Nel mondo dei social network e in particolare nella nazione dove ogni giorno su Facebook, Twitter, Instagram, Linkedin ci re-inventiamo virologi, allenatori di calcio, esperti in geopolitica e grandi imprenditori, la censura è solo un ricordo lontano?
Non proprio. La storia insegna che nel corso del tempo il disciplinamento dell’espressione si trasforma e prende nuove strade. Ma è raro pensare un ad un periodo storico senza forme di controllo sociale sull’opinione pubblica.
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Cos’è la censura
Secondo la Treccani “la censura è una forma di controllo sociale che limita la libertà di espressione e di accesso all’informazione, basata sul principio secondo cui determinate informazioni e le idee e le opinioni da esse generate possono minare la stabilità dell’ordine sociale, politico e morale vigente”.
Quando pensiamo alla censura, per esempio a quella del ventennio fascista e nazista, ci vengono in mente forme severe di limitazione dei diritti di stampa e di epurazione dei giornalisti dissidenti. E se prendiamo in esame questo tipo di censura allora non troveremo nulla di tutto ciò nel nostro tempo, dove ogni persona “posta” liberamente contenuti sui social. Tuttavia, è bene approfondire il ragionamento.
Verità, social e censura 2.0
Come scriveva Alessandro Baricco nel libro The Game (2018), la verità nei social non è un concetto assoluto. È un concetto approssimativo, mutevole che evolve nel tempo. E così la censura 2.0. Non è determinante silenziare le voci dissidenti e controcorrente, in teoria per ottenere l’effetto voluto è sufficiente “rallentarne la diffusione”, in modo che le loro verità si disperdano nel rumore di fondo.
I social sono il vero sistema circolatorio dell’informazione. E nessuno può più ragionevolmente credere che siano “piattaforme neutrali” che si limitano ad ospitare i contenuti. Non sono servizi di “hosting” di testi e immagini, hanno potenti algoritmi che da un lato distribuiscono pubblicità, dall’altro veicolano i contenuti. Nei mesi della pandemia, sia Facebook che Twitter hanno modificato i rispettivi “termini di utilizzo” restringendo la diffusione di opinioni assimilabili al mondo “no vax”. Non si trattava di censura in senso stretto, ci si poteva continuare a scatenare sul tema “si-vaccino-no-vaccino”, solo che le opinioni non gradite venivano rallentate. In pratica non le vedeva più nessuno. L’algoritmo tirava il freno a mano e il post “taggato” come non gradito non era più in grado di diffondersi. Ognuno di noi poteva postare opinioni controcorrente rispetto a quelle “governative”, ma di fatto l’algoritmo di Facebook, aiutato da migliaia di fact checker setacciava l’infinità dei post pubblicati quotidianamente e laddove ravvisava posizioni “troppo eterogenee” ne limitava la visibilità.
Libertà di espressione, formale e reale
Ogni giorno da qualche parte si leggeva prima la classica strofa: “Siamo in un regime, le verità controcorrenti sono censurate e oscurate” e di risposta il classico ritornello: “Se su un social puoi dire che siamo in un regime, allora vuol dire che non siamo in un regime”. Regime in effetti è una parola importante. E se escludiamo il significato metaforico, allora è evidente che non siamo in un regime. Ma anche l’obiezione è molto debole. Il fatto che si possa dire ed esprimere qualunque argomento, non vuol dire che ci sia in un “reale” di libertà di opinione e informazione. Libertà di espressione formale, non vuol dire libertà di espressione reale.
Anche perché il rallentamento dei post era solo il primo livello di ostacolo da parte dei social network alle opinioni controcorrente. Il gradino successivo era “l’account limitato”. L’account limitato è il freno a mano tirato non sul singolo post, ma sull’utente nel suo complesso. Quando hai l’account limitato i tuoi post non li vede nessuno anche se improvvisamente cambi ideologia e ritorni a postare paesaggi e foto delle vacanze. L’account poteva venire limitato per 7 o 30 giorni a seconda dei casi e del livello di minaccia rappresentato. Dopodiché non sono mancate le forme più discutibili di censura 2.0. Molti account durante la pandemia sono stati bloccati per periodi più o meno lunghi. O addirittura “terminated”.
