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Scorza: “Ma Durov non è eroe di libertà e diritti: facciamo chiarezza”



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Tanta confusione nel dibattito sull’arresto di Pavel Durov in Francia, fondatore di Telegram. Vediamo come stanno realmente le cose. E la libertà di comunicazione e la privacy non sono rivali della lotta al crimine: se si mettono da parte inutili estremismi è sempre possibile identificare soluzioni di compromesso

Pubblicato il 30 ago 2024

Guido Scorza

Autorità Garante Privacy



durov

Senza nessuna sorpresa la vicenda dell’arresto e, ora, dell’incriminazione di Pavel Durov, fondatore e CEO di Telegram ha acceso un dibattito al quale nessuno sembra capace di sottrarsi e che suggerisce si tratti di una vicenda nella quale in gioco c’è il futuro dell’Internet che conosciamo ma soprattutto quello di diritti e libertà fondamentali a cominciare dalla libertà di comunicazione e dalla privacy.

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È un dibattito che soffre da una parte di strumentalizzazione politica, dall’altra di irresistibile amore per il sensazionalismo e dall’altra ancora della circostanza che si pretende di esprimere opinioni senza leggere e senza capire i fatti o, meglio, in questo caso, le norme alla base dell’arresto e dell’incriminazione.

Vale, quindi, la pena provare a mettere in fila questi elementi con l’avvertenza che non si sa ancora abbastanza della vicenda.

I punti chiave del caso Durov

Il punto di partenza, non avendo ovviamente accesso al fascicolo del procedimento, è il comunicato stampa di ieri del Procuratore della Repubblica parigino, responsabile dell’esercizio dell’azione penale nei confronti di Durov.

Il suo contenuto spiega le ragioni dell’incriminazione anche se senza entrare nel dettaglio degli episodi specifici e, soprattutto del ruolo che Durov avrebbe avuto nella commissione degli illeciti che gli sono contestati.

A quanto si legge nel comunicato, la giustizia francese, contesta al fondatore di Telegram il coinvolgimento in un lungo elenco di reati.

Eccoli.

  • Favoreggiamento nella gestione di una piattaforma online per consentire una transazione illegale, nell’ambito di un’organizzazione criminale (reato punibile con una pena detentiva massima di 10 anni e una multa di 500.000 euro);
  • Rifiuto di fornire, su richiesta delle autorità autorizzate, le informazioni o i documenti necessari per l’esecuzione di intercettazioni autorizzate dalla legge;
  • Complicità nei reati di messa a disposizione, senza un motivo legittimo, di un programma o di dati destinati a compromettere un sistema di elaborazione automatizzata di dati, di diffusione, nell’ambito di un’organizzazione criminale, di immagini a carattere pedopornografico, di traffico di stupefacenti, di frode, di associazione a delinquere finalizzata alla commissione di reati o illeciti;
  • Riciclaggio proveniente da reati di criminalità organizzata;
  • Fornitura di servizi di crittografia per garantire la riservatezza senza dichiarazione di conformità;
  • Fornitura e importazione di uno strumento crittografico che non svolge esclusivamente funzioni di autenticazione o di controllo dell’integrità senza dichiarazione preventiva.

Sono tutti reati gravissimi e, inutile precisarlo, tutti reati specificamente previsti nel diritto penale francese con buona pace di quanti continuano a pretendere di suggerire che l’arresto di Durov abbia a che vedere con il Digital Service Act e/o con la politica europea sul digitale.

Il diritto penale è estraneo ai trattati UE

Il diritto penale, infatti, come è noto, è estraneo ai Trattati UE e resta competenza esclusiva dei singoli Paesi membri.

La magistratura francese sta, dunque, semplicemente esercitando la propria giurisdizione e le Istituzioni europee non hanno assolutamente niente a che vedere con il caso.

L’Europa, quindi, non marcia contro Telegram a differenza di quanto qualcuno ha scritto.

