L'app cinese

Quant’è bella WeChat, che ci sorveglia tuttavia

Il potere di sorveglianza e controllo si incarna sempre più nell’app WeChat, che comincia a oscurare persino TikTok. Vediamo l’ascesa e contraddizioni della superapp social dominante in Cina, potentissimo e affidabile strumento di sorveglianza della popolazione all’interno del territorio nazionale e all’estero

Pubblicato il 10 Dic 2020

Barbara Calderini

Legal Specialist - Data Protection Officer

wechat

WeChat, del colosso cinese Tencent Holdings, è presente su quasi ogni cellulare cinese ed è diventata indispensabile tanto per le istanze di controllo, censura e sorveglianza del Governo di Xi quanto per i cinesi che risiedono all’interno e all’esterno della Cina.

Non solo, infatti, è l’applicazione dominante in Cina e la quinta app social più utilizzata al mondo; ma è anche un potentissimo strumento di sorveglianza della popolazione e in generale strumento con cui il potere dello Stato si può meglio esercitare.

Un ruolo ambivalente con caratteristiche senza uguali al mondo.

Cos’è WeChat

Da noi è quasi sconosciuta, ma l’app WeChat è il solo modo di comunicare in digitale in Cina, dove non funziona Google o Facebook.

E non è solo un’app di messaggistica, ma ingloba anche i pagamenti elettronici per tanti servizi online e del mondo fisico, negozi, taxi eccetera.

Pagare con WeChat

Ma bisogna avere un conto bancario in Cina per pagare con WeChat. Esercenti, taxi eccetera espongono un codice QrCode ad hoc e basta scansionarlo con l’app per pagare, con il borsellino di WeChat.

La Cina così ha fatto un salto verso pagamenti mobili che non richiedono l’uso di carte di credito. WeChat non è solo una super app ma, grazie al proprio borsellino, assurge a ruolo sistema finanziario parallelo rispetto a quello statale. Un fenomeno che è estremizzato con Ant di Alibaba e comincia a preoccupare anche le autorità cinesi, preoccupate di perdere potere e controllo sulle attività economiche dei cittadini a favore di colossi privati.

WeChat Pay: How it works in China?

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WeChat e il potere di Pechino

Però WeChat allo stato, come si diceva, è anche strumento di controllo sociale utile per Pechino.

Tutte le informazioni passano infatti al vaglio del server gestito dal colosso tecnologico cinese Tencent Holdings, una delle società più preziose al mondo, con un valore di oltre 500 miliardi di dollari a metà maggio 2020, dove – “sotto l’egida” di specifici hashtag per parole chiave contenute nella lista nera di Pechino – si stabilisce il successo o il fallimento, lato client e lato server, dell’inoltro di un contenuto chat one-to-one o one -to-many.

Il livello di sorveglianza è tale che anche il consumo di elettricità derivante dalle connessioni digitali è monitorato da appositi algoritmi che studiano il traffico di rete dell’app.

Wechat è insomma uno dei tanti tasselli del sistema digitale di controllo sociale messo in piedi da Pechino, con effetti calamitanti dentro e fuori dal territorio cinese. Non a caso, sull’app pesa uno dei due ordini esecutivi firmati dal presidente Usa Trump (l’altro è per TikTok) volti a vietare alle società americane qualunque tipo di interazione economica con Tencent e a ottenere il blocco immediato dei download dagli app store di Google e Apple.

Esaminiamo allora lo scenario entro il quale “superapp” come WeChat smettono di essere “semplici” strumenti di comunicazione e assumono un ruolo preponderante tra gli strumenti di pianificazione strategica coordinata e di lungo periodo della Cina per anticipare e governare i cambiamenti.

Il Piano Clean Network e lo stop al ban di WeChat

Dopo l’ingresso di Brasile, Ecuador e Repubblica dominicana, oggi sono 53 i Paesi “puliti” e 180 le aziende di comunicazioni “pulite” parte dell’iniziativa Clean Network, il progetto dell’amministrazione statunitense lanciato ad agosto dal segretario di Stato americano Mike Pompeo per proteggere le reti 5G e la sicurezza dei dati dall’ascesa dei fornitori “insidiosi”, in modo particolare cinesi.