Il caso di Robert Malone
Il caso più eclatante e discutibile è quello di Robert Malone. Malone è uno scienziato e ricercatore americano, uno dei primi ricercatori ad occuparsi di mRNA. Nei mesi successivi all’autorizzazione dei vaccini, Malone ha raccolto ampio consenso di pubblico e di seguito online intorno all’idea della controindicazione dei vaccini mRNA nei bambini (tema su cui ancora oggi il dibattito è decisamente aperto). Improvvisamente, senza preavviso, il 30 dicembre 2021, Twitter sospende definitivamente l’account di Malone, che aveva oltre 500.000 followers.
Malone era uno scienziato, un ricercatore, una voce autorevole sull’argomento e parlava attraverso dati e informazioni. Non complottismo di basso livello. Non è la sede per entrare nel merito delle opinioni di Malone. Però forse dovremmo entrare nel merito di quelle di Twitter. Evidentemente sulla base dei “termini d’uso” dell’azienda (rivisti proprio nel dicembre 2021), postare contenuti in grado di mettere in cattiva luce la campagna vaccinale era vietato. E dunque automaticamente, Twitter è autorizzata a prendere misure con tutti i contenuti e gli account che non ottemperano a tali linee guida. In fondo i social network sono aziende private. E in casa loro ci si comporta secondo le regole da loro stessi definite. E tuttavia bisogna anche ricordare che i social network sono venuti al mondo definendosi piattaforme, agnostiche e non responsabili dei contenuti degli utenti, anzi è proprio grazie a questa de-responsabilizzazione che hanno evitato problemi legali, cause e risarcimenti legati ai contenuti pubblicati dagli utenti. Ma oggi a quanto pare si sono trasformati in editori con una propria linea editoriale. Una linea editoriale che però non si basa su articoli creati da propri dipendenti, ma da utenti inconsapevoli i cui contenuti vengono utilizzati per veicolare opinioni e frenarne altre, grazie alla potenza degli algoritmi che influenzano l’opinione pubblica mondiale.
La guerra russo-ucraina e l’autorizzazione all’odio
Se pensate che quello di Malone sia solo un episodio e che la pandemia sia stata un’emergenza unica, allora forse bisogna rivolgere l’attenzione a quello che sta succedendo in queste settimane di guerra Russia-Ucraina. Facebook ha autorizzato messaggi e post d’odio nei confronti degli oligarchi russi e di Putin, in deroga ai principi essenziali delle sue linee guida che impedivano da sempre qualunque forma di incitamento all’odio. Ed è notizia ancora più recente l’attivazione da parte di Twitter di misure che limiteranno l’impatto della propaganda ufficiale russa sull’Ucraina sul suo social network. Gli account ufficiali russi non verranno più “raccomandati” agli utenti. Qualcuno ha rinominato l’autorizzazione di Facebook all’odio la versione social di “i due minuti d’odio” di 1984 di Orwell. Nel profetico romanzo distopico, i due minuti d’odio rappresentano una pratica collettiva incentivata dal governo del Grande Fratello che consiste nel riunirsi di un gruppo di persone dinanzi a un teleschermo che proietta immagini del nemico supremo della patria Emmanuel Goldstein. Durante i due minuti d’odio, gli astanti sono liberi di inveire, bestemmiare ed esprimere il proprio lato bestiale.
Conclusioni
L’Italia, gli Stati Uniti (sede dei principali social network) e l’Unione Europea non sono in guerra. È bene ricordarlo. Ed è bene ricordare anche che non siamo in un regime. Ma il controllo sociale esiste. Diverso, subliminale e poco trasparente. Forse la domanda che dovremmo porci è che cosa potrebbe succedere alla libertà di informazione e di espressione se dovesse esserci un ulteriore escalation verso la guerra? Dovremmo forse rispolverare anche il vecchio concetto di censura 1.0?