In tempi di coronavirus può sembrare fuori luogo tornare a scrivere di libertà e di privacy in rete, aggiungendovi Polifemo. Oggi, per evitare il contagio dobbiamo rinunciare a molte delle nostre libertà. Come in guerra – ci ha ricordato un grande psichiatra e un grande umanista come Eugenio Borgna.
Ma questa è appunto una condizione eccezionale. Che non ci deve impedire di ragionare su come invece abbiamo ‘volontariamente e progressivamente’ rinunciato, in questi anni, a molta della nostra libertà cedendola/vendendola all’oligopolio di imprese private della Silicon Valley.
Questo articolo è stato scritto prima dello scoppio della pandemia. Lo abbiamo lasciato immodificato – perché convinti che la pandemia non ne infici le ragioni di fondo, anzi – aggiungendo solo queste righe iniziali per evitare malintesi. Perché Covid-19 non ci faccia dimenticare ciò che è accaduto ‘prima’ del coronavirus. Permettendoci così di uscire poi dalla pandemia con più e non con meno libertà; con più socialità e solidarietà umane e meno social (perché ‘fare/essere’ società non è ‘vivere nei e con i social’, neppure in una pandemia).
Una provocazione
Questa che state leggendo è una ‘provocazione’ – anche se, nel leggerla, sempre meno sarà o sembrerà una provocazione e sempre più la descrizione della realtà di oggi. Una provocazione che si muoverà cercando le possibili analogie tra Polifemo e Bezos-Jobs-Zuckerberg-Gates. Con qualche forzatura, certo. Ma d’altra parte – etimologicamente – ‘provocazione’ significa appunto ‘sfidare’ ma anche ‘invitare’, ‘chiamare fuori’, ‘far uscire’ (è parola composta da ‘pro’, cioè spingere ‘avanti’; e da ‘vocare’, ovvero ‘chiamare’): e quindi vogliamo ‘provocare’ per chiamare/invitare/sfidare chi avrà la pazienza di leggerci a riflettere di nuovo sulle nuove tecnologie e sul nostro rapporto di crescente sudditanza e alienazione nei loro confronti.
Altrimenti, considera questo articolo – tu lettore che non hai già cambiato ‘pagina’ – come una forma di ‘divertissement’, anche se in realtà è appunto serissimo nelle sue intenzioni critiche, volte a cercare di capire come e perché siamo diventati tutti così ‘imbecilli’ (non trovo un altro termine adeguato) da lasciarci profilare, ovvero spiare in massa dal Big Data dell’oligopolio delle imprese private tecnologiche senza ribellarci, senza resistere difendendo con le unghie e con i denti la nostra libertà individuale di pensiero, scelta, decisione. Anzi facendoci ‘felicemente complici’ della nostra profilazione/spionaggio da parte del capitalismo e della tecnica; prostituendoci corpo e anima – ‘vendendoci’ sui nodi della rete invece che nelle strade o nei bordelli – ‘credendo’ che navigare in rete sia gratis e che la mistica della rete non comporti rischi di totale sussunzione nostra nella rete/oligopolio/social-imprese capitalistiche.
