed estorsione sino all’omicidio, come ben noti e tristi casi di cronaca riferiscono.

Il punto di partenza del «revenge porn» è il materiale pornografico che rappresenta la vittima in situazioni private e/o intime sia da sola che con il partner che, a sua volta, può essere sia stabile che occasionale, sia incontrato di persona che on line.

Da un punto di vista criminologico ci troviamo di fronte ad una forma avanzata di cyberbullisimo e il materiale pornografico può essere carpito in diversi modi:

  • Mediante il cosiddetto «sexting» ovvero l’auto ripresa di immagini o video in pose intime da parte della vittima e successivamente inviate a terzi, anche mediante web cam;
  • Mediante la ripresa delle immagini intime durante un rapporto sessuale con il consenso della vittima;
  • Mediante la ripresa della vittima durante momenti intimi (rapporto sessuale, bagni pubblici, spogliatoi ecc..) con telecamere nascoste (spy cam);
  • Attraverso l’hacking dello spazio cloud della vittima (icloud, gmail, microsoft space, ecc..) ovvero del dispositivo (smartphone, laptop, smartpad) anche con la consegna spontanea del dispositivo (es. invio di un pc o di un telefono in assistenza).

Pene previste per il revenge porn

La pena prevista è la reclusione da uno a sei anni e la multa da 5 a 15mila euro.

Il testo Revenge Porn approvato

Il disegno di legge relativo alle «Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere» (Codice Rosso) inizialmente presentato dal Governo e approvato definitivamente il 17 luglio, nel corso dell’iter parlamentare ha subito numerosi emendamenti.

Innanzitutto si definisce “revenge porn”, ovvero “pornografia non consensuale” ed anche “abuso sessuale tramite immagini”, l’atto di condivisione di immagini o video intimi di una persona senza il suo consenso, attuato sia online che offline.

L’inserimento dell’art. 612 ter c.p. rubricato «Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti» inizialmente non era previsto nell’articolato iniziale ma è stato inserito durante la discussione in Assemblea del 2 aprile 2019, nonostante fosse stato già presentato analogo e più organico disegno di legge in Senato.

Tralasciando, per il momento, l’aspetto parlamentare, si riporta il testo del nuovo art. 612 ter c.p. appena licenziato che così recita:

«Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate, è punito con la reclusione da uno a sei anni e la multa da euro 5.000 a euro 15.000.

  La stessa pena si applica a chi, avendo ricevuto o comunque acquisito le immagini o i video di cui al primo comma, li invia, consegna, cede, pubblica o diffonde senza il consenso delle persone rappresentate al fine di recare loro nocumento.

  La pena è aumentata se i fatti sono commessi dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se i fatti sono commessi attraverso strumenti informatici o telematici.

  La pena è aumentata da un terzo alla metà se i fatti sono commessi in danno di persona in condizione di inferiorità fisica o psichica o in danno di una donna in stato di gravidanza.

Il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. La remissione della querela può essere soltanto processuale. Si procede tuttavia d’ufficio nei casi di cui al quarto comma, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio».

Due fattispecie di reato

In realtà la norma introduce, al primo e la secondo comma, due fattispecie di reato diverse, ed è, pertanto, opportuno, procedere con ordine.

La clausola iniziale, «Salvo che il fatto costituisca più grave reato» è inserita per evitare il concorso apparente di norme, nonché l’assorbimento di un reato nell’altro in aderenza ai principi di sussidiarietà o di consunzione, anche se su questo aspetto ci si soffermerà in seguito.

Dal punto di vista soggettivo, si tratta di un reato comune e il dolo è generico.

Invece, dal punto di vista materiale, gli elementi costitutivi del reato richiedono una progressione fattuale ben circoscritta.

La condotta tipica è composta, in primo luogo, da un antefatto anche non punibile (salvi i casi di interferenza illecita nella vita privata di cui all’art. 615 bis c.p., tanto per fare un esempio), ossia la realizzazione o la sottrazione di immagini o video dal contenuto «sessualmente esplicito» e la successiva «pubblicazione» o «diffusione» dello stesso; il fatto, per essere rilevante, deve avere per oggetto materiale che doveva «rimanere privato» e diffuso «senza il consenso delle persone rappresentate».

Va detto che l’accertamento giudiziale della privatezza delle immagini non può non prescindere da una regola di esperienza comune secondo cui “tutto ciò che si avviene privatamente deve rimanere privato” salvo consenso dato nelle forme adeguate ai fatti ed ai protagonisti della vicenda.

Il conseguente invio (per posta ordinaria, email, sistemi di messaggistica ecc..), consegna materiale, cessione, pubblicazione (su social, siti, blog ecc..) o diffusione (cioè comunicazione ad un numero indeterminato di persone) fa scattare la punibilità.

Il fatto viene punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da € 5.000 a € 15.000.

