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Scorza: “Privacy, dalle big tech è amore interessato: che devono fare le authority”

Il diritto alla privacy, un diritto fondamentale delle persone, si sta progressivamente trasformando in un potentissimo strumento di confronto-scontro competitivo sui mercati che valgono di più. Le Autorità di regolamentazione dovrebbero intervenire o lasciar fare al mercato? La riflessione che serve

Pubblicato il 21 Feb 2022

Guido Scorza

Autorità Garante Privacy

privacy protezione dati

Prima d’ora non era mai successo – almeno non con questa intensità e a questo ritmo – che il diritto alla privacy degli utenti venisse così tanto promosso da alcuni giganti dell’ecosistema digitale.

Anzi, forse, per dirla tutta, sino a ieri ciò che accadeva più di frequente era che le autorità di protezione dei dati personali e una manciata di associazioni non governative della società civile promuovevano l’esigenza di difendere la privacy dei cittadini e degli utenti da alcuni giganti dell’ecosistema digitale rei di essere ghiotti, avidi e voraci “aspirapolveri” di dati personali.

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Privacy e big tech, all’improvviso tutto è cambiato?

Poi, quasi all’improvviso, è cambiato tutto o, meglio, sembra essere cambiato tutto.

Nell’ultimo anno le nostre strade si sono riempite di cartelloni pubblicitari nei quali la scritta “Privacy is King” campeggia a caratteri cubitali accanto alla foto di un iPhone e altrettanto accade nelle pubblicità televisive dei dispositivi di casa Apple.

La rivoluzione privacy Apple

Ma, soprattutto, Apple ha lanciato una serie di iniziative che rappresentano, forse, il sogno proibito di chiunque lavori nel settore della protezione dei dati personali e abbia per missione quella di consegnare a cittadini, utenti e consumatori sempre più trasparenza e controllo sui propri dati personali.

Basti pensare al sistema delle “Privacy nutrition labels”, le cosiddette etichette nutrizionali che Apple ha imposto a tutti gli sviluppatori di app di utilizzare per informare gli utenti, in maniera semplice e intuitiva, delle caratteristiche dei trattamenti di dati personali sottesi all’uso delle app o alla già celeberrima pop up che, da qualche mese, ci viene incontro ogni volta che installiamo o aggiorniamo un’app con la quale, semplice complice una prescrizione in tal senso di Apple, tutti gli sviluppatori ci chiedono se intendiamo o meno lasciarci tracciare – e, quindi, profilare – nell’utilizzo dell’app.

Si potrebbe concludere che Apple stia facendo il lavoro dei decisori pubblici, delle Autorità di protezione dei dati personali e delle associazioni della società civile che si occupano di privacy meglio di quanto non l’abbiano mai fatto tutti questi soggetti messi insieme o, almeno, che stia raggiungendo risultati più effettivi e concreti.

Perché, a voler dire tutta la verità, tutti questi soggetti insieme avrebbero fatto una gran fatica a ottenere, nello spazio di qualche mese, una così massiccia campagna di promozione della privacy, l’adozione di così elevati livelli di trasparenza e la consegna agli utenti di così efficaci strumenti standard di controllo dei loro dati personali.

Google e la guerra ai cookies

E non è da meno quello che sta facendo Google che ha dapprima annunciato la progressiva limitazione dell’utilizzabilità dei cookies – uno dei principali strumenti di identificazione degli utenti dei servizi digitali propedeutico alla profilazione di massa – su Chrome e, quindi, nei giorni scorsi, un’analoga iniziativa nell’ecosistema Android.

Anche in questo caso, proprio come sta già accadendo nell’universo Apple, la circostanza che le regole siano dettate e applicate da chi ha il controllo assoluto di servizi e piattaforme utilizzate ogni giorni da miliardi di persone e milioni di fornitori di servizi e investitori pubblicitari è garanzia di effettività di regole che produrranno come sicuro effetto quello di limitare la circolazione dei dati personali e il loro uso per finalità di profilazione almeno commerciale ma, forse, anche politica, sociale e culturale.

In questa prospettiva si tratta di buone notizie, da salutare con soddisfazione.

Privacy, mancano ancora educazione e cultura

E, però, se si vuole guardare allo scenario che abbiamo davanti in una prospettiva più ampia bisogna farsi qualche domanda.

La prima è la più importante di tutte.

Apple e Google – ma non sono le sole – hanno abbracciato la causa della privacy perché pensano che gli utenti e i consumatori abbiano improvvisamente sviluppato una tale sensibilità verso questo tema da scegliere di usare un prodotto o un servizio a seconda del grado di protezione dei loro dati personali che viene offerto loro?