Oggetto delle nostre analogie provocatorie non sarà quindi solo il ‘capitalismo della sorveglianza’ (si legga la bellissima riflessione/recensione di Paolo Giordano – su La Lettura-Corriere della sera del 9 febbraio scorso – al libro di Shoshana Zuboff), ma il ‘capitalismo tout court. Oggi senza più freni né remore e che per il proprio profitto da tempo ‘estrae valore’ dalla nostra ‘vita intera’; con noi sempre più integrati, identificati – è diventato una ‘forma di vita’, una antropologia – con questo tecno-capitalismo. Non più solo con il lavoro e il consumo, come tecniche comportamentali per essere ‘catturati’ dal capitalismo, come ieri; ma, oggi soprattutto le relazioni sociali, le amicizie, le emozioni, l’intelligenza, l’identità, l’intimità – appunto, la vita intera dell’uomo diventata risorsa, capitale, merce, dato. Dimenticando un’altra verità che sempre dimentichiamo: che più siamo ‘integrati’ in qualcosa/organizzazione/rete/social che non controlliamo e di cui non siamo consapevoli, meno siamo liberi: ma è appunto per ‘produrre’ questo nostro ‘doverci identificare’ con l’apparato (rete e mercato) che il tecno-capitalismo usa la psicologia per ‘ingegnerizzare’ – sì, questo è il termine corretto, usato dagli stessi ‘ingegneri della modificazione comportamentale’ – i nostri modi di vivere e renderli ‘funzionali’, cioè generativi di crescenti produttività, consumo e soprattutto nostra integrazione/sussunzione al suo funzionamento come tecno-capitalismo. E se non credete a chi sta scrivendo questo ‘pezzo’, leggete ‘Propaganda’, di Edward L. Bernays: nipote di Freud e ‘padre’ in America del marketing e delle PR moderne intese appunto come tecniche di ‘ingegnerizzazione del consenso’ – anche in quelle che sembrano democrazie; o leggete il ‘classico’ ma sempre attualissimo saggio di Packard sui ‘persuasori occulti’, oggi diventati influencer e algoritmi predittivi e tweet. Tecniche di ‘modificazione comportamentale eteronoma’/’ingegnerizzazione del consenso’ usate con sempre maggiore raffinatezza applicativa, intensità e pervasività dal tecno-capitalismo.
L’ingegnerizzazione capitalistica dei comportamenti umani
Generandosi oggi il paradosso per cui se ieri eravamo, bene o male, cittadini di uno stato che voleva sì prendersi cura di noi, ma che lasciava comunque ampi margini di libertà e di autonomia – margini enormi, se confrontati al controllo capillare del ‘capitalismo della sorveglianza’ odierno – oggi abbiamo invece appunto ‘venduto’ la nostra ‘vita intera’ – diventata ‘forza lavoro’ – alle imprese private del tecno-capitalismo. La sua organizzazione – della nostra vita – ormai è sempre più eteronoma (appunto: ‘ingegnerizzata’, ‘modellizzata’, ‘normata e normalizzata/omologata’ – si pensi ancora agli algoritmi predittivi, massima forma di standardizzazione e di omologazione dei comportamenti umani di consumo e non solo). Una vita ‘ingegnerizzata’ attraverso una nuova ‘organizzazione scientifica della vita umana’, non più attraverso la repressione delle pulsioni e del ‘principio di piacere’, bensì attraverso l’attivazione incessante delle nostre pulsioni e di un illusorio ‘principio di piacere’, attraverso il controllo e la costruzione dei suoi processi psicologici e dei suoi meccanismi di differenziazione e di omologazione come di attivazione di piacere e di dolore.
La vita è stata oggi da noi ceduta integralmente (integralisticamente) non più a una ideologia politica o ad uno stato dittatoriale, come nel ‘900, ma ad un oligopolio di imprese private che appunto ‘organizzano’ e ‘governano’ e ‘indirizzano’ (con la complicità anche dello stato neoliberale, populismi e sovranismi compresi) la nostra ‘vita intera’ mediante emozioni, gioco, passioni, feticismi, misticismi tecnologici e populistici: dalle app all’Internet delle cose, dagli assistenti virtuali agli – di nuovo – algoritmi predittivi.
E lo fa sia producendo (appunto: ‘ingegnerizzandoli’) comportamenti ‘condizionati’ ieri dal ‘management scientifico’ (il lavorare alla catena di montaggio e i consumi di massa), ma anche oggi nel ‘dover essere connessi’, ‘dover condividere’, ‘dover essere smart’, ‘dover essere leoni o gazzelle’ importante è correre-produrre-consumare-vivere sempre più in competizione con gli altri e più velocemente degli altri); sia producendo ‘comportamenti motivati’ dal nuovo ‘management motivazionale-carismatico-empatico-social’ di oggi.