Il nodo del consenso

Prima di passare alla seconda fattispecie, occorre evidenziare che l’aspetto più problematico che riguarda il consenso: ma esso come deve essere dato, a patto che la persona ritratta voglia astrattamente darlo?

Ciò appare dirimente soprattutto quando l’imputato assuma di essere stato autorizzato all’invio del materiale (magari ad una cerchia di persone) dal partner che, vedendo poi diffuso in rete il video, sporga querela.

Il consenso, difatti, può essere esplicito, implicito, tacito (accettazione passiva alla ripresa ed alla successiva comunicazione), dato oralmente o per iscritto.

Inoltre vanno elencati eventuali vizi del consenso in relaziona alla:

Capacità (minore età, interdizione o inabilitazione, causa temporanea per malattia, infortunio, abuso di sostanze alcoliche o stupefacenti);

Libertà (errore, violenza, dolo – art. 1427 c.c.);

Consapevolezza (scopo della raccolta del dato, rectius ripresa, limiti alla sua comunicazione o diffusione).

Inoltre, ipotizzando che il consenso della persona offesa sia stato dato, è possibile per la stessa revocarlo dopo la diffusione, anche massiva del materiale di sua pertinenza?

O meglio, una volta che il consenso è stato revocato, sarebbe possibile per la persona offesa decidere se un fatto possa costituire reato, magari eludendo i termini per la querela, oppure ciò rileverebbe solo ai fini civilistici?

Ed appare evidente che, se si sposta l’attenzione dalla persona offesa verso l’imputato, lo stesso avrà un onere abbastanza gravoso nel dover dimostrare di essere stato autorizzato alla comunicazione, diffusione, ecc , ovvero ad una sola di queste facoltà, operando, come sembra, una presunzione juris tantum in favore della vittima: d’ora in poi la regola è che tutto ciò che è fatto nell’intimità, ancorché consapevolmente, deve rimanere riservato, salvo prova contraria.

Oltretutto la norma punisce anche chi sottrae il materiale de quo (si pensi al furto di un telefono, oppure al caso dei PC portati in assistenza e trafugati da tecnici poco seri, ovvero in caso di accesso abusivo ai propri dati).

In ogni caso solo l’applicazione concreta della norma potrà sciogliere tali dubbi interpretativi, sulla scorta, soprattutto, di una prognosi postuma che il giudice deve fare all’atto della valutazione di indici esteriori quali la condotta dell’imputato prima e dopo il fatto, la tempistica fra produzione e comunicazione e diffusione, la presenza di correi, ecc..

Il dolo di chi riceve le immagini e contribuisce all’ulteriore diffusione

Il secondo comma punisce, invece, chi riceve o acquisisce il materiale intimo e pone in essere le condotte del primo comma senza il consenso delle persone riprese, ma con un quid pluris, ovvero al fine di «recare loro nocumento».

Il dolo, difatti, è specifico in quanto l’agente deve essere consapevole, oltre di stare ponendo in essere la condotta tipica, di rappresentare l’ulteriore scopo di arrecare un danno (all’immagine, alla salute, al patrimonio ecc.) al di là della realizzazione dello stesso.

Il legislatore, probabilmente, ha voluto mediare fra l’esigenza di fermare in tempo utile la diffusione delle immagini, e quella di escludere le condotte di chi lo fa dimostrando di non aver voluto arrecare offesa.

Anche qui, dal punto di vista processuale, siamo di fronte ad una probatio diabolica in quanto l’agente dovrà dimostrare di avere concorso nella diffusione senza voler danneggiare nessuno: la clausola sembra, tuttavia, apposta dal legislatore al fine di consentire una possibile difesa (soprattutto in quei casi bordeline) anche se, anche in questo caso, sarà necessario l’intervento nomofilattico della S.C. per definire i limiti della punibilità.

Sembrerebbe, inoltre, che il consenso richiesto sia ulteriore e diverso rispetto a quello dato per le riprese o per una comunicazione “limitata” delle immagini, pertanto emergono, anche in questa sede, le medesime problematiche interpretative sopra esposte.

Inoltre, l’equiparazione del regime sanzionatorio appare contraria al principio di proporzionalità fra i due fatti (cioè chi produce e diffonde e tutti gli altri); oltretutto una riduzione del minimo e nel massimo edittale potrebbe indurre gli indagati di cui al secondo comma a collaborare con la Polizia giudiziaria al fine di individuare il produttore, il cosiddetto “paziente zero”, che ha dato via alla diffusione.

Le circostanze aggravanti nel Revenge Porn

Per quanto riguarda le circostanze aggravanti, il terzo comma prevede un’aggravante se i fatti sono stati commessi da persone che hanno o hanno avuto legami affettivi con la vittima e se sono commessi mediante strumenti informatici o telematici (ossia nella quasi totalità dei casi).

Si prevede poi una circostanza ad effetto speciale (da un terzo sino alla metà) qualora la vittima versi in stato di inferiorità psichica o fisica ovvero sia una donna in stato di gravidanza.