Sarebbe bello rispondere affermativamente.

L’obiettivo – forse il più concreto di tutti per chi si occupa di protezione dei dati personali – non può che essere quello di arrivare un giorno a un diffuso livello di cultura e educazione al diritto alla privacy che quest’ultimo possa essere considerato uno dei fattori fondamentali in ogni scelta di consumo: più o meno come inizia ad accadere con l’impatto ambientale e le emissioni di anidride carbonica all’atto di acquisto di un’automobile.

Quel giorno il mercato non avrà altra scelta che soddisfare una richiesta massiccia, universale e dal basso di maggiore rispetto della privacy.

E forse l’attività, innanzitutto delle Autorità di protezione dei dati personali, sarà un po’ meno necessaria perché i grandi titolari del trattamento rispetteranno le regole innanzitutto per conquistarsi e non perdere la fiducia dei consumatori.

Ma quel giorno, verosimilmente, è ancora lontano.

Utenti e consumatori sono, nella più parte dei casi, ancora lontani da questo livello di educazione e cultura della privacy.

I nostri dati personali abbandonati alla deriva

Lo conferma, in maniera plastica, la superficialità e la facilità con la quale, con poche eccezioni, abbandoniamo alla deriva i nostri dati personali, addirittura quelli biometrici ovvero quelli più preziosi di tutti, in cambio del semplice diritto a farci due risate online guardandoci invecchiati in una foto elaborata da un algoritmo di “stupidità artificiale” gestito da una non meglio precisata società che opera da qualche parte nel mondo o “trasformati” in donne o uomini, a seconda il punto di partenza, da qualche altra analoga applicazione.

E allora?

Se scrivendo privacy a caratteri da un metro su un cartellone pubblicitario e con altre analoghe iniziative i giganti del web che ci conoscono meglio di chiunque altro non possono seriamente sperare di accattivarsi la nostra simpatia, la nostra fiducia e le nostre scelte di consumo, perché lo fanno?

La risposta è di disarmante semplicità.

La privacy come strumento di concorrenza

Lo fanno per farsi concorrenza tra di loro e, soprattutto, per divenire, giorno dopo giorno, sempre più forti, centrali e determinanti come gatekeeper dei dati e delle informazioni sui miliardi di cittadini del mondo, dati e informazioni che sono il combustibile essenziale al funzionamento dell’intero ecosistema digitale presente e futuro e il presupposto irrinunciabile per orientare le scelte di consumo, quelle culturali e quelle politiche della popolazione mondiale.

Più si restringe il novero dei soggetti capace di accumulare e trattare questi dati e queste informazioni, più chi resta capace, per ragioni diverse, di farlo diventa centrale, potente, imbattibile.

Sta accadendo così – e si tratta di una constatazione oggettiva che, probabilmente, non serve e non è facile connotare in termini positivi o negativi – che il diritto alla privacy, un diritto fondamentale delle persone, si sta progressivamente trasformando in un potentissimo strumento di confronto-scontro competitivo sui mercati che valgono di più.

Gli indici sintomatici ineludibili di questo fenomeno si moltiplicano giorno dopo giorno.

Il Financial Times tanto per citarne uno, nell’ottobre dello scorso anno, ha fatto osservare che Apple, sei mesi dopo l’introduzione degli strumenti e controllo dei quali si è detto sopra, aveva triplicato il proprio fatturato nel mercato dell’advertising online.

E, solo per citarne un altro, negli Stati Uniti, è già accaduto che un investitore pubblicitario abbia trascinato in giudizio Snap, la società che gestisce il famoso social network Snapchat, contestandole che, a seguito delle nuove regole imposte da Apple agli sviluppatori di app, Snapchat inclusa, quest’ultima non era più stata in grado di garantirgli una pubblicità targettizzata e efficace come quella di un tempo con la conseguenza di aver abbattuto il valore del proprio investimento pubblicitario.

Conclusioni

La situazione, dunque, è chiara e sembra, almeno in parte, presente al legislatore europeo che, in qualche modo, specie nel Digital Market Act – ma anche nel Digital Service Act – appare intenzionato ad affrontarla energicamente.

Forse, però, considerata la velocità con la quale questo genere di fenomeni produce un impatto irreversibile su società e mercati, varrebbe la pena promuovere e accelerare una riflessione aperta, partecipata e multidisciplinare, in particolare tra Autorità di regolamentazione, su quello che sta accadendo e sull’opportunità di lasciar fare al mercato o intervenire.

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