Una strategia che, rifacendosi all’International Emergency Economic Powers Act, la legge sul commercio internazionale del 1977 voluta da Jimmy Carter, intende porre un freno alle mire di sorveglianza sostenute dal Presidente Xi.

E nel contesto del Piano Clean Network che sempre il 06 agosto Trump ha firmato i due ordini esecutivi n.13942 per TikTok e n.3943 per WeChat (dopo quello del maggio 2019 n.3873) che intendono vietare alle società americane qualunque tipo di interazione economica con ByteDance e Tencent, richiedendo altresì il blocco immediato dei download delle due applicazioni dagli app store di Google e Apple.

Tanto riporta il comunicato stampa del Dipartimento del Commercio statunitense, che ha annunciato i divieti a riscontro delle ordinanze del presidente Trump: “il Partito Comunista Cinese (PCC) ha i mezzi e le motivazioni per utilizzare queste app e minacciare sicurezza nazionale, politica estera ed economia degli Stati Uniti. I divieti combinati proteggono gli utenti, eliminando l’accesso a queste applicazioni e riducendo in modo significativo la loro funzionalità”.

“Le azioni di oggi dimostrano ancora una volta che il presidente Trump farà tutto ciò che è in suo potere per garantire la nostra sicurezza nazionale e proteggere gli americani dalle minacce del Partito comunista cinese”, evidenzia anche il segretario del Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti Wilbur Ross che continua: “Sotto la direzione del Presidente, abbiamo intrapreso azioni significative per combattere la raccolta dannosa dei dati personali dei cittadini americani da parte della Cina, promuovendo i nostri valori nazionali, le norme democratiche basate su regole e l’applicazione aggressiva delle leggi e dei regolamenti statunitensi”.

Tuttavia, il ban di WeChat, almeno per il momento, sembrerebbe scongiurato, dopo che ad ottobre la Corte d’Appello americana del Nono circuito (San Francisco), per il tramite del giudice federale Laurel Beeler, ha respinto la richiesta del dipartimento di Giustizia Usa volta ad ottenere l’autorizzazione per l’immediato divieto diretto a Apple e Google di ospitare nei loro store l’app di Tencent.

Ma i cinesi d’America protestano

Ad aver citato in giudizio il governo Trump (Numero del caso:3: 20-cv-05910) per violazione dei diritti sanciti nel Primo Emendamento non è stata direttamente WeChat o Tencent Holdings, bensì la WeChat Users Alliance o USWUA.

Ovvero un’associazione no profit con sede nel New Jersey, fondata dagli avvocati Ying Cao, Clay Zhu, Gang Yuan, Shengyang Wu e Angus Ni e gestita da un gruppo di utenti sino-americani di WeChat che risiedono negli Stati Uniti e fanno largo uso dell’applicazione, essenziale, sia per motivi personali, affettivi che lavorativi.

“Comprendiamo che WeChat è un’app con i suoi problemi. Tuttavia, dovrebbe essere una nostra scelta decidere se usarla o meno. Il signor Presidente non ha il diritto di fare una scelta del genere per noi”, ha detto l’alleanza in una lettera aperta pubblicata l’8 agosto.

WeChat “è troppo importante per la comunità sino-americana”, afferma sulle pagine web del Mit, Steven Chen, un blogger molto polare di ispirazione liberale “Ma ancora di più è necessario”, aggiunge, “dobbiamo effettivamente usarlo per comunicare con i nostri genitori … le persone anziane in Cina fondamentalmente hanno solo WeChat“.

Quasi venti milioni di persone negli Stati Uniti usano WeChat ogni giorno. Tra questi anche aziende, giornalisti, ricercatori scientifici, sociologi ed esperti di politica internazionale.