E non è, per la verità, neppure facile ipotizzare che l’epilogo della vicenda, quale che sarà, possa propagarsi al di fuori dei confini francesi e produrre qualsivoglia conseguenza sul funzionamento dei servizi digitali nel resto d’Europa.

Tanto chiarito si può muovere dal generale verso il particolare.

Le due questioni più importanti

Ci sono due questioni più importanti delle altre rispetto a quanto si è sin qui letto in giro.

La responsabilità di chi conosceva i reati in corso

La prima concerne la lettura dell’azione della magistratura francese come un attentato alla libertà di comunicazione.

Se si chiama il CEO di una piattaforma a rispondere dei contenuti transitati attraverso la piattaforma e/o delle condotte poste in essere attraverso la stessa, nella sostanza, gli si imputa una responsabilità oggettiva per tali contenuti e, per questa via, si spinge la piattaforma o a chiudere i battenti in Europa o a iniziare a esercitare una severissima attività di carattere censoreo, hanno detto e scritto in tanti.

È vero ma, per il poco che se ne sa, la vicenda non suggerisce uno scenario di questo genere che, peraltro, sarebbe difficilmente compatibile con i principi fondamentali del diritto penale anche in Francia.

Al riguardo, forse, i molti che si sono frettolosamente lanciati in commenti di matrice giuridica e politica sul caso avrebbero dovuto leggere prima il nuovo testo dell’articolo 323-3-2 del codice penale francese.

Vale la pena trascriverne qui di seguito la traduzione.

“I. Il fatto, commesso da una persona la cui attività consiste nella fornitura di un servizio di piattaforma online di cui all’articolo 6(I)(4) della Legge n. 2004-575 del 21 giugno 2004 sulla fiducia nell’economia digitale che consente l’accesso al servizio a persone utilizzando tecniche di anonimizzazione della connessione o che non rispetta gli obblighi di cui al comma V dello stesso articolo 6, di permettere consapevolmente la cessione di prodotti, di contenuti o di servizi la cui cessione, offerta, acquisto o detenzione sono manifestamente illeciti è punito con cinque anni di detenzione e 150 mila euro di ammenda.

[omissis]

III. – I reati di cui ai punti I e II sono punibili con dieci anni di reclusione e una multa di 500.000 euro se commessi da una banda organizzata.

IV. – Il tentativo di commettere i reati di cui ai punti I, II e III è soggetto alle stesse pene.”.

È questa norma, entrata in vigore in Francia lo scorso 17 febbraio 2024 e già applicata altre volte, a rappresentare il presupposto della contestazione che ha fatto dire a tanti che il caso rappresenta un attentato alla libertà di informazione.

In tutta sincerità non mi pare quello che suggerisce la sua lettura che non sottende – e, d’altra parte non potrebbe – alcuna responsabilità oggettiva ma si limita a prevedere che chi, gestendo una piattaforma come Telegram idonea, tra l’altro, a consentire comunicazioni anonime [ndr meglio sarebbe dire con ambizione di anonimato], consapevolmente ne consente l’uso per lo svolgimento di attività manifestamente illecite o non adempie agli obblighi – ivi incluso quello di fornire le informazioni utili all’identificazione dei responsabili di tali condotte – commette un reato.

Per condannare Durov sulla base di questa norma, quindi, i magistrati francesi dovranno dimostrare che pur essendo a conoscenza del carattere manifestamente illecito di talune specifiche attività (una di quelle previste dalla medesima disposizione) poste in essere attraverso i propri servizi, Durov non ha fatto nulla per impedirne la prosecuzione e/o non ha fornito alle Autorità che gliele avessero richieste, informazioni utili all’identificazione dei responsabili in suo possesso.

Non sarà facile riuscire nell’intento e, in particolare, passare dall’eventuale responsabilità di Telegram a quella del suo fondatore ma non è neppure impossibile.

Se la magistratura francese riuscisse nell’intento attenterebbe alla libertà di comunicazione elettronica e creerebbe quell’insostenibile precedente del quale tanti scrivono e parlano via social?