In realtà, questi comportamenti detti ‘motivati’ se non ‘auto-motivati’ – con l’individuo che sarebbe finalmente libero e consapevole delle proprie scelte – sono ‘condizionati’ in altro modo, tipo: ‘solo in rete si è davvero liberi, quindi sii sempre connesso’; ‘solo in rete uno vale uno’, quindi credi a una rete che sarebbe finalmente una democrazia pienamente realizzata; devi ‘credere’ di ‘essere imprenditore di te stesso e la start-up di te stesso’ e non – come invece sei – subordinato (e alienato, nel senso di Marx) in altro modo ad una piattaforma che è mezzo di connessione/produzione, ma che non è tua; oppure devi credere di essere un ‘consumatore sovrano’ perché ‘libero’ di scegliere nella vetrina di Amazon, così consumando sempre più, ma comodamente dal tuo pc/smartphone; e credere di essere lavoratore creativo della conoscenza ibridato nella AI e nell’Industria 4.0, e non, quale invece sei, dentro ad una forma digitale di vecchio taylorismo.
Tutti ‘comportamenti (apparentemente) motivati’, ma in realtà condizionati’. Ovvero abbiamo talmente ‘introiettato’ il ‘comando’ del tecno-capitalismo da fare ‘liberamente e autonomamente’ (sic!) ciò che il sistema vuole da noi (aumentare la produttività, esasperare i tempi ciclo di lavoro, di consumo e di rilascio di dati), senza protestare ed anzi con la massima condivisione/identificazione con il sistema. Perché dobbiamo ‘credere’ (per questo si usano le tecniche di modificazione comportamentale offerte dalla psicologia, evoluzione a loro volta dei catechismi delle religioni e delle ideologie politiche del passato – e già nel 1921 il filosofo Walter Benjamin aveva definito il capitalismo come una ‘religione’, mentre noi lo abbiamo scritto del tecno-capitalismo); perché appunto dobbiamo ‘credere’ di fare ‘liberamente’ un lavoro intelligente nell’Industria 4.0 e nello smart working, ‘credere’ di essere più liberi e autonomi vivendo con gli algoritmi.
In realtà la rete è diventata – come sosteniamo da tempo – la nuova ‘Fabbrica globale’ dove ciascuno è appunto messo in qualche modo al lavoro, producendo merci, consumi, emozioni/relazioni, dati. Per cui fa davvero sorridere chi scrive oggi di ‘imprese lasciate sole’ dalla politica (Francesco Manacorda, la Repubblica dell’11 febbraio), se è vero come è vero che oggi tutto è impresa, tutto è mercato, sia lo Stato, sia l’individuo con la sua vita diventata solo merce e lavoro alienato.
Il totalitarismo d’impresa e il pluslavoro motivazionale
E ancora: come e perché abbiamo obbedito all’ordine soft di Mark Zuckerberg e di altri per indurci a rinunciare alla nostra privacy che – come abbiano ripetuto anche recentemente, richiamando i valori dell’illuminismo e della modernità liberale – è invece elemento imprescindibile della libertà dell’individuo, per cui ‘senza privacy, zero libertà’? Noi non vedendo (o meglio: ‘non dovendo vedere’: anche questa è ‘ingegnerizzazione’ dei comportamenti umani: far credere vero – la ‘massima libertà’ – ciò che invece non lo è, appunto la profilazione e la ‘vendita’ della libertà individuale), che la nostra rinuncia ‘volontaria e libera’ alla privacy era appunto ‘funzionale’ (era, di nuovo, un nostro comportamento ‘ingegnerizzato’) a permettere la ‘estrazione di valore’ dalla vita/dati di ciascuno, come richiesto dalla ‘fase antropologica’ (essendo diventato una appunto ‘forma di vita’ e non più un ‘mezzo’ per vivere meglio) del tecno-capitalismo: ciascuno reso ‘volontariamente’ e ‘felicemente’ trasparente per il profitto di un potere invece assolutamente ‘opaco’ (gli algoritmi di Facebook e non solo).
