All’alba di un mercato unico digitale e a seguito delle Direttive 770/2019,[1] 771/2019[2] e 2161/2019,[3] nuovi “business model” sono stati evidenziati e riconosciuti all’interno della realtà giuridica europea. L’espressa menzione di transazioni commerciali che coinvolgono l’utilizzo di dati personali per aver accesso a “servizi digitali” e “contenuti digitali” (solo apparentemente gratuiti) potrebbe avere effetti giuridici molti più ampi di quelli auspicati. Uno di questi risiederebbe nel plausibile e futuro riconoscimento di una nuova categoria contrattuale alla quale ricondurre i modelli in parola.
“Contratti di dati personali”: ambito e terminologia
Procediamo per gradi: nel quadro legislativo vigente – sia a livello europeo che domestico – non esiste un’autonoma nomenclatura codicistica che comprenda i cosiddetti “contratti di dati personali” (n.b., il concetto qui ideato è utilizzato per tutte le transazioni che coinvolgono, da un lato, il trasferimento di dati personali e, dall’altro, la fornitura di contenuti o servizi digitali). Pertanto, è essenziale delimitare l’ambito di una possibile e nuova categoria contrattuale (qualora sia possibile definirla tale) anche attraverso ulteriori campi di studio.
Secondo un’autorevole fonte scientifica, “delivering data based on service-oriented and cloud computing techniques is becoming popular […] we argue that it is required to define data contracts that can be used separately from service contracts or in combination with service contracts”.[4]
Un tale spunto si configura come un raro accenno a una categorizzazione non ancor teorizzata in alcun atto legislativo dell’UE e degli Stati membri.
Tuttavia, il concetto che ruota attorno ai cosiddetti “contratti di dati personali” coinvolge essenzialmente quelle transazioni commerciali attraverso le quali un soggetto concede i propri dati per accedere a due diverse tipologie di benefit fornite da un operatore economico.
Contratti di dati personali per la fornitura di contenuti digitali
Da un lato, potremmo parlare in termini di scambio tra un individuo che fornisce i propri dati personali per ricevere uno o più contenuti digitali non provvisti su supporto durevole. Nel rispetto della Direttiva 770/2019, i contenuti digitali sono classificati come “dati prodotti e forniti in formato digitale”. Null’altro è chiarito, né sulla natura di tali contenuti né su una possibile analogia tra “contenuti digitali” e “beni”, a fronte della legislazione europea sulla tutela del consumatore.
Cionondimeno, la Direttiva 83/2011 aveva già delimitato la portata della nozione di “contenuto digitale”: “Per contenuto digitale s’intendono i dati prodotti e forniti in formato digitale, quali programmi informatici, applicazioni, giochi, musica, video o testi, indipendentemente dal fatto che l’accesso a tali dati avvenga tramite download, streaming, supporto materiale o tramite qualsiasi altro mezzo”.[5]
Dunque, sarebbero da considerarsi tali tutti i contenuti forniti dalle aziende IT come siti web, app e software utilizzabili dagli utenti dopo aver pagato un prezzo o fornito dati personali. Eppure, è necessario muovere una breve critica, ma ben giustificata, alla configurazione del legislatore europeo: includere in tale elenco i contenuti digitali indipendentemente dal loro accesso (in streaming, offline, etc.) non appare del tutto conforme alla concretezza dell’offerta del mercato digitale. In primo luogo, ricomprendere genericamente nel novero dei “contenuti digitali” le cosiddette “app”, a prescindere dalle loro diverse finalità e nature, cela una realtà composta da una moltitudine di scelte a cui gli utenti hanno accesso.
Tramite un esempio pratico: i marketplace (come ASOS e Amazon) e le piattaforme di streaming (ad esempio Spotify e YouTube) e i social network (quali Facebook, Instagram e Twitter) sono ben lontani nell’imaginario comune da tutte quelle applicazioni che realizzano effettivamente una sorta di transazione di contenuti digitali con i consumatori.