E certo non è difficile immaginare come WeChat, essendo un’app all-in-one, sia effettivamente impossibile da sostituire per i Cinesi d’oltremare: non solo perché la maggior parte delle altre app di messaggistica tra cui WhatsApp e Line ricadrebbero nella scure affilata del Great Firewall, ma anche perché gli smartphone a marchio cinese come Huawei essendo meno costosi sono anche più popolari per il cinese medio rispetto alla Apple e al suo iPhone.

Dunque, milioni, se non forse miliardi, di connessioni, a rischio black out a cui corrisponderebbe un danno non solo economico, innegabile e difficile da quantificare.

Frattanto – quando anche in Pennsylvania il giudice federale Wendy Beetlestone blocca il ban di TikTok nel contesto di una causa promossa dall’attore Douglas Marland, la blogger Cosette Rinab e il musicista Alec Chambers, e altre cause sono pendenti in altri distretti federali – nel corso di una recente riunione del WTO (World Trade Organization), l’organizzazione che regola gli accordi commerciali fra le nazioni del mondo, gli esponenti della Cina non mancano di denunciare come le strategie intraprese dal governo USA violerebbero le stesse leggi del WTO: “Sono misure chiaramente incoerenti con le regole del WTO, limitano i servizi commerciali transfrontalieri e violano i principi e gli obiettivi di base del sistema commerciale multilaterale”.

Uno dei lasciti del Presidente uscente al neoeletto Joe Biden.

Una cosa intanto è certa, il potere inteso come controllo che sempre di più sembra connotare l’applicazione WeChat, tanto da mettere in ombra persino TikTok, è travolgente.

WeChat, la Gen Z e la censura

“La censura di WeChat è così ovvia che le persone non ne sono più sensibili” sottolinea, su Bloomberg Businessweek, Zhou Fengsuo, un attivista statunitense ed ex leader studentesco di Tiananmen.

Ed è piuttosto facile intuire come la sorveglianza by design del governo cinese si manifesti spesso proprio nell’autocensura by default tra gli utenti di WeChat a livello globale.

Il disturbo dell’informazione ne trae nuova linfa così come la propaganda politica; il problema della disinformazione ne esce ulteriormente esacerbato. La tutela dei diritti fondamentali, dalla libertà di autodeterminazione a quello di espressione e protezione dei dati, del tutto mortificata, vessata.

WeChat è divenuta infatti irrinunciabile non solo per i membri della diaspora cinese: un modo di vivere “predefinito” ma anche “predeterminato” stante che in Cina internet è piuttosto sinonimo di intranet.

Perché WeChat è irrinunciabile in Cina e non solo

Dai pagamenti tramite smartphone – per cui praticamente ogni azienda e marchio in Cina, finanche i musicisti e artisti di strada, sono collegati all’ecosistema che ruota attorno a Tencent e Alibaba (Tencent e l’affiliata finanziaria di Alibaba, Ant Financial, le due società Internet cinesi che gestiscono rispettivamente WeChat e Alipay), peraltro con forti mire di espansione oltre la Cina – alla condivisione di informazioni a titolo personale, affettivo, di stampa e professionali, fino alla funzione, tipica di WeChat, di aggregatore di altre app in grado di abilitare, attraverso la scansione di un codice QR, tutta una serie di operazioni direttamente dallo smartphone.

Uno scacchiere variopinto e in fermento dove blogger e influencer, noti come wang hong (abbreviazione di 网络红人 wangluo-rete e hongren-rosso), rappresentano la nuova frontiera della digital economy e, calamitando l’attenzione della Generazione Z (la prima generazione cinese a nascere in un’era completamente digitale), si rivelano in grado di stabilire il successo di marchi, prodotti, stili di vita e luoghi di ritrovo.

Un business estremamente fecondo, destinato ad aumentare ancora nei prossimi anni.