In questo modo – illudendoci di essere più liberi, secondo la propaganda del tecno-capitalismo – auto-sottomettendoci ‘volontariamente’ (auto-sfruttandoci h24) a svolgere quello che possiamo definire un crescente ‘pluslavoro motivazionale o comportamentale’ (nei social, nel cosiddetto lavoro di conoscenza, nelle community d’impresa e di brand, nell’Internet dei sensi e degli uomini), accanto all’accrescimento anche del nostro ‘pluslavoro classico’: quello che passa attraverso l’esasperazione dei tempi ciclo e il taylorismo digitale nell’Industria 4.0 e nel capitalismo delle piattaforme, il prolungamento ad h 24 della giornata lavorativa, la precarizzazione delle forme contrattuali e di vita. Noi in questo modo sempre al ‘servizio’ della produzione di plusvalore per il capitale, sempre adattandoci (ma oggi facendolo appunto ‘volontariamente e felicemente’ – sic!) alle esigenze della incessante rivoluzione industriale, assecondando (sempre ‘volontariamente e felicemente’) il ‘comando’ non solo dell’impresa singola ma della ideologia neoliberale che questo appunto vuole avendolo pianificato fin dai ‘Colloqui Lippmann ‘svoltisi a Parigi nel 1938 per la rifondazione neoliberale del capitalismo.
Dunque: come sopravvivere al Big Data, al ‘capitalismo della sorveglianza’, al ‘capitalismo estrattivo’ di vita – noi facendo ‘mining’ incessante di noi stessi, scavando volontariamente nella ‘miniera’ del nostro auto-sfruttamento? Ovvero: come sopravvivere a un tecno-capitalismo che sta divenendo sempre più una forma di totalitarismo, non più politico come i totalitarismi del ‘900, ma tecnico ed economico, se non imprenditoriale, la nostra vita essendo sempre più modell(izz)ata, ‘ingegnerizzata’ sulla forma dell’impresa? Certo, non è cosa nuova e si rilegga ad esempio Herbert Marcuse e la sua critica al totalitarismo della ‘società tecnologica avanzata’ degli anni ’60 o le riflessioni sul totalitarismo delle macchine e della tecnica di Günther Anders e di Jacques Ellul.
Ovvero, come ‘restare umani’ senza divenire ‘post-umani’? – post-umani perché sempre più ‘deleghiamo’ alla tecnica ciò che più ci rendeva invece ‘umani’: la libertà di pensare e poi decidere, responsabilmente e consapevolmente?
Come evitare che tecnica e capitalismo facciano stracci della nostra vita, della nostra libertà, della nostra soggettività, della responsabilità e della speranza, del pianeta e dei diritti delle generazioni future?
La Rete-girello per bambini e la tristezza di Kant
Cosa direbbe l’illuminista Kant, lui che sognava un individuo capace (sapere aude!) di divenire/essere autonomo, uscendo dal ‘girello per bambini’ in cui lo tiene ogni potere eteronormante/eteronormativo? Come uscire dalla caverna platonica/prigione dove il potere volutamente confonde per noi realtà e apparenza, facendoci credere che – oggi – la realtà virtuale sullo schermo sia l’unica realtà, magari aumentabile, impedendoci di uscire dalla grotta/prigione per scoprire la realtà vera della realtà naturale e sociale/umana? Come uscire – altrimenti che da quella di Platone – dalla caverna di Polifemo, dal Polifemo/grande occhio/Big Data, che ‘ci sta mangiando esistenzialmente e antropologicamente un po’ per volta la vita’, come quello di Omero mangiava ‘fisicamente’ i compagni di Ulisse, uno alla volta?
Per restare umani occorre uscire – e occorre farlo in fretta – da questo tecno-capitalismo onnivoro che sussume la nostra vita dentro di sé; dobbiamo ‘accecare’ il suo occhio, come Ulisse fece con Polifemo. Per non essere spiati e controllati l’unica soluzione – se siamo ancora capaci di democratizzare e controllare questo potere oggi incontrollato della tecnica e del capitale che lasciamo irresponsabilmente libero di muoversi per il mondo – è impedire alla radice di essere spiati, controllati e messi al lavoro come schiavi, o come, appunto, prostitute. Occorre ‘spegnere’ l’occhio di Polifemo/Silicon Valley, impedire che ci veda e scruti e analizzi e ci profili trasformandoci in un numero. Ma non basterebbe ancora: Polifemo infatti, anche se accecato, è ancora vivo, è sempre un mostro, n volte più grande di Ulisse e dei suoi compagni di viaggio: per uscire dalla caverna, Ulisse deve diventare ‘Nessuno’, farsi non profilabile e non identificabile. E tuttavia, diventare ‘Nessuno’ in questo senso (cioè non tracciabili, non profilabili, non spiabili, non riducibili a numero e a proletari al lavoro nella miniera dei dati) è l’unico modo per essere veramente ‘Qualcuno’, cioè ‘soggetti umani’ e non ‘oggetti’ del capitale e della tecnica. Ovvero: essere/dirci/vivere come ‘Nessuno’ per l’algoritmo, per poter essere ‘Io e Noi’ per noi stessi. “Allargando nella massima misura possibile” – come scriveva l’economista Claudio Napoleoni – “la differenza tra società e capitalismo”.
