Appare sempre più necessario ed urgente un cambio di paradigma nell’ambito della protezione dei consumatori per poter rispondere adeguatamente alle sfide indotte dalla rivoluzione digitale e per fare in modo che la rivoluzione del welfare state digitale possa diventare al più presto una forza positiva e di sviluppo della nostra società, anziché una leva di controllo distopico ed oscurantista.
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Come è cambiato il ruolo del consumatore
Da una parte occorre prendere definitivamente atto che il ruolo del consumatore è cambiato nell’era digitale: non siamo più infatti soggetti deboli che hanno bisogno solo ed esclusivamente di protezione.
I consumatori sono ormai motori dello sviluppo e dei nuovi mercati digitali in cui mettiamo a disposizione, in maniera più o meno consapevole, i nostri dati personali. Ciò significa che abbiamo un potere economico e, finalmente, ce ne stiamo accorgendo: i nostri dati non sono solo un diritto fondamentale, ma anche un interesse economico da difendere.
Questo è ovviamente qualcosa che non può fare agevolmente ogni singolo consumatore in maniera individuale. Tuttavia, quando le organizzazioni dei consumatori riescono a raggruppare una adeguata massa critica, auspicabilmente su scala almeno europea, questa aggregazione dinamica della domanda può rappresentare un punto di svolta nell’ambito delle nuove relazioni industriali.
Un nuovo ruolo per le organizzazioni dei consumatori
Deve dunque cambiare il ruolo delle organizzazioni dei consumatori che debbono spingersi oltre l’opposizione a volte sterile e infruttuosa della salvaguardia dei diritti dei consumatori dalla libertà imprenditoriale. La protezione degli interessi economici dei consumatori nel mercato apre una prospettiva completamente nuova per un nuovo consumerismo che sia anche motore per lo sviluppo e sì, si possono servire gli interessi dei consumatori fornendo loro un valore aggiunto anche lavorando in partnership con market players responsabili e lungimiranti.
Il welfare digitale
D’altra parte occorre non dimenticarsi degli ultimi, dei più sfortunati tra i consumatori, e in questo caso occorre cominciare a sfatare