Il considerando 19 della Direttiva 770/2019 inspessisce tale confusione legislativa: “La presente Direttiva dovrebbe affrontare i problemi trasversalmente alle diverse categorie di contenuti digitali e di servizi digitali e alla loro fornitura. Per tener conto dei rapidi sviluppi tecnologici e preservare il carattere evolutivo del concetto di «contenuto digitale» o di «servizio digitale», la presente Direttiva dovrebbe contemplare, tra l’altro, programmi informatici, applicazioni, file video, file audio, file musicali, giochi digitali, libri elettronici o altre pubblicazioni elettroniche, nonché i servizi digitali che consentono la creazione, la trasformazione o l’archiviazione dei dati in formato digitale, nonché l’accesso a questi ultimi, fra cui i software come servizio quali la condivisione audio e video e altri tipi di file hosting, la videoscrittura o i giochi offerti nell’ambiente di cloud computing e nei media sociali. Dal momento che esistono numerosi modi per fornire il contenuto digitale o i servizi digitali, come la trasmissione su un supporto materiale, lo scaricamento effettuato dal consumatore sui propri dispositivi, la trasmissione in streaming, l’autorizzazione all’accesso a capacità di archiviazione di contenuto digitale o l’accesso all’uso dei social media, la presente Direttiva dovrebbe applicarsi indipendentemente dal supporto utilizzato per la trasmissione del contenuto digitale o del servizio digitale o per darvi accesso”.
Le differenze, dunque, tra “contenuti” e “servizi” digitali non sono state chiaramente indicate. Ma procediamo con un esempio: utilizzando Spotify tramite un “piano base gratuito” (esercitando quindi un “mero” conferimento di dati personali) l’utente ha la possibilità di accedere a contenuti digitali solo attraverso una connessione Internet. Se ipotizzassimo che, coerentemente con quanto definito dal legislatore europeo, l’applicazione di Spotify debba essere definita come “contenuto” piuttosto che come “servizio”, ci si ritroverebbe di fronte ad un paradosso.
Infatti, assumendo che i “contenuti digitali” siano assimilabili ai “beni” e che i “servizi digitali” vadano trattati come “servizi”, il trasferimento della proprietà di un bene (e quindi di un “contenuto digitale”) non rifletterebbe pienamente la scelta di includere Spotify e YouTube come contenuti digitali. Piuttosto, sarebbe opportuno definire come tali i brani disponibili su queste piattaforme, qualora accessibili anche offline. Viceversa, l’app Kindle offre un perfetto esempio di contenuto digitale – non per l’app in sé – ma per gli e-book consultabili anche offline dopo aver fornito i propri dati personali. Di fatti, gli e-book “gratuiti” sono liberamente consultabili e archiviabili dal consumatore, anche quando non online.
Inoltre, alla luce della Direttiva 83/2011 i “beni” sono generalmente qualificati come “qualsiasi bene mobile materiale ad esclusione dei beni oggetto di vendita forzata o comunque venduti secondo altre modalità dalle autorità giudiziarie; rientrano fra i beni oggetto della presente Direttiva l’acqua, il gas e l’elettricità, quando sono messi in vendita in un volume delimitato o in quantità determinata”.
Tenendo conto che al citato considerando 19 della più recente Direttiva è già stato indicato il collegamento tra contenuti digitali e “acqua, gas ed elettricità”, sarebbe anche teoricamente fattibile mettere in relazione i contenuti digitali con la definizione di “beni” (quando offerti in un volume limitato o in quantità specifica). Verosimilmente questo è il caso dei contenuti scaricabili, di cui la dimensione risulta sempre certa e visibile accedendo alla scheda delle proprietà tecniche.
Tuttavia, la Direttiva 771/2019 afferma che il termine “bene” “dovrebbe essere inteso come comprensivo dei «beni con elementi digitali» e si riferisce pertanto anche a qualsiasi contenuto o servizio digitale incorporato o interconnesso con tali beni, in modo tale che la mancanza di detto contenuto digitale o servizio digitale impedirebbe lo svolgimento delle funzioni di tali beni”.[6]
Anche se in sostanza per il legislatore europeo il termine “bene” è riconducibile solo ad un contenuto digitale ovvero ad un servizio digitale incorporato/interconnesso con i dispositivi digitali, l’analogia potrebbe essere teoricamente estesa a qualsiasi “contenuto digitale” o “servizio digitale” (come menzionato nell’ultima parte del considerando).
Cionondimeno, le due categorie hanno notevoli differenze, come chiarito. L’ambiguità sulla portata definitoria delle Direttive conduce dunque a inevitabili conseguenze non solo sull’ulteriore definizione di “servizi digitali” ma anche sulle semplici differenze intercorrenti tra i “contratti di dati per l’accesso a contenuti digitali” e i “contratti di dati per la fornitura di servizi digitali”.