Ulisse e Polifemo-Silicon Valley
Riprendiamo e rileggiamo dunque questa parte dell’Odissea. Quando Ulisse, nel suo lungo viaggio per tornare a Itaca sbarca nella terra dei Ciclopi (e la nuova terra dei Ciclopi è oggi identificabile con l’oligopolio della Silicon Valley), spinto dalla curiosità e dalla voglia di conoscenza, entra con alcuni compagni nella grotta del più terribile di tutti, Polifemo. Intrappolato nella caverna (oggi nella rete) con i suoi compagni, con l’ingresso bloccato da un masso enorme (oggi l’algoritmo/AI/IoT/social), Ulisse escogita un piano per fuggire. Come prima parte del piano di fuga, Ulisse offre del vino dolcissimo al Ciclope per farlo cadere in un sonno profondo. Per ringraziarlo dell’offerta, prima di addormentarsi Polifemo promette però a Ulisse un dono, chiedendogli in cambio di conoscere il suo ‘nome’ (oggi diremmo i suoi dati). Ulisse, astutamente, risponde di chiamarsi ‘Nessuno’; al che Polifemo, dall’alto della sua ‘magnanimità e benevolenza’ gli dichiara: “E io mangerò per ultimo Nessuno”. E arriviamo – per chi non la ricordasse – alla ‘scena clou’: Ulisse e i suoi compagni piantano un ramo appuntito e arroventato nell’occhio (l’unico occhio, ma grande come quello di un Grande Fratello/Big Data odierno) del Ciclope dormiente. Polifemo ovviamente si sveglia per il dolore e, urlando, sveglia dal sonno anche gli altri Ciclopi. Che accorrono alla grotta di Polifemo (anche i Ciclopi-Silicon Valley, come in ogni oligopolio, sono molto fraterni tra loro: si fanno una concorrenza spietata tra loro, ma l’offesa a uno di loro è offesa a tutti) e gli domandano perché stesse invocando aiuto – mentre Ulisse e i suoi compagni si nascondono vicino al gregge, ancora chiuso nella grotta di Polifemo-pastore. Polifemo risponde che ‘Nessuno’ stava cercando di ucciderlo. I Ciclopi, allora, pensandolo ubriaco, se ne vanno tranquillizzati. E la mattina, mentre Polifemo fa uscire il suo gregge per mandarlo a pascolare (non potendo più guidarlo lui stesso, in quanto cieco), Ulisse con i suoi compagni scappano aggrappandosi al ventre delle pecore, così da evitare che il tocco della mano del Ciclope possa identificarli/sentirli nella fuga.
Accortosi però poi della loro fuga (è un Ciclope, ma non è stupido), Polifemo si spinge su un promontorio da dove, alla cieca ovviamente, con la rabbia dello sconfitto, inizia a gettare rocce verso il mare, cercando di affondare la nave di Ulisse e dei suoi compagni. Ed è qui che Ulisse, narciso come noi in rete, commette un errore gravissimo, che invece noi – ammesso che si riesca e soprattutto che si voglia fuggire dalla grotta-miniera di Polifemo-Silicon Valley – non dovremmo mai fare; ovvero, grida, ridendo, rivolto verso Polifemo: “Se qualcuno ti chiederà chi ti ha accecato, rispondigli che non fu Oudeis (Nessuno), ma Ulisse d’Itaca!”, rivelando così il suo vero nome, ovvero svelando nuovamente e ingenuamente (credendo di essere ‘libero’ dal Ciclope-Silicon Valley) la sua identità/profilo. Al che, Polifemo-Silicon Valley lo maledice, invocando Poseidone suo padre (che oggi è la razionalità strumentale-calcolante-industriale tecno-capitalista) pregandolo di non farlo mai ritornare a Itaca a ritrovare se stesso e Penelope e Telemaco. Così come la razionalità solo calcolante-industriale di oggi ci vuole sempre più a navigare senza meta per anni in una rete/mare dove noi amiamo ‘dirci ed essere social’ senza capire di essere, in tal modo, proletarizzati e messi al lavoro da un capitalismo che abusivamente si autodefinisce social, che è cosa tutta diversa da ‘sociale’ (anche se ‘crediamo’ che siano la stessa cosa), perché ogni ‘social’ è una impresa capitalistica, quindi strutturalmente de-socializzante.
