Garante privacy

TikTok e i dati “passati” al Partito Comunista: un problema anche in Italia



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Nonostante le rassicurazioni di TikTok e Pechino, il livello di sospetto con cui il mondo occidentale guarda al social cinese è molto elevato, specie dopo le ultime dichiarazioni di un ex dipendente sul presunto trasferimento di dati al PCC

Pubblicato il 16 giu 2023

Riccardo Berti

Avvocato e DPO in Verona



Shutterstock_1609031122

Lo scorso 10 giugno il Garante Privacy ha chiesto informazioni a TikTok Technology Ltd dopo che sono state diffuse le dichiarazioni di un ex dirigente della Società “Byte Dance” (l’azienda cinese proprietaria del social network), in cui si fa riferimento ad un presunto accesso ai dati personali degli utenti del social network da parte del Partito Comunista Cinese.

L’ex dirigente Yintao Yu, che aveva il ruolo di head of engineering nel branch USA della società cinese, è stato licenziato nel 2018 ed oggi ha un contenzioso aperto con l’azienda in California, contenzioso in cui contesta di essere stato licenziato dopo aver denunciato la cultura di aperta illegalità che la caratterizzava e le ingerenze del PCC nelle sue operazioni.

Le dichiarazioni di Yu, che se confermate dimostrerebbero una comunicazione illecita di dati personali da parte di TikTok verso il governo cinese, sono in aperto contrasto con le dichiarazioni fornite da TikTok al Garante italiano, proprio per questo motivo l’Autorità ha ritenuto di chiedere un chiarimento all’azienda, chiarimento che dovrà essere fornito entro il 25 giugno.

L’audizione al Congresso USA

L’iniziativa del Garante italiano fa seguito all’audizione fiume del CEO di TikTok Shou Zi Chew davanti al Congresso USA, avvenuta il 23 marzo scorso, audizione nella quale il titolare del branch americano dell’azienda cinese ha ribadito con vigore il fatto che non ci sono commistioni fra l’azienda e il governo di Pechino.

In un inedito fuoco di fila che ha visto uniti (e già questa è una rarità) democratici e repubblicani, il CEO ha affermato a chiare lettere che “Let me state this unequivocally: ByteDance is not an agent of China or any other country” e che TikTok non ha mai condiviso, o ricevuto richieste di condividere, dati di utenti statunitensi, e non vi darebbe corso ove le ricevesse.

Al contempo Chew però ammesso che ad oggi il c.d. “Progetto Texas” (un’iniziativa volta a conservare tutti i dati di TikTok degli utenti USA su suolo statunitense) non è ancora del tutto operativo e che per questo il personale in Cina dell’azienda può accedere ai dati degli utenti USA.

L’eco di questa notizia (e della conseguente e insistita insinuazione dei membri del Congresso circa il fatto che questa ammissione equivale ad un riconoscimento di una ingerenza -potenziale o effettiva- del governo di Pechino nei dati dei cittadini USA) ha spinto il Ministero degli Esteri Cinese a ribadire, di lì a poco, che il governo di Pechino non chiede alle aziende cinesi di fornirgli dati collocati in altri paesi.

Nonostante le rassicurazioni di TikTok e di Pechino, il livello di sospetto con cui il mondo occidentale guarda al social cinese è rimasto molto elevato, e dopo l’audizione di Shou Zi Chew molti dei componenti del Congresso che lo hanno interrogato si sono detti convinti di dover bloccare il social sul territorio statunitense per evitare possibili ingerenze di Pechino nella vita del paese.

Le dichiarazioni di Yu

A rafforzare i timori del governo USA (e di quelli europei) sono ora le allegazioni di Yintao Yu, contenute nella documentazione giudiziale del suo contenzioso con il branch americano di TikTok, in cui si parla di un filo diretto fra la società e il governo cinese.

Secondo Yu questa ingerenza di Pechino si sarebbe manifestata ad esempio nell’accesso ai dati degli utenti del social network DuoYin (l’omologo cinese di TikTok) residenti ad Hong Kong durante le proteste che hanno scosso l’ex colonia, e si spingerebbe a consentire al partito comunista cinese l’accesso ai dati dei cittadini statunitensi che usano il social network.

A detta dell’ex dirigente l’ingerenza del partito si farebbe sentire attraverso un comitato interno all’azienda composto di membri del PCC (il partito conta quasi 100 milioni di iscritti ed è quindi verosimile che alcuni dipendenti di ByteDance ne facciano parte), il comitato avrebbe potere di accedere ai dati e di bypassare qualsiasi sistema di sicurezza dell’app al fine di visualizzarne liberamente i contenuti e di condividerli al bisogno con i vertici di Pechino.

Yu ha inoltre affermato che DuoYin e TikTok sarebbero utilizzati dal Governo di Pechino come uno strumento di propaganda, ad esempio per contribuire a diffondere sentimenti anti-giapponesi tramite il social network.

Sebbene sembri difficile pensare che il social network orientato ai più giovani possa piegarsi efficacemente all’indottrinamento politico di Pechino, lo scandalo Cambridge Analytica ha dimostrato molto plasticamente come le persone possano essere influenzate nelle loro scelte più essenziali nella vita democratica e sociale da un social network all’apparenza innocuo.

La reazione di TikTok

I titolari del social network hanno reagito duramente alle allegazioni di Yu, definendole del tutto infondate e sottolineando il fatto che stranamente l’ex dirigente ha atteso cinque anni prima di denunciare nei propri atti giudiziari la questione, affermando che si tratta di una semplice ricerca di attenzione mediatica (è peraltro verosimile che la risposta di TikTok al Garante italiano ricalcherà quella fornita alla stampa).

La risposta dei legali di Yu non si è fatta attendere, giustificando il “tempismo” dell’ex dirigente con il fatto che lo stesso sarebbe rimasto scosso dalle falsità riportate dal CEO di TikTok durante l’audizione al Congresso USA ed avrebbe deciso così di smascherare le connessioni fra il social e la leadership cinese.

Prospettive

Sebbene le allegazioni di Yu non risultino oggi sorrette da prove, è evidente che non aiutano la già difficile posizione dell’azienda cinese sul mercato occidentale

L’India, che ha bandito l’app dal paese nel 2020, è vista come un modello ispiratore negli USA, con molti politici che vorrebbero imitarne l’esempio. Anche se non è detto che questa strada sia davvero risolutiva.

Secondo un’inchiesta di Forbes, infatti, il personale che lavora per TikTok ha ancora accesso ai dati degli indiani che avevano un account sulla piattaforma prima del ban (l’India, al tempo, era il primo mercato per numero di utenti di TikTok), potendoli sfruttare per attività di profilazione, di studio demografico, etc.

Se la condivisione dei dati con il partito comunista è un problema reale, è evidente che questa sarà condotta con molti meno scrupoli nel caso in cui l’app sia già bandita dalla nazione in cui risiedono i soggetti cui i dati si riferiscono.

Conclusioni

L’atteggiamento europeo sul punto è maggiormente neutrale, anche se è evidente che il social network cinese è sotto la lente delle autorità, al fine di assicurare il rispetto del GDPR e al fine di scongiurare l’esistenza di commistioni con il potere politico cinese.

Resta il fatto che le denunce di Yu, risalenti alla situazione esistente al 2018 e ad oggi non comprovate, non sembrano in grado di spostare eccessivamente i termini della questione, con uno scenario già oggi a tinte fosche per TikTok in USA (a meno che il Progetto Texas non sia in grado di salvarlo), e a tinte meno fosche (ma nemmeno troppo chiare) per TikTok in UE.

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