Contratti di dati personali per la fornitura di servizi digitali
D’altra parte, le piattaforme di streaming e i social network sono invece ricompresi nella definizione di “servizio digitale” nella formulazione dell’articolo 2, paragrafo 1, punto 2, della Direttiva 770/2019: “a) un servizio che consente al consumatore di creare, trasformare, archiviare i dati o di accedervi in formato digitale; b) un servizio che consente la condivisione di dati in formato digitale caricati o creati dal consumatore e da altri utenti di tale servizio o qualsiasi altra interazione con tali dati”.
Da un lato, la lettera (a) della Direttiva prende dunque in considerazione i servizi di cloud computing – ossia software e applicazioni che forniscono risorse informatiche per la creazione, l’elaborazione e l’archiviazione di contenuti (come Apple Cloud, Google Drive e Dropbox). Utilizzando dispositivi digitali, gli utenti di un Cloud possono avere un accesso esponenziale a vaste risorse anche offline. Dall’altro lato, la lettera (b) contrasta indubbiamente con la definizione contenuta nella Direttiva 83/2011 sopra citata: non qualsiasi app sarebbe dunque da considerare come “contenuto digitale”, in quanto servizi come Instagram, Tik Tok e, più in generale, i social network, sono più correttamente ricompresi nella definizione di “servizi digitali” dalla Direttiva 770/2019.
Ciò mostra che la regolamentazione dei contenuti e dei servizi digitali e la definizione di entrambi sono circondati da un alone di mistero, dal quale l’operatore di diritto saprebbe difficilmente divincolarsi. Come accennato all’inizio del paragrafo, distinguere tra un contenuto digitale e un servizio digitale è una missione ardua tenendo conto della grande varietà di applicazioni esistenti sul mercato. Al 17 giugno 2020, è stato stimato che circa 2,96 milioni di app fossero già disponibili sugli store digitali.[7] Decidere se un’app rientri nell’una o nell’altra categoria richiede chiarimenti specifici e (soprattutto) tecnici che non vengono forniti dal legislatore dell’UE in campo informatico.
Parlando di interpretazioni e definizioni delle Direttive 770/2019 e 771/2019 – finalizzate alla tutela dei consumatori –[8] è inoltre fondamentale comprendere in quali casi si possa parlare di “contratti di dati personali”, indagando sulla natura, sui bisogni e sulle individualità dei fruitori di contenuti e servizi digitali.
Mentre il cosiddetto “operatore economico” – ossia chi eroga il servizio/contenuto – è facilmente definibile, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 1, punto 5, della Direttiva 770/2019,[9] la definizione di consumatore (che ha sempre posto più di un problema a livello europeo e nazionale) potrebbe non essere così agevolmente delineabile. A tal proposito, un interrogativo essenziale: nell’ambito di applicazione delle due Direttive, hanno la possibilità di accedere ai rimedi contrattuali tutti gli utenti di un’app oppure è necessario rivestire la specifica qualità di consumatore?
La tutela consumeristica fa propendere per un riconoscimento e una tutela dei soli rapporti B2C, in quanto il legislatore europeo non ha attualmente ricompreso transazioni B2B nell’oggetto della legislazione. Per queste ragioni, e per una più completa tassonomia di tali negozi, merita approfondimento la nozione di “consumatore” alla luce della normativa e giurisprudenza europea più recenti.
La controparte nei “contratti di dati personali”: utenti o consumatori?
Il preambolo è necessario: nel contesto europeo il termine consumatore non ha trovato una definizione univoca, poiché strettamente radicato nel singolo atto normativo cui si riferisce.
Sebbene non si possa trovare alcun accenno alla definizione di consumatore né nel diritto primario né in alcun documento politico adottato dalle istituzioni dell’UE, diverse definizioni possono essere identificate principalmente (ma non esclusivamente) nel diritto derivato.[10] Per quanto riguarda il nostro focus, le Direttive 770/2019 e 771/2019 stabiliscono in modo univoco che il termine “consumatore” indichi “qualsiasi persona fisica che, in relazione ai contratti oggetto della presente Direttiva, agisca per fini che non rientrano nel quadro della sua attività commerciale, industriale, artigianale o professionale”.