La mia personale risposta è negativa almeno a una condizione: che i Giudici interpretino in maniera corretta e rigorosa la nozione di consapevolezza della manifesta illiceità di una condotta.

In altre parole, i Giudici, dovrebbero dimostrare che Durov, informato personalmente dalle competenti Autorità che una delle condotte di cui al citato art. 323-3-2 era in atto attraverso Telegram non ha fatto quanto in suo potere per impedirle o non ha collaborato con le Autorità all’identificazione dei responsabili sulla base di informazioni in suo possesso.

In questo caso, a mio avviso, sbaglieremmo a parlare di attentato alle libertà e saremmo semplicemente davanti a un’iniziativa di contrasto alla criminalità e a chi, per le ragioni più diverse, consapevolmente l’ha supportata.

La conoscenza del carattere manifestamente illecito di un contenuto intermediato, non da oggi, fa sgretolare, in tutta Europa, il principio generale di irresponsabilità dei gestori di piattaforme di intermediazione di contenuti.

In questi termini, la vicenda che abbiamo davanti, sarebbe decisamente meno rivoluzionaria o reazionaria di quanto si è letto e sentito sin qui.

La crittografia

La seconda questione sulla quale pure si è scritto moltissimo è che la magistratura francese rimprovererebbe a Durov di aver fornito e importato in Francia soluzioni crittografiche con la conseguenza che, di fatto, l’iniziativa sarebbe destinata a segnare la fine della crittografia in tutta Europa (qui vale la pena ricordare ancora una volta che non è dato identificare nessun motivo per ritenere che quello che accade in Francia debba necessariamente produrre un effetto domino europeo trattandosi, appunto, di un caso interamente basato sul diritto francese).

In effetti a leggere le contestazioni del Procuratore della Repubblica di Parigi a Durov non sembra potersi condividere questa conclusione.

La procura non contesta a Durov di aver violato un qualche divieto – che, peraltro, non esiste – di importazione della crittografia ma, più semplicemente, di aver fornito e importato in Francia servizi crittografici senza procedere alla dichiarazione preliminare di tale attività richiesta dalla disciplina francese e servizi non omologati, ancora una volta, in violazione della vigente disciplina nazionale.

Ora, naturalmente, si può discutere di se e quanto una disciplina nazionale di questo tipo comprima, limiti o restringa il mercato dei servizi e delle soluzioni crittografiche ma non si può dire che lo vieti con la conseguenza che non si può sostenere che l’azione della magistratura francese nei confronti di Durov sia un’azione contro la crittografia e, quindi, contro la confidenzialità delle comunicazioni elettroniche perché, almeno sin qui, non ci sono elementi a supporto di una simile tesi.

Questi i fatti.

A ciascuno, naturalmente, muovendo da qui – e, o correggendo e integrando eventuali possibili errori specie in ragione dell’assenza, da parte di chi scrive, di speciali competenze in diritto francese – esprimere ogni genere di opinione.

Evitiamo di fare Durov un eroe dei diritti

Ma, per carità, evitiamo di fare di Durov un romantico eroe dei diritti e delle libertà perché non ci sono, almeno per il momento, elementi che supportino questa conclusione e se poi emergesse essersi comportato da criminale, correremmo il rischio di dare a pensare che la difesa di certi diritti e libertà, senza i quali la democrazia sarebbe oggettivamente in pericolo, coincide con la difesa della criminalità e dell’illegalità.

Naturalmente non è così ed è per questo che prima di imbarcarci in qualsiasi battaglia dobbiamo esser certi di combatterla in nome delle libertà e non in quello della criminalità.

La libertà di comunicazione e la privacy – come tanti altri diritti fondamentali – non sono rivali della lotta al crimine e se si mettono da parte inutili estremismi è sempre possibile identificare soluzioni di compromesso che garantiscano la seconda senza travolgere, oltre la soglia di sostenibilità democratica, le prime.

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