Come contemperare, da parte del datore di lavoro, la profilassi da attuarsi in ambito aziendale in merito: alla tutela delle proprie esigenze organizzative e produttive dell’impresa, al controllo della sicurezza sul luogo di lavoro, alla tutela del patrimonio aziendale, con i diritti di riservatezza del prestatore di lavoro subordinato? Diritti peraltro sanciti e salvaguardati dalla disciplina sulla privacy?
L’aumento delle installazioni d’impianti di video sorveglianza all’interno dei locali aziendali
Com’è noto negli ultimi anni si è assistito a una vera e propria escalation, da parte degli imprenditori, volta a un progressivo incremento delle installazioni d’impianti di video sorveglianza all’interno dei locali aziendali. Tali attività di natura tecnologica – precipuamente dedicate al controllo della sicurezza sul luogo di lavoro, oltre alla tutela del patrimonio aziendale – vengono oggi giorno sempre più favorite anche dall’avvento delle innovative tecnologie sorte in virtù dell’avvento dell’intelligenza artificiale. Invero, le informazioni audio/video recepite dalle telecamere, grazie all’intelligenza artificiale sono inizialmente archiviate e, in un momento successivo, analizzate in tempo reale da sistemi automatizzati. Si parla in fatti di sistemi governati dall’intelligenza artificiale basati su reti neurali che convogliano le informazioni ricevute in potenti computer che analizzano minuziosamente tutti i dati ricevuti.
La narrata attività, sebbene possa apparire come del tutto ovvia, in realtà diviene essenziale quando le immagini immagazzinate e registrate (e i suoni) non sono del tutto distinguibili dal contesto ambientale a loro circostante. In queste circostanze l’intelligenza artificiale diviene realmente insostituibile quando essa diviene in grado di riconoscere immagini, voci riprese dalle telecamere, distinguendo in tal modo un essere umano da un animale o riconoscere un volto tra una folla di sconosciuti sancendo l’appartenenza di quell’individuo un determinato gender, sino a rilevare impercettibili dettagli come il colore dei cappelli o addirittura le emozioni di una persona che vengono congelate al momento della registrazione dell’immagine. Le telecamere che adottano l’intelligenza artificiale sono così in grado di valutare e monitorare l’espressione del viso di un soggetto anche quando costui interagisca con i suoi simili. Ciò non è di poco rilievo quando l’analisi di una data immagine -o di un’intera registrazione relativa a un dato avvenimento – è in grado di dimostrare se siamo alla presenza di un atteggiamento minaccioso ovvero improntato alla tranquillità.
Va da sé, che le perplessità di natura giuridica sorgano spontanee quando si è alla presenza di tecnologie sempre più sofisticate e potenzialmente invasive della sfera di riservatezza altrui. Tale suesposta considerazione diviene quindi pregnante se è formulata nei confronti di un ambiente lavorativo.
Tecnologie e controllo: le responsabilità del datore di lavoro
Peraltro, ed è in questa sede precipuo rilevarlo il datore di lavoro ex art. 2087 del codice civile è: “…è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
Pertanto, ne consegue che un uso indiscriminato e vessante di sistemi di videosorveglianza potrebbe addirittura sfociare in atteggiamenti mobbizzanti o lesivi della salute mentale e quindi psicologica del lavoratore come questa massima giurisprudenziale sembra suggerire: “L’art. 2087 c.c. impone, per la sua peculiare natura, in capo a ciascun datore di lavoro, l’onere di adottare misure di prudenza e diligenza, nel rispetto delle norme tecniche e di esperienza, da cui consegue la responsabilità del datore di lavoro non solo allorquando la lesione del bene salute dipenda dalla violazione di obblighi imposti da specifiche norme di legge, ma anche allorquando detti obblighi siano suggeriti da conoscenze sperimentali o tecniche. Pertanto, costituendo quella di cui all’art. 2087 c.c. una fattispecie di responsabilità soggettiva, incombe sul lavoratore che agisce in giudizio l’onere di provare l’esistenza del danno, la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso di causalità tra evento e danno e, solo qualora il lavoratore abbia fornito prova di ciò, ne deriva l’onere del datore di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie a impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non sia ricollegabile all’inosservanza di tali obblighi”. (Cassazione civile, Sez. lav., 25 gennaio 2021, n. 1509). Ritornando quindi al quesito posto in esordio a questo scritto come può il datore di lavoro salvaguardare legittimamente le proprie esigenze volte alla salvaguardia del patrimonio e funzionalità dell’azienda contemperandole ai diritti del lavoratore?