In ogni caso, qual è il confine tra un “utente” e un “consumatore”?
Il termine utente non è definito dal legislatore dell’UE, anche se alcuni riferimenti fanno capo al GDPR. Comunemente, nel linguaggio IT, anziché la parola “utente”, le piattaforme utilizzano più frequentemente il termine “MAU” (“Monthly Active Users”), attraverso il quale le aziende possono analizzare il numero medio di individui attivi durante il mese precedente. Gli utenti possono quindi essere considerati come profili unici generalmente riconoscibili attraverso diversi fattori (ad esempio indirizzi e-mail) che accedono al sistema della piattaforma.
L’analisi dovrà quindi muovere dalla valutazione se un utente possa essere sempre riconducibile alla definizione di “consumatore” per l’ambito di applicazione delle Direttive 770 e 771 del 2019. In tal senso, pietra miliare risulta essere la sentenza ECLI:EU:C:2018:37 della Corte di giustizia europea a seguito della causa C-498/16, Maximilian Schrems contro Facebook Ireland Limited.[11]
La sentenza chiarisce la nozione di consumatore e gli aspetti procedurali che possono sorgere in un ambiente esponenzialmente dominato dai social network.[12]
La Corte di giustizia europea ha effettuato una valutazione mutevole nell’analisi dell’evoluzione da utenti di social network a “consumatori digitali”: “Nell’ambito di tale valutazione, conformemente all’esigenza, ricordata al punto 29 della presente sentenza, di interpretare restrittivamente la nozione di «consumatore» ai sensi dell’articolo 15 del regolamento n. 44/2001, occorre, in particolare, relativamente ai servizi di una rete sociale digitale che hanno tendenza ad essere utilizzati durante un lungo periodo, tener conto dell’evoluzione ulteriore dell’uso che viene fatto di tali servizi. Tale interpretazione implica, in particolare, che un ricorrente utilizzatore di tali servizi possa invocare la qualità di consumatore soltanto se l’uso essenzialmente non professionale di tali servizi, per il quale ha originariamente concluso un contratto, non ha acquisito, in seguito, un carattere essenzialmente professionale”.
Un utente, quindi, non è sempre un consumatore: vi sono casi in cui viene superata la linea sottile tra i due concetti, nonostante sia arduo in alcuni contesti definirne le differenze.
Ad esempio, un consumatore che utilizza molto raramente il proprio profilo, sarebbe ancor considerato tale quando comunica informazioni ai clienti sulle proprie attività commerciali? Come fa l’interprete del diritto a comprendere in quali casi la predominanza professionale menzionata dalla Corte abbia luogo?
Inoltre, non tutte le applicazioni sono paragonabili a Facebook; non tutte le app hanno le stesse funzionalità e caratteristiche. Non è sempre possibile poter dunque analizzare il coinvolgimento professionale di un utente su una determinata app. Su Instagram, l’idea di condividere immagini non è pienamente conforme alla visione del caso Schrems: su Facebook, ogni individuo ha la possibilità di aprire una “pagina aziendale”,[13] risultando quindi più semplice capire quando un individuo agisca come mero “utente” piuttosto che come “consumatore”.
Anche Instagram concede la possibilità di trasformare il proprio profilo in uno “business”, ma alcuni utenti sponsorizzano marchi e perseguono finalità commerciali anche tramite account privati.[14] In taluni casi, è arduo comprendere se un professionista IGer[15] stia postando più contenuti legati alla propria vita privata piuttosto che alla propria attività professionale.
La prospettiva della Corte di giustizia, oltre ad essere tautologica, sembra senz’altro obsoleta. Inoltre, le circostanze richiedono una nuova definizione di consumatore (ovvero, più propriamente, di “consumatore digitale”): delineare in maniera offuscata l’ambito di applicazione personale delle norme previste dalle citate Direttive originerà l’esigenza di ulteriori analisi dinanzi ai Tribunali nazionali ed Europei.
