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Tre anni di GDPR: cosa abbiamo imparato e cosa ci aspetta per il prossimo futuro

Le attività necessarie alla messa in conformità alla normativa privacy sono un continuo “work in progress”, soprattutto nel periodo di digitalizzazione che ci attendiamo dopo la fine dell’emergenza da Covid-19. Zone grigie e sfide per le aziende

Pubblicato il 25 Giu 2021

Giulio Coraggio

Partner, Head of Technology Sector, DLA Piper Studio Legale

Giulia Zappaterra

Senior Lawyer, DLA Piper

privacyGDPR

Il Regolamento europeo sulla protezione dei dati personali 679/20162016 (GDPR) ha appena compiuto tre anni.

In questo periodo di tempo il GDPR è quindi cresciuto, diventando uno strumento in grado di insegnare molto ai suoi spettatori sul panorama globale. Nonostante abbia imparato a camminare da solo, però, il Gdpr non è ancora in grado di correre e, ben lungi dall’essere maggiorenne, presenta quindi ancora zone grigie in termini di applicazione.

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Cosa abbiamo imparato?

Una delle tendenze forse più interessanti riscontrata in questi tre anni è il cambiamento culturale portato da questa normativa.

In primis il GDPR ha spinto la stessa Unione Europea ad approcciarsi alla regolamentazione di alcune tematiche, soprattutto in materia di digitale, in modo molto diverso da prima. A oggi infatti la UE si sta muovendo verso l’adozione di un sistema costituito da una serie di obblighi normativi (generalmente adottati con un regolamento), sommati a una infrastruttura nazionale di enforcement forte con sanzioni potenzialmente molto alte. Se il primo esempio è stato quello del GDPR altri se ne stanno aggiungendo, basti pensare alle tematiche di cybersecurity o alla regolamentazione in materia di intelligenza artificiale.

A questo si aggiunge poi che il GDPR è stato di esempio anche per tantissime realtà straniere. Tale normativa ha infatti spinto numerosi altri stati ad adottare disposizioni se non simili quanto meno vicine alle tematiche della protezione dei dati. Pensiamo ad esempio alla ormai nota Lei Geral de Proteção de Dados (LGPD), molto simile nella sua estensione al GDPR, o al California Consumer Privacy Act o CCPA applicabile alle aziende che trattino informazioni personali di utenti residenti in California esteso a novembre 2020 mediante il California Privacy Rights Act che entrerà in vigore a gennaio 2023.

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Da ultimo il cambio culturale ha interessato anche i singoli individui, che hanno una maggiore consapevolezza della tutela dei propri dati personali, ma anche delle aziende che non vivono più il GDPR come un mero strumento di compliance ma come un vero e proprio vantaggio competitivo. Le società infatti si stanno rendendo conto che garantire un trattamento dei dati conforme alle disposizioni di legge non costituisce solo un costo ma è una vera e propria opportunità ed elemento di differenziazione commerciale e reputazionale che può essere spesa con i propri clienti/utenti.

I benefici di questi anni di GDPR sono quindi molteplici, ma non vi è dubbio che vi siano ancora aree grigie che, da un lato, non permettono alle società di agire in piena conformità con la normativa, e dall’altro, non permettono agli interessati di condividere i propri dati con le aziende avendo la certezza che gli stessi non verranno utilizzati impropriamente.

Le zone grigie del GDPR per le aziende

Come risulta da una survey sulla compliance privacy svolta dallo studio legale DLA Piper in collaborazione con l’Italian Priavcy Think Thank – IPTT e che ha coinvolto 75 tra le principali aziende operanti in Italia, non vi è dubbio che vi siano ancora diverse zone grigie in termini di applicazione del GDPR.

Ad esempio l’inquadramento del DPO – una delle grandi novità del GDPR – continua a sollevare dubbi nelle aziende. Se infatti una buona metà delle società hanno differenziato tra le funzioni di compliance aziendale riconducendole all’ufficio legale, compliance o privacy e affidando al DPO un ruolo di supervisione su tutte le attività privacy, un’altra metà inserisce il DPO all’interno dell’ufficio legale o addirittura identifica il capo di tale ufficio come DPO dell’azienda, dando spazio a quesiti sulla sua effettiva indipendenza.

Altra questione delicata riguarda la gestione dei data breach. L’Italia è uno dei paesi dell’Unione europea in cui c’è stato il numero minore di notifiche di data breach (le ultime stime del Garante per la protezione dei dati personali segnalano che, al 31 marzo 2021, sono state effettuate solo 3.873 notifiche di data breach contro un numero molto più alto negli altri stati europei). Una delle ragioni per un numero così ridotto di notifiche potrebbe essere dovuta al livello di dettaglio con cui il Garante italiano analizza le stesse. Molto spesso infatti la notifica all’autorità è seguita da una richiesta di informazioni o, addirittura, da una indagine da parte del Garante, cosicché molto aziende sembrano accettare il rischio di una eventuale contestazione per mancata notifica, piuttosto che procedere a segnalare la stessa.

Ci si pone la domanda quindi se questo sia un rischio accettabile ora che il Garante riprenderà le ispezioni invasive a cui eravamo abituati nell’epoca pre-Covid. Infatti, sulla base dei risultati del survey, solo un numero ridotto di società (26%) si affida ad una analisi caso per caso o all’assistenza di un legale esterno al fine di determinare se un data breach necessiti di essere notificato al Garante o comunicato agli interessati. Il rischio è quindi che in alcuni casi le procedure (più o meno dettagliate) rimangano puramente “formali” e non comportino un’analisi concreta delle circostanze del caso e degli obblighi che ne possono derivare ai sensi della normativa sul trattamento dei dati personali.

Altro argomento caldo degli ultimi mesi riguarda poi il trasferimento dei dati al di fuori dell’Unione europea a seguito della sentenza della Corte di Giustizia europea cosiddetta “Schrems II”. Quasi la metà delle aziende intervistate (il 44%) non ha ancora adottato una metodologia che assicuri il rispetto dei principi sanciti dalla Corte di Giustizia europea, nonostante i ripetuti richiami da parte dei Garanti europei, le prime sanzioni emesse e le indagini iniziate dallo European Data Protection Board, il comitato dei garanti privacy europei. Questo sarà decisamente uno degli argomenti su cui le aziende dovranno lavorare di più nei prossimi mesi onde evitare contestazioni e sanzioni che potrebbero anche comportare il blocco operativo dell’azienda se fosse richiesto dal Garante di cessare immediatamente il trasferimento dei dati.

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Ciò è rilevante anche con riferimento ai cookies, tra gli altri perché Max Schrems, l’attivista privacy austriaco la cui azione ha portata all’adozione della sopra richiamata sentenza, ha già inviato 500 contestazioni a società relative all’illecito trattamento dei dati personali avvenuto tramite i cookies e ha dichiarato di aver sviluppato un sistema automatizzato per generare fino a 10.000 contestazioni.

Conclusioni

Le attività necessarie alla messa in conformità alla normativa privacy sono un continuo “work in progress”, soprattutto nel periodo di digitalizzazione che ci attendiamo dopo la fine dell’emergenza da Covid-19 e le aziende devono essere in grado di rendere la compliance privacy un asset aziendale piuttosto che un costo. Non vi è dubbio che questa sia la sfida per i prossimi tre anni, ma il GDPR e le aziende che si cono conformate allo stesso hanno dato dimostrazione che tre anni sono molti e che qualsiasi strada, anche la più impervia, può essere percorsa garantendo tutela per gli interessati e operatività per le società.

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