Il contesto normativo della videosorveglianza in azienda
La legge ci dice che le telecamere possono essere installate dal datore sul posto di lavoro solo in determinate condizioni così com’è invero previsto dall’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori (Legge 300 del 1970), riformulato dal Decreto Legislativo n. 151 del 2015 (in virtù delle deleghe insite nel Jobs Act) e integrato il seguente anno dal Decreto Legislativo n. 185/2016.
L’articolo 4 della legge nr. 300 del 1970, infatti, così recita: “Gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e possono essere installati previo accordo collettivo stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria o dalle rappresentanze sindacali aziendali. In alternativa, nel caso di imprese con unità produttive ubicate in diverse province della stessa regione ovvero in più regioni, tale accordo può essere stipulato dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. In mancanza di accordo, gli impianti e gli strumenti di cui al primo periodo possono essere installati previa autorizzazione delle sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro o, in alternativa, nel caso di imprese con unità produttive dislocate negli ambiti di competenza di più sedi territoriali, della sede centrale dell’Ispettorato nazionale del lavoro. I provvedimenti di cui al terzo periodo sono definitivi”.
Ne consegue che la videosorveglianza da attuarsi sul luogo di lavoro è consentita in determinate circostanze che siano volte principalmente a salvaguardare le esigenze organizzative e produttive dell’impresa come monitorare un determinato strumento meccanico per costatare se esso espleti le sue funzioni come da manuale tecnico. Ne consegue il seguente principio ormai riconosciuto in ossequio all’’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori che sancisce il divieto generale del controllo a distanza dei lavoratori durante l’espletamento delle loro funzioni e mansioni.
In quali casi l’imprenditore conserva la facoltà di installare impianti audiovisivi
Tuttavia, e si ribadisce tale significativo concetto, l’imprenditore conserva la facoltà di installare impianti audiovisivi: per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza sul lavoro, nonché la tutela del patrimonio aziendale. Come lumeggiante esempio, circa il principio giuridico appena riportato, si consideri la necessità dell’imprenditore di garantire tutela del patrimonio aziendale di fronte a danneggiamenti, o esigenze produttive quando vi sono macchinari che necessitano di un monitoraggio costante, e infine a tutelare il patrimonio aziendale in caso manomissioni o furti da parte dei lavoratori. Sono in ogni caso vietate le riprese ai fini di mero controllo dell’adempimento dell’attività lavorativa.
L’equilibrio tra esigenze aziendali e diritti dei lavoratori
Tuttavia, occorre anche ricordare che l’imprenditore, quando costui installi un sistema di videosorveglianza, dovrà altresì rispettare la privacy dei propri dipendenti, escludendo e sistemi di videosorveglianza dai luoghi non connessi all’attività lavorativa. Si pensi a tal proposito ai bagni, o spogliatoi, palestre o anche i luoghi destinati alle riunione dei lavoratori (tali luoghi invero non sono, infatti, luoghi di produzione aziendale). Circa poi i richiamati spogliatoi, installare una telecamera non è del tutto considerata inammissibile se, in tali ambiti, sono occorse azioni lesive come danni o ammanchi al patrimonio aziendale evitando comunque che le telecamere riprendano direttamente le persone nell’atto di denudarsi ecc.
Dal punto di vista del Diritto penale, e in ossequio al sopra già dettagliato art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, la videosorveglianza per il controllo a distanza indiscriminato delle prestazioni dei lavoratori è reato poiché contrasta e collide con la dignità e della riservatezza dei lavoratori. Tuttavia, si è anche precisato che l’istallazione di telecamere può essere attuata al fine di condurre un controllo preventivo finalizzato a evitare condotte illecite ovvero di sicurezza si pensi ai controlli attuati nelle banche contro eventuali rapine.
Il ruolo delle rappresentanze sindacali nel controllo a distanza
Condicio sine qua non all’installazione di sistemi di controllo a distanza è consentita previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali o l’Ispettorato del lavoro e mettendo a conoscenza i lavoratori di tale controllo. Una particolarità della materia risiede nella necessità di fornire ai lavoratori preposti un’informativa minima collocando un apposito cartello di segnalazione intitolato: “Area videosorvegliata” da apporre in una posizione chiaramente visibile agli interessati. Per quanto invece concerne la videosorveglianza e privacy, l’utilizzo dei dati individuali comunque è sempre sottoposto alla disciplina sulla privacy.