Non categorizzazione e terminologia per i “contratti di dati personali” ai sensi del diritto dell’UE
Assumendo, dunque, di poter parlare di “contratti di dati personali” esclusivamente come tipologia di contratti consumeristici, la tassonomia sfocata di tali transazioni alimenta profondi dubbi in merito al regime contrattuale applicabile a livello nazionale. Uno tra tutti rappresenta il punto di rottura nella concezione della normativa europea: il legislatore non ha accennato alla possibilità di delineare due diverse categorie di contratti per 1) i contenuti digitali e servizi digitali forniti in cambio di una controprestazione monetaria e per 2) i contenuti digitali e servizi digitali forniti in cambio di dati personali.
A parte la debole connessione tra le due tipologie effettuata nella Direttiva 770/2019 (“La presente Direttiva dovrebbe pertanto applicarsi ai contratti in cui l’operatore economico fornisce, o si impegna a fornire, contenuto digitale o servizi digitali al consumatore e in cui il consumatore fornisce, o si impegna a fornire, dati personali”),[16] vi sono solo alcuni accenni in grado di far luce sulle discrepanze della legislazione europea. In primo luogo, va evidenziata un’ambiguità di fondo: sembra che un unico regime contrattuale sia applicabile ai contratti di servizi digitali e per quelli di fornitura di contenuti digitali, indipendentemente dalla diversa natura dell’oggetto.[17]
Tuttavia, quando si tiene conto della Direttiva (UE) 2161/2019, il considerando 31 afferma apparentemente una differenza tra le due operazioni, riconoscendo che si dovrebbe più correttamente parlare di due diversi contratti: “La Direttiva 2011/83/UE si applica già ai contratti per la fornitura di contenuto digitale mediante un supporto non materiale (vale a dire la fornitura di contenuto digitale online), indipendentemente dal fatto che il consumatore paghi un prezzo o fornisca dati personali. Tuttavia, tale Direttiva si applica solo ai contratti di servizi, compresi i contratti di servizi digitali, che prevedono che il consumatore paghi o si impegni a pagare un prezzo”.
È dunque chiara l’intenzione del legislatore di differenziare (in alcuni casi) tra il contratto di vendita del dispositivo digitale stesso e il contratto di download di contenuti/servizi digitali.
Nel caso in cui il consumatore scarichi un’app non indispensabile al funzionamento dello smart device, è chiaro che stia stipulando un contratto diverso da quello di vendita del dispositivo digitale stesso – anche laddove le app vengano scaricate in cambio di dati personali.
Nella formulazione del considerando 33 della Direttiva 770/2019 la differenziazione è esplicita: “I contenuti digitali o i servizi digitali sono spesso combinati alla fornitura di beni o di altri servizi e offerti al consumatore nell’ambito di uno stesso contratto che comprende un pacchetto di elementi diversi, quali la fornitura di servizi di televisione digitale e l’acquisto di apparecchiature elettroniche. In tali casi il contratto tra il consumatore e l’operatore economico comprende elementi di un contratto per la fornitura di contenuto digitale o di servizi digitali ma anche elementi di altri tipi di contratto, quali i contratti di vendita di beni o servizi.
La presente Direttiva dovrebbe applicarsi soltanto agli elementi del contratto complessivo che consistono nella fornitura di contenuto digitale o di servizi digitali”.[18]
Inoltre, e questo è esattamente l’esempio di cui parliamo, “se un consumatore scarica un’applicazione di giochi da un app store su uno smartphone, il contratto di fornitura dell’applicazione di giochi è distinto dal contratto di vendita dello smartphone stesso. Pertanto, la Direttiva (UE) 2019/771 potrebbe applicarsi solo al contratto di vendita concernente lo smartphone, mentre la fornitura dell’applicazione di giochi potrebbe rientrare nella presente Direttiva, se le condizioni della presente Direttiva sono soddisfatte”.[19]
Dunque, qual è la classificazione dei “contratti di dati personali” ai sensi del diritto dell’UE? All’interno della Direttiva 770/2019 i contratti per la fornitura di contenuti digitali e servizi digitali sono equivalenti, nonostante il riferimento nel considerando 31 della Direttiva 2161/2019 in merito alla diversa natura delle due transizioni. Tuttavia, la scelta di rendere formalmente identici i contratti di somministrazione di contenuti digitali e quelli per la fornitura di servizi digitali non sembra tener conto della loro eterogeneità.
