Sempre più spesso si assiste al diffondersi di notizie di cronaca nei quali l’imprenditore viene accusato di gravi reati, con evidenti conseguenze sul core business dell’azienda del quale è rappresentante.
Può accadere, ad esempio, che il Sig. Rossi, capo dell’omonima Azienda Rossi, produttrice di biscotti per bambini, venga indagato (e magari sottoposto a misura cautelare) perché si ipotizza a suo carico il reato di cui all’art. 444 c.p. (commercio di sostanze alimentati nocive), per avere utilizzato, nella produzione dei dolciumi, sostanze cancerogene.
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Al termine del processo – ovviamente a distanza di anni dal clamore mediatico suscitato dalla chiusura delle indagini preliminari o dall’applicazione della misura cautelare – il Sig. Rossi potrà anche essere assolto ma la memoria di internet, immensa, universale, totalmente disorganizzata, densa, volatile, oltre che indubbiamente persistente, potrebbe conservare in eterno la notizia che l’Azienda Rossi è stata coinvolta in un caso nel quale veniva messa in dubbio la salubrità dei suoi prodotti.
Per l’impresa, il danno reputazionale di quella che, magari, successivamente si rivelerà essere una fake news – perché smentita dalle risultanze processuali – rischia, pertanto, di essere permanente e illimitato.
É evidente, quindi, che eventuali articoli aventi ad oggetto passate vicende giudiziarie, se immediatamente rintracciabili mediante l’utilizzo dei diversi motori di ricerca disponibili in rete, possono segnare irreversibilmente la dignità del soggetto coinvolto.
A causa della mancanza di regole chiare e precise, da anni, si sono moltiplicati – giorno dopo giorno – gli effetti nocivi per le imprese sul piano della percezione del brand anche nel mondo offline: in questo contesto è intervenuta, dal 1° gennaio 2023, la cd. “Riforma Cartabia” (dal nome dell’ex guardasigilli Marta Cartabia).
Come le aziende possono difendere la reputazione dagli effetti nocivi delle fake news
E allora come difendersi? Quali sono gli strumenti che le imprese possono utilizzare per evitare o limitare danni reputazionali sul web?
Fino a ieri, in casi come quello illustrato, le imprese di solito ricorrevano alla SEO (“Search Engine Optimization”), branca del web marketing che ricomprende una serie di tecniche e pratiche messe in atto allo scopo di aumentare la visibilità di un sito web sui motori di ricerca.
A società specializzate veniva affidato un incarico finalizzato a far sì che il sito web ufficiale dell’azienda – o, in generale, i link a notizie positive riguardanti, ad esempio, iniziative benefiche realizzate per conto dell’impresa – apparisse il più in alto possibile tra i risultati dei motori di ricerca, a scapito delle bad news riguardanti fatti aventi rilievo penale che, di conseguenza, con questa tecnica andavano a finire ‘in coda’ nelle ricerche online.
Dal 1° gennaio 2023, tuttavia, l’Italia si è finalmente dotata di una disposizione in tema di regolazione della indicizzazione dei contenuti giudiziari su internet: un punto di partenza fondamentale nell’ottica di tutelare, concretamente, la “reputazione digitale” (o web reputation) di cittadini e imprese, garantendo il diritto all’oblio, teorizzato dalla normativa europea e solo annunciato dalla Corte di legittimità nazionale.
In particolare, per gli indagati la cui posizione viene archiviata o per gli imputati assolti viene introdotto il diritto di richiedere la cancellazione del proprio nominativo dai motori di ricerca, ai sensi e nei limiti dell’articolo 17 del Regolamento del Parlamento europeo n. 679 del 27 aprile 2016 (GDPR).
Le richieste di cancellazione possono essere tanto di preclusione ‘preventiva’ alla indicizzazione, quanto di ottenimento della deindicizzazione ‘a posteriori’: la competenza, in tal senso, è della cancelleria dell’Autorità Giudiziaria che ha emesso il provvedimento, tenuta ad apporre e sottoscrivere l’annotazione prevista dalla norma di nuovo conio.
Il diritto all’oblio e il mondo delle imprese
Ad oggi, avere una buona reputazione online è fondamentale non solo per le persone fisiche, ma anche per le aziende, poiché la “reputazione digitale” incide inevitabilmente sulla relativa attività di interesse.
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Attualmente, difatti, è quasi impossibile distinguere la reputazione offline dalla web reputation, data la preponderante influenza della rete nel modellare idee, opinioni, costumi e amplificare a dismisura qualunque giudizio, positivo o, come sempre più spesso avviene, negativo.
E non importa che questo giudizio sia o meno fondato, perché la stragrande maggioranza dei fruitori di contenuti online non è in grado di effettuare alcuna seria verifica circa l’attendibilità delle notizie veicolate dalla rete (e, in primo luogo, dai social network).
La permanenza dei dati in internet, quindi, ha fatto emergere la necessità di tutelare maggiormente l’individuo, le aziende e la loro identità digitale.