Sono in ogni caso vietate le riprese ai fini di mero controllo dell’adempimento dell’attività lavorativa salvo che il datore di lavoro non espleti le riprese per accertare comportamenti illeciti dei dipendenti, e si parla in questo caso di controlli difensivi volti alla salvaguardia del patrimonio e dell’immagine aziendale. Va da se, che le prove acquisite tramite immagini (e si pensi a quanto sopra accennato circa l’utilizzo di sistemi sofisticati governati dall’intelligenza artificiale) divengono così usufruibili in un eventuale processo penale.
La valenza di altri tipi di controlli che il datore di lavoro può attuare in difesa della propria azienda
Similarmente argomentando circa l’uso lecito di apparati di videosorveglianza si può estendere l’argomento trattato in quest’articolo anche alla valenza di altri tipi di controlli che il datore di lavoro può attuare in difesa della propria azienda e ciò con particolare riferimento all’impego di investigatori privati e delle video riprese da costoro effettuate. Vale la pena rilevare che la Corte di Cassazione, con l’ordinanza 24 agosto 2022, n. 25287 ha precisato che gli articoli 2 e 3 della L. n. 300 del 1970, articoli volti a tutelare il patrimonio aziendale (articolo 2) e di vigilanza dell’attività lavorativa (articolo 3) non precludono il potere dell’imprenditore di ricorrere alla collaborazione di soggetti esterni all’organizzazione aziendale (come, nella specie, un’agenzia investigativa) per vigilare sull’operato dei suoi dipendenti. Tuttavia questo controllo non può riguardare, in nessun caso, né l’adempimento, né l’inadempimento dell’obbligazione contrattuale del lavoratore, essendo l’inadempimento stesso riconducibile, come l’adempimento, all’attività lavorativa, che è sottratta a tale vigilanza.
Il controllo esterno, quindi, deve limitarsi agli atti illeciti del lavoratore non riconducibili quindi al mero inadempimento dell’obbligazione lavorativa.
La possibilità, da parte del datore di lavoro, di far pedinare un proprio dipendente
Ancora e sul medesimo tema appena esposto, con l’ordinanza n. 11697/2020, la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione si è pronunciata sulla possibilità, da parte del datore di lavoro, di far pedinare un proprio dipendente mediante l’ausilio di un investigatore privato, al fine di appurare se tale dipendente fosse realmente malato. Dalla risultanze delle investigazioni espletate era, infatti, stato accertato, nel suesposto caso, che il dipendente aveva simulato il proprio stato di infermità. In virtù delle indagini investigative si era in seguito originato il licenziamento per giusta causa del dipendente, il quale aveva comunque impugnato il licenziamento, perdendo tuttavia la causa sia in primo che in secondo grado. Giunto infine il caso al vaglio della Cassazione civile, ebbene i giudici di legittimità confermavano le sentenze dei giudici di merito. La Cassazione civile, nel riportato caso, considerava che era…“legittima l’attività investigativa svolta dal datore di lavoro, dalla quale era emerso che il dipendente, il quale aveva lamentato di essersi procurato un trauma ed una lesione lacero contusa nell’allontanarsi, a bordo del proprio scooter, dal luogo di lavoro, si era, in realtà, dedicato ad attività fisiche, pedalando per ore e camminando per il centro cittadino”.
In particolare, la Corte di Cassazione dava il proprio assenso alla legittimità dei controlli investigativi, giacché, nel caso de quo, si trattava di un controllo datoriale di verifica e controllo di un comportamento extra lavorativo illecito, e non, invece, di un controllo circa l’esecuzione della prestazione lavorativa, ai sensi degli artt. 2, 3 e 4 dello Statuto dei Lavoratori, L. n. 300/1970, in relazione a cui disposto normativo la costante giurisprudenza di legittimità ha sostenuto che è “legittimo servirsi delle agenzie investigative per verificare l’esatto adempimento delle obbligazioni in capo al dipendente con riguardo ai comportamenti tenuti dal medesimo al di fuori dell’ambito lavorativo disciplinarmente rilevanti” (cfr. ex multis Cass. Lav., n. 12810/2017). Sulla base di quanto già in precedenza disposto dalla stessa Cassazione, dunque, in casi come quelli riportati, in cui il datore di lavoro abbia motivo di pensare che il mancato svolgimento dell’attività lavorativa sia riconducibile alla perpetrazione di un illecito, anche il solo sospetto in tal senso giustifica l’espletamento di un controllo attraverso il ricorso ad un investigatore privato, non rilevando, peraltro, il fatto che non si tratti di un’assenza per malattia, bensì di un infortunio sul lavoro, in relazione a cui non è richiesta la reperibilità e non è esperibile una visita fiscale.