Ancora Freud, ma oltre Freud
Forse ha ancora ragione il buon Freud quando sosteneva che gli uomini amano barattare la possibilità della felicità per un po’ di sicurezza: quella sicurezza oggi offerta da una società perfettamente ‘amministrata’, ancor più amministrata rispetto a quella criticata dalla Scuola di Francoforte e dove tutto era ‘automatizzato, dal governo al consumo, al traffico’ arrivando oggi alla vita intera dell’uomo. Con una integrazione/aggiornamento, tuttavia, rispetto a Freud: l’abilità del tecno-capitalismo è semmai, oggi, quella di essere allo stesso tempo ciò che distrugge la sicurezza del vivere (cambiamento climatico, precarizzazione del lavoro, competizione incessante ed esasperata, rabbia e rancore diffusi sulla società) e ciò che offre la sicurezza e l’ordine impliciti in una automatizzazione dell’esistenza umana (non solo del lavoro e del consumo, ma del pensiero) – una vita sempre più integrata/sussunta nel Tecnocene – aggiungendovi insieme l’offerta di una infinita illusione di felicità/libertà grazie alla tecnologia.
Per questo, per ‘restare umani’ non ci bastano ‘trucchetti’ tipo: fare condividere lo stesso account da decine di persone in modo che il social/impresa capitalistica sia incapace di identificare chiaramente le preferenze del singolo utente. Ci vuole ben altro.
Il problema va cioè risolto alla radice, se vogliamo davvero essere liberi nel senso di Kant (e non vedo un altro modo per esserlo davvero). O di Marcuse, che scriveva: “la semplice assenza di pubblicità e di ogni mezzo indottrinante di informazione e di trattenimento precipiterebbe l’individuo in un vuoto traumatico in cui [però] egli avrebbe la possibilità di farsi delle domande e di pensare, di conoscere se stesso (…) e la sua società”. Se sostituiamo ‘pubblicità’ con ‘dati’ (in realtà strettamente integrati tra loro, i secondi essendo finalizzati oggi a riprodurre soprattutto la prima e quindi un capitalismo ecologicamente insostenibili e irresponsabili), avremo una buona ‘via di fuga’ dal totalitarismo del sistema tecno-capitalista. Perché – ancora Marcuse – “l’arresto della televisione e degli altri media che l’affiancano potrebbe contribuire a provocare ciò che le contraddizioni del capitalismo non provocarono” e che continuano a non provocare – “la disintegrazione del sistema”.
Necessaria per tornare ad essere liberi di immaginare, di pensare, di sperimentare, di vivere senza (oggi) l’angelo custode/assistente virtuale, senza una app/algoritmo/IoT che ‘comandi’ e governi e ‘dia ordine’ – a nostra insaputa, ma noi felici di non dover più pensare – alla nostra vita.
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Bibliografia di riferimento
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Bartolini P. – Consigliere S. (2019), ‘Strumenti di cattura. Per una critica dell’immaginario tecno-capitalista’, Jaca Book, Milano
Benjamin W. (2011), ‘Scritti politici 1’, Editori Riuniti, Roma
Bernays E.L. (2008), ‘Propaganda’, Lupetti, Bologna
Demichelis L. ‘Feticismo della tecnica e alienazione dell’uomo’, in Bordoni C. (2020) (a cura di), ‘Il primato delle tecnologie’, Mimesis, Milano
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Freud S. (1997), ‘Il disagio della civiltà e altri saggi’, Bollati Boringhieri, Torino
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Sadin E. (2019), ‘Critica della razionalità artificiale’, Luiss, Roma
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