Il diritto all’oblio – vera e propria ancora di salvezza per la salvaguardia dell’immagine pubblica delle imprese – si concretizza nella pretesa di un individuo di riuscire a controllare, anche a distanza di tempo, la propria storia personale, garantendo il rispetto del diritto alla propria autodeterminazione, assicurando l’eliminazione di quel che non appartiene più all’identità dell’interessato, ma, al tempo stesso, salvando ciò che risulta essere di forte interesse per la società.
Il Regolamento UE n. 2016/679, all’art. 17, rubricato “Diritto alla cancellazione (‘diritto all’oblio’)”, ha fatto da apripista, sancendo la sussistenza del diritto di ciascuno ad ottenere la cancellazione dei dati personali che lo riguardano e, di contro, l’obbligo per il titolare della conservazione dei dati di cancellarli.
In relazione alle vicende giudiziarie, il vero problema risiede nel fatto che le informazioni afferenti denunce, indagini o arresti raggiungono l’utente in tempo reale e sottopongono, sin da subito, non solo le persone fisiche, ma anche le società che queste rappresentano, ad un vero e proprio “processo mediatico”, quasi istantaneo, le cui tracce hanno una permanenza sul web pressocché infinita.
Il cd. ‘casellario di internet’, difatti, presenta un’accentuata resistenza, in grado di cristallizzare peraltro, molto spesso, le sole fasi iniziali – di solito quelle cautelari – di una determinata vicenda penale.
La potenzialità lesiva della circolazione via web di informazioni relative a ipotetiche responsabilità penali, quindi, deriva dalla micidiale combinazione fra istantaneità (del processo mediatico) e persistenza (della memoria virtuale).
È abbastanza agevole ipotizzare, dunque, l’autentico disastro che può investire un’impresa che si trova a dover affrontare una circolazione incontrollata di notizie in grado di avere un impatto devastante sulla affidabilità commerciale e sulla stessa immagine che della compagine hanno tutti gli stakeholder (a partire dai clienti/consumatori).
La Riforma Cartabia e i nuovi strumenti a tutela del brand
Da diverso tempo, quindi, si avvertiva – soprattutto nel mondo imprenditoriale – la stringente necessità di mettere il titolare dei dati personali nella condizione di esercitare la propria ‘libertà digitale’, dotandolo di strumenti finalizzati a scongiurare il rischio della creazione di una identità non corrispondente alla realtà.
Questo bisogno di cittadini ed imprese è stato recepito dal D. Lgs. n. 150/2022, con il quale è stato introdotto il nuovo articolo 64-ter tra le norme di attuazione del codice di procedura penale, rubricato “diritto all’oblio degli imputati e delle persone sottoposte alle indagini”.
La norma riconosce – per la prima volta in ambito penale – il diritto all’oblio per gli indagati in caso di provvedimento di archiviazione e per gli imputati in caso di sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere.
Più nello specifico, la disposizione in parola offre due innovativi strumenti per dare effettività al ‘diritto all’oblio’, ovvero: l’impedimento della indicizzazione del provvedimento – ex ante – e la più comune richiesta di delisting – ex post – dei dati relativi al procedimento penale cui si riferisce il provvedimento.
Ma cosa significa, in concreto?
L’impedimento della indicizzazione del provvedimento
Nel primo caso, l’interessato, destinatario di un provvedimento di archiviazione o di una sentenza assolutoria, può, chiedere ed ottenere – nel suo interesse e, dunque, anche in quello dell’azienda che rappresenta – una preclusione alla indicizzazione, ossia l’obbligo a rendere non raggiungibili dai motori di ricerca tutti gli articoli che saranno scritti da quel momento in poi.
L’istanza deve essere rivolta alla cancelleria del giudice penale che ha emesso il provvedimento che provvederà ad apporvi un’annotazione volta a precludere l’indicizzazione degli articoli riguardanti la vicenda penale, evitando, quindi, che questi appaiano nei risultati proposti dai motori di ricerca.
Si tratta di uno strumento estremamente innovativo, finalizzato ad agire in via preventiva, intervenendo anticipatamente sul posizionamento digitale del dato.
Da una prima lettura, peraltro, sembrerebbe che con questa misura a carattere inibitorio sia interdetto al destinatario della misura qualsiasi potere valutativo.
Il delisting – ex post – dei dati relativi al procedimento
Il secondo strumento previsto dalla nuova norma, invece, riguarda la più classica fattispecie di intervento successivo al trattamento dei dati con la quale il soggetto può chiedere la deindicizzazione dai portali online dei risultati della ricerca già reperibili su internet, all’esito di un giudizio conclusosi in modo a lui favorevole.
La struttura di questo secondo istituto, invece, parrebbe lasciare spazio a scelte discrezionali dei destinatari del ‘titolo’.
Ad ogni modo, questo strumento, azionabile ‘a posteriori’ richiedendo sempre alla cancelleria del giudice penale l’apposizione di una particolare annotazione, si traduce, di fatto, in un titolo rafforzativo che dovrebbe facilitare l’accoglimento della richiesta da parte del motore di ricerca.
In conclusione, dunque, quella realizzata con la Riforma Cartabia è certamente un’operazione importante dal punto di vista dell’azionabilità, in concreto, del diritto all’oblio, anche e soprattutto a vantaggio delle imprese e della loro reputazione in rete.