Telecamere non autorizzate, se non ci sono dipendenti non c’è reato
Ultimamente, sempre la Corte di Cassazione penale, circa l’istallazione di video telecamere, ha sancito che non consegue alcuna condanna penale per l’installazione non autorizzata di un impianto di videosorveglianza all’interno della impresa – nel caso un bar – se non viene anche provato che vi lavorano dei dipendenti e che le telecamere sono idonee a un penetrante controllo dell’attività lavorativa. Deve essere rilevato che l’azione è scriminata anche quando le telecamere sono nascoste per consentire l’accertamento di “gravi violazioni”.
La Cassazione penale con la sentenza nr. 46188 del 2024, accoglie il ricorso di una piccola esercente condannata dal Tribunale di Messina alla pena di tremila euro di ammenda. Nel ricorso la ricorrente aveva lamentato che la decisione mancava di due indicazioni fondamentali, e cioè: se l’impianto era preposto alla registrazione e se l’imputata fosse datrice di lavoro di qualcuno. Ebbene, deduceva, l’impianto era a circuito chiuso e non implicava alcuna registrazione mentre l’azienda non aveva dipendenti. La Terza sezione penale ricorda che la presenza di lavoratori nel luogo ripreso dagli impianti di videosorveglianza “è requisito imprescindibile per la configurabilità del reato”.
Il reato, prosegue, in conformità a quanto previsto dall’articolo 15 Dlgs 10 agosto 2018, n. 101, che costituisce la disposizione incriminatrice, è integrato dalla violazione dell’articolo 4, comma 1, legge 20 maggio 1970 n. 300, previsione a sua volta diretta a disciplinare l’uso, da parte del datore di lavoro, degli impianti audiovisivi e degli altri strumenti «dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori». Mentre, continua la sentenza, non è configurabile la violazione (di cui agli artt. 4 e 38 legge n. 300 del 1970 – tuttora penalmente sanzionata in forza dell’art. 171 Dlgs n. 196 del 2003, come modificato dalla legge n. 101 del 2018) “quando l’impianto audiovisivo o di controllo a distanza, sebbene installato sul luogo di lavoro in difetto di accordo con le rappresentanze sindacali legittimate o di autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro, sia strettamente funzionale alla tutela del patrimonio aziendale, sempre che il suo utilizzo non implichi un significativo controllo sull’ordinario svolgimento dell’attività lavorativa dei dipendenti o resti necessariamente riservato per consentire l’accertamento di gravi condotte illecite degli stessi”.
La Cassazione censurando la sentenza impugnata, osserva, che essa è lacunosa considerando che il Tribunale di merito si è limitato a dare atto che nel bar erano stati installati un monitor e cinque telecamere in difetto di espressa autorizzazione, “senza però precisare né se nell’esercizio commerciale gestito dall’imputata prestassero servizio dei lavoratori subordinati di questa, né, in ogni caso, se l’impianto di videosorveglianza implicasse un significativo controllo sull’ordinario svolgimento dell’attività lavorativa dei dipendenti e non vi fosse la necessità di mantenerlo “riservato” per consentire l’accertamento di gravi condotte illecite degli stessi” (Cassazione penale, sentenza nr.46188/2024).
Ancora e sul medesimo argomento, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 45198 del 26 ottobre 2016, è tornata a dissertare circa il diritto del datore di lavoro di controllare l’operato dei propri dipendenti mediante l’installazione di telecamere. In particolare, se la telecamera è installata per motivi di sicurezza e senza nemmeno accertare il suo funzionamento. Nel tale riportato caso il lavoratore aveva ugualmente diritto a far valere le proprie ragione innanzi al giudice?
Nel caso esaminato dalla Cassazione, si trattava di due amministratori di un night club, i quali erano stati condannati, in primo grado, per il reato di cui agli artt. 4, comma 2 e 3, e 38 della legge n. 300/1970 (Statuto dei lavoratori) e di cui all’art. 114 del D. lgs. n. 196/2003 (Codice della privacy), per avere “installato e posto in funzione nei locali di tale club impianti ed apparecchiature audiovisive dalle quali era possibile controllare a distanza l’attività dei lavoratori dipendenti, in assenza di accordo con le rappresentanze sindacali e con la commissione interna e senza osservare le modalità indicate dalla locale Direzione Territoriale del lavoro”. In tal evenienza, la Cassazione penale ha confermato la condanna carico dei due amministratori.