“La Gen Z cinese sta emergendo come un segmento di consumatori decisamente nuovo su cui i marchi vogliono saperne di più per poterci investire”, ha affermato Veronica Wang, Associate Partner, OC&C Strategy Consultants. “In effetti, la Cina rappresenta la quota più alta della spesa familiare della Gen Z con il 13% rispetto al solo 3% del Regno Unito e al 4% degli Stati Uniti. Ulteriori dati rivelano che la generazione Z cinese sta spendendo di più nelle categorie di tecnologia (ad esempio telefoni cellulari e abbonamenti ai media) e abbigliamento rispetto alle loro controparti occidentali. Queste statistiche sono sufficienti per spingere i marchi a ripensare alla loro strategia aziendale se vogliono capitalizzare il mercato in forte espansione della Cina “.

“Passando dagli investimenti ai consumi, la Cina si è classificata al livello più basso di risparmi accumulati tra gli altri paesi intervistati (72% rispetto all’89% della Francia), rivelando che la generazione Z cinese è più disposta a spendere e meno disposta ad accantonare. Questa tendenza è in gran parte alimentata dal maggior senso di sicurezza della Gen Z cinese rispetto alle controparti occidentali, con il 41% degli intervistati che concorda sul fatto di essere ottimista sul proprio futuro rispetto al solo 19% dell’Italia”.

Chat, streaming, stickers, pagamenti, giochi…

E dunque chat, stream in cui curiosare sugli aggiornamenti di stato dei contatti, gruppi, Shake e People Nearby per socializzare, funzionalità di ricerca, stickers, condivisione di file e altro, trasferimenti di denaro, pagamenti mobile, videochiamate, giochi, biglietti di treni ed aerei, noleggio biciclette, servizio taxi Didi, shopping on line; biglietti del cinema, consegna pasti a domicilio, prenotazione hotel, marketplace, integrazione con applicazioni di domotica, avvisi emergenziali istituzionali.

E non ultimo app come strumento per scambi di informazione tra agenzie militari di intelligence e ambasciate cinesi nel mondo.

Il tutto, ovviamente, in una dimensione di rigorosa sorveglianza e propaganda dirette dal Partito Comunista Cinese.

Le ombre di WeChat

Questa la cornice di un quadro distopico e piuttosto preoccupante tanto per il popolo cinese, peraltro avviato verso il pervasivo sistema di credito sociale, quanto per il mercato globale in cui applicazioni come WeChat si fanno sempre più strada, consentendo al Governo cinese l’estensione dei propri dataset con ciò convalidando la scarsa efficacia degli attuali vincoli normativi degli “Stati di diritto” riguardo allo scollamento tra legge e territorialità, tra spazio fisico e spazio digitale.

Non ultimo, rispetto alle altre app a disposizione di Pechino, WeChat rappresenta senza dubbio, per la natura stessa dei suoi numerosi servizi, quella con il maggior grado di attendibilità dell’autenticità delle identità personali dei titolari di account.

A tal proposito importante è anche il ruolo rivestito dall’applicazione per gli uiguri, la comunità musulmana che abita nel nordovest della Cina, pesantemente vessate dalle misure di controllo draconiano del Presidente Xi; eppure, al centro delle loro connessioni “con i propri cari in esilio”.

Uiguri, ma anche altre minoranze etniche come kazaki, kirghisi e hui, che vivono all’estero sarebbero presi di mira con continue intimidazioni veicolate attraverso la stessa app che funge per gli stessi da passaggio obbligato per il mantenimento dei contatti affettivi e parentali.

Il New York Times riporta il racconto dettagliato di Joanne Li, cinese temporaneamente a Toronto, che avendo ri-condiviso su WeChat, mentre era ancora in Canada, un articolo pubblicato da Radio Free Asia, una piattaforma informativa con gli uffici a Washington, sul deterioramento della diplomazia sino-canadese (un pezzo che sarebbe stato prontamente censurato), una volta tornata in Cina, ha vissuto direttamente sulla propria pelle l’esperienza della sorveglianza di Pechino. “Quattro agenti di polizia si sono presentati nell’appartamento della sua famiglia. Portavano pistole e scudi antisommossa. Hanno portato la signora Li, insieme al suo telefono e al suo computer, alla stazione di polizia locale, ammanettato le gambe a un dispositivo di contenimento noto come sedia della tigre per poi interrogarla. Hanno chiesto ripetutamente dell’articolo e dei suoi contatti WeChat all’estero prima di chiuderla in una cella sbarrata per la notte. Due volte è stata rilasciata, solo per essere trascinata di nuovo alla stazione per nuove sessioni di interrogatorio. Alla fine, la polizia l’ha costretta a scrivere una confessione e un voto di sostegno alla Cina, quindi a lasciarla andare”.