La Direttiva 770/2019, in combinato disposto con la Direttiva 771/2019, propenderebbe per l’applicazione del regime contrattuale previsto da quest’ultima (ossia il contratto di compravendita) sia che si parli di contenuti e di servizi digitali offerti in cambio di dati, sia che questi siano invece offerti a fronte di una controprestazione monetaria: “La Direttiva (UE) 2019/771 dovrebbe applicarsi ai contratti di vendita di beni, compresi i beni con elementi digitali […]. Ciò si dovrebbe applicare indipendente dal fatto che il contenuto digitale o il servizio digitale sia preinstallato nel bene stesso o debba essere successivamente scaricato su un altro dispositivo e sia soltanto interconnesso con il bene in questione […]. [Enfasi aggiunta] Ciò dovrebbe applicarsi anche se il contenuto digitale o il servizio digitale incorporato o interconnesso non è fornito direttamente dal venditore ma, conformemente al contratto di vendita, è fornito da un terzo”.[20] È dunque possibile riconoscere in ogni caso l’applicabilità del regime previsto per il “contratto di compravendita” anche ai “contratti di dati personali”?
Il legislatore europeo, tramite la Direttiva 770/2019, non ha voluto qualificare il regime contrattuale per le transazioni in parola, lasciando spazio all’applicazione della Direttiva 771/2019 e alle giurisdizioni nazionali: “La presente Direttiva non dovrebbe incidere sul diritto nazionale relativo a questioni che non sono disciplinate dalla stessa, come ad esempio le norme nazionali concernenti la formazione, la validità, la nullità o gli effetti dei contratti o la liceità del contenuto digitale o del servizio digitale. Inoltre, la presente Direttiva non dovrebbe definire la natura giuridica dei contratti per la fornitura di contenuto digitale o di servizi digitali e dovrebbe spettare al diritto nazionale determinare se tali contratti costituiscono, ad esempio, un contratto di vendita, di servizio, di noleggio o un contratto sui generis”.[21] Inoltre, “gli Stati membri dovrebbero tuttavia mantenere la facoltà di decidere in merito al soddisfacimento dei requisiti in materia di formazione, esistenza e validità di un contratto a norma del diritto nazionale”.[22]
Anche quando viene analizzata la Direttiva 83/2011, la volontà del legislatore dell’UE di non fornire una tassonomia per i contratti di fornitura di contenuti e servizi digitali sembrava essere già chiara con la seguente formulazione: “i contratti per la fornitura di contenuto digitale non fornito su un supporto materiale non dovrebbero essere considerati ai sensi della presente Direttiva né un contratto di vendita né un contratto di servizi”.[23]
Indipendentemente dal fatto che la controprestazione sia costituita da un prezzo o da dati, il contratto in questione non sembrerebbe essere qualificabile né come contratto di vendita né come contratto di servizio. Si rafforza dunque la visione secondo la quale anche i “contratti di dati personali” debbano essere ricondotti ad un regime autonomo ed innovativo. Ne consegue che la risposta – e dunque l’analisi – sulla natura dei “contratti di dati personali” debba basarsi sulla legislazione nazionale di ciascuno Stato membro. In tal senso, considerate le diverse tradizioni giuridiche, la giurisdizione italiana sembra essere il campo di prova appropriato per indagare sulla più adatta disciplina contrattuale applicabile ai cosiddetti “contratti di dati personali”. Gli istituti del diritto dei contratti e del diritto dei consumatori svolgono dunque un ruolo fondamentale nella ricerca di risposte chiare e inequivocabili ad interrogativi europei.