Le predette circostanze aggravanti sono coerenti con il maggior disvalore penalistico in ragione della qualità della persona offesa e con penetrante incisività del mezzo utilizzato.

L’ultimo comma disciplina la condizione di procedibilità che, in coerenza anche sistematica con il precedente art. 612 bis (stalking n.d.r.), è la querela ma entro mesi sei dalla conoscenza del fatto.

Oltretutto la remissione può essere solo processuale (nelle forme dell’art. 340 c.p.p.), anche per evitare che la vittima sia condizionata o costretta alla remissione.

Si procede d’ufficio in caso di fatti previsto al quarto comma (aggravanti speciali) e qualora vi sia connessione con un reato più grave (il caso Tiziana Cantone docet) il che permette agli inquirenti di indagare anche nel caso in cui la vittima non possa più sporgere querela.

Completano il quadro le norme che limitano l’applicazione degli arresti domiciliari anche per i reati in esame (modifica dell’art. 275 co. 2 bis c.p.p.) e che prevedono specifici obblighi di comunicazione al giudice civile (art. 64 bis disp. att. c.p.p.).

Questa breve analisi va completata con il richiamo al possibile concorso di norme, tenendo conto che, se la formulazione dovesse rimanere tale, si dovrebbe escludere il concorso sia con la diffamazione aggravata che (a questo punto sarebbe residuale) che il trattamento illecito dei dati personali previsto dal Codice della Privacy.

Invece prevarrebbe, in caso di produzione di materiali che coinvolgano minorenni, l’applicazione dell’art. 600 ter comma 1 (produzione) e 2 (commercializzazione), mentre, curiosamente, le altre condotte di diffusione (comma 3) e cessione (comma 4) non si configurerebbero in quanto punite, rispettivamente con una pena da uno a cinque anni e fino a tre anni, salvo aggravanti.

Va detto, tuttavia, che al Senato è in discussione in Commissione Giustizia un d.d.l. sullo stesso tema molto più organico, poiché, oltre al reato de quo (diversamente formulato[1]) sono previsti specifici obblighi in capo ai titolari del trattamento e ai gestori di siti internet, nonché attività di sensibilizzazione scolastica finalizzate alla prevenzione delle condotte di revenge porn.

Detto ciò si auspica che il Parlamento proceda ad una razionalizzazione della materia e ad una migliore formulazione dell’articolato, al fine di eliminare talune incertezze interpretative e dare maggiore efficacia alle misure inibitorie stragiudiziali.

Possibili forme di tutela

In attesa che il Parlamento faccia la sua parte, è auspicabile una tutela preventiva con la limitazione del consenso ad essere ripresi con l’ausilio di campagne sociali e scolastiche sull’uso responsabile della rete.

Inoltre è possibile fare segnalazioni e diffide ai social network o proporre un reclamo al Garante Privacy per limitare la diffusione del materiale e chiedere l’adozione di idonei provvedimenti.

Si può ricorrere al Giudice per tutelare la propria immagine e la propria riservatezza, sia in via inibitoria che risarcitoria ma, in ogni caso, è importantissimo il tempestivo intervento delle Forze di Polizia specializzate che hanno gli strumenti tecnici e giuridici per limitare la diffusione del materiale e per individuare i responsabili delle condotte denunciate.

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Fonti:

  1. Art. 1 D.D.L. 1076 Senato della Repubblica.Dopo l’articolo 612-bis del codice penale è inserito il seguente:«Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni, chiunque pubblica attraverso strumenti informatici o telematici, immagini o video privati sessualmente espliciti, senza l’espresso consenso delle persone ivi rappresentate, al fine di provocare nelle persone offese gravi stati di ansia, di timore e di isolamento.Fuori dai casi di cui al primo comma, chiunque diffonde immagini o video privati sessualmente espliciti è punito con la multa da euro 75 a euro 250.Se il fatto previsto dal primo comma è commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, ovvero dall’altra parte dell’unione civile, oppure da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa, si applica la pena della reclusione da uno a quattro anni.Se in conseguenza del fatto di cui ai commi primo e terzo deriva comunque la morte della persona offesa, quale conseguenza non voluta dal reo, si applica la pena della reclusione da cinque a dieci anni.Quando ricorre la circostanza aggravante di cui al quarto comma le concorrenti circostanze attenuanti, diverse da quelle previste dagli articoli 98 e 114, non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a questa e le diminuzioni si operano sulla quantità di pena determinata ai sensi della predetta circostanza aggravante.I delitti di cui ai commi primo e secondo sono punibili a querela della persona offesa.Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. La querela proposta è irrevocabile.Si procede tuttavia d’ufficio nelle ipotesi di cui al terzo e quarto comma.».2. Ai fini di cui al presente articolo, per immagini o video privati sessualmente espliciti si intende ogni rappresentazione, con qualunque mezzo, di soggetti consenzienti coinvolti in attività sessuali esplicite.

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