L’episodio è esemplare del fatto per cui WeChat (微信, Weixin in cinese) gestisca e preveda sistemi di censura che, sebbene con sfumature diverse, valgono sia per gli utenti cinesi che si registrano a Weixin all’interno del territorio cinese sia per gli stranieri che accedono a WeChat al di fuori dello Stato. Anche i post degli utenti registrati all’estero vengono sistematicamente sorvegliati, scansionati i termini politicamente sensibili, sospesi o oscurati gli account all’occorrenza e quindi utilizzati i set di dati analizzati per addestrare il sistema di censura politica di WeChat.

WeChat non utilizza la crittografia end-to-end (E2E) bensì quella da client a server (C2S) per proteggere la trasmissione dei messaggi di chat e dunque chiunque abbia l’accesso fisico o digitale al server di messaggistica centrale ha accesso ai messaggi sulla rete. Tencent, posizionandosi tra il mittente e destinatario, costituisce dunque l’ulteriore anello debole della catena di trasmissione a favore della censura, peraltro in perfetta coerenza con i vincoli governativi a cui è sottoposto e alle direttive di pubblica sicurezza.

E certo l’esperienza della signora Li rispecchia quella di altri utenti WeChat negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Francia, Spagna, Australia, Germania e Malesia, esperienze descritte da VICE News per chi volesse approfondire.

Conclusioni

La Fondazione Leonardo, nella sua pagina web riporta una bella e interessante intervista di Simone Pieranni, autore di “Red Mirror, il nostro futuro si scrive in Cina” e fondatore dell’agenzia editoriale China Files che suscita importanti riflessioni su come in molti ambiti della frontiera dell’innovazione tecnologica, dall’IA alle smart cities, passando per le applicazioni social come WeChat, la Cina abbia ormai assunto una posizione sfidante e per ora vincente rispetto alla supremazia tecnologica occidentale. Una competizione basata su un ecosistema tecnologico “con caratteristiche cinesi di risonanza storica” e approcci top-down che ne hanno favorito l’iniziale successo e il probabile prossimo consolidamento.

Nella hall dell’Institute of Automation, il campus di laboratori nazionali dell’Accademia cinese delle scienze, un poster gigante del Presidente Xi Jinping in abito nero, convalida quanto l’obiettivo del potenziamento del sistema digitale di controllo sociale – pattugliato da algoritmi precognitivi addestrati al riconoscimento dell’iride, alla sintesi vocale basata su cloud e al controllo dei potenziali dissidenti in tempo reale – rappresenti per la nazione la priorità assoluta.

In tutto questo applicazioni omnicomprensive “di fatto insostituibili” come WeChat assumono, nell’alveo del loro terreno d’elezione – lo spazio digitale, un ruolo strategico sinergico cruciale con effetti calamitanti dentro e fuori dal territorio cinese.

Un universo non solo di sorveglianza ferrea ma anche “geomediatico” ben sedimentato: le prime interferenze governative riscontrate su Wechat risalgono al 2013, con la censura dei post e delle chat contenenti le parole “Falun Gong” (法轮功) e “Southern Weekend” (南方周末).

Ovvero più di un miliardo di smartphone in tutto il mondo dove l’app interagisce con gli apparati di polizia fornendo l’accesso a query di ricerca e contrassegni di tag specifici e dove persino l’inattività digitale stessa può destare sospetti.

Forme di sorveglianza nei confronti della quale milioni di cinesi nel mondo, e non solo, stanno divenendo ormai insensibili e dove la libertà personale ha un costo inimmaginabile. E le possibilità di scelta inesistenti.

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