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Note
- Direttiva relativa a determinati aspetti dei contratti di fornitura di contenuto digitale e di servizi digitali. ↑
- Direttiva relativa a determinati aspetti dei contratti di vendita di beni, che modifica il regolamento (UE) 2017/2394 e la Direttiva 2009/22/CE, e che abroga la Direttiva 1999/44/CE. ↑
- Direttiva che modifica la Direttiva 93/13/CEE del Consiglio e le Direttive 98/6/CE, 2005/29/CE e 2011/83/UE del Parlamento europeo e del Consiglio per una migliore applicazione e una modernizzazione dellenorme dell’Unione relative alla protezione dei consumatori. ↑
- Cf. Truong, H. L., Comerio, M., De Paoli, F., Gangadharan, G. R., & Dustdar, S. (2012). Data contracts for cloud-based data marketplaces. International Journal of Computational Science and Engineering, 7(4), 280-295. ↑
- Considerando 19 della Direttiva 83/2011. ↑
- Considerando 14 della Direttiva 771/2019. ↑
- Cf. Millard, C. J. (Ed.). (2013). Cloud computing law (pp. I-IX). Oxford: Oxford University Press; Reingold, B., Mrazik, R., & D’Jaen, M. (2010). Cloud Computing: Whose Law Governs the Cloud?(Part III). LegalWorks, Jan.-Feb; Farina, J., Scanlon, M., Le-Khac, N. A., & Kechadi, M. T. (2015, August). Overview of the forensic investigation of cloud services. In 2015 10th International Conference on Availability, Reliability and Security (pp. 556-565). IEEE. ↑
- Considerando 2 della Direttiva 770/2019: “A norma dell’articolo 26, paragrafi 1 e 2, del trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), l’Unione deve adottare le misure destinate all’instaurazione o al funzionamento del mercato interno, che comporta uno spazio senza frontiere interne nel quale è assicurata la libera circolazione delle merci e dei servizi. L’articolo 169, paragrafo 1, e l’articolo 169, paragrafo 2, lettera a), TFUE, stabiliscono che l’Unione deve contribuire al conseguimento di un elevato livello di protezione dei consumatori mediante misure adottate a norma dell’articolo 114 TFUE nel quadro della realizzazione del mercato interno. La presente Direttiva mira a garantire il giusto equilibrio tra il conseguimento di un elevato livello di protezione dei consumatori e la promozione della competitività delle imprese, assicurando al tempo stesso il rispetto del principio di sussidiarietà”. ↑
- “Operatore economico»: qualsiasi persona fisica o giuridica, indipendentemente dal fatto che si tratti di un soggetto pubblico o privato, che agisca, anche tramite qualsiasi altra persona che agisca in nome o per conto di tale persona fisica o giuridica, per finalità che rientrano nel quadro della sua attività commerciale, industriale, artigianale o professionale, in relazione ai contratti oggetto della presente Direttiva”. ↑
- Cf. Schulte-Nölke, H., Twigg-Flesner, C., Ebers, M. (2009) EC Consumer Law Compendium: The Consumer Acquis and Its Transposition in the Member States, Sellier, p. 454; M. Kingisepp, A. Värv (2011), The Notion of Consumer in EU Consumer Acquis and the Consumer Rights Directive – a Significant Change of Paradigm?, p. 45. ↑
- Cf. Dominguez, C., & Celia, M. (2019). Internet Consumer: Case C-498/16, Maximilian Schrems v. Facebook Ireland Limited. Cuadernos Derecho Transnacional, 11, 711. ↑
- Cf. Colominas, D. G. (2018). Schrems v Facebook: The Consumer Definition in the Framework of Digital Social Networks. Eur. Data Prot. L. Rev., 4, 542; Haslach, J. (2019). International jurisdiction in consumer contract cases under the Brussels I Regulation: Schrems. Common Market Law Review, 56(2); Lutzi, T. (2018). ‘What’s a consumer?’(Some) clarification on consumer jurisdiction, social-media accounts, and collective redress under the Brussels Ia Regulation: Case C-498/16 Maximilian Schrems v. Facebook Ireland Limited, EU: C: 2018: 37. Maastricht Journal of European and Comparative Law, 25(3), pp. 374-381. ↑
- Cf. Dunay, P., & Krueger, R. (2009). Facebook marketing for dummies. John Wiley & Sons and also Holzner, S. (2008). Facebook marketing: leverage social media to grow your business. Pearson Education. ↑
- Cf. Cukul, D. (2015). Fashion marketing in social media: using Instagram for fashion branding (No. 2304324). International Institute of Social and Economic Sciences. ↑
- Cf. Dewi, L. P. L. P. (2015). Type Of Word Formations On Instagram Hashtags. Universitas Udayana: Dempasar. ↑
- Considerando 24 della Direttiva 770/2019. ↑
- Considerando 22 della Direttiva 770/2019. ↑
- Considerando 33 della Direttiva 770/2019. ↑
- Considerando 22 della Direttiva 770/2019. ↑
- Considerando 21 della Direttiva 770/2019. ↑
- Considerando 12 della Direttiva 770/2019. ↑
- Considerando 24 della Direttiva 770/2019. ↑
- Considerando 19 della Direttiva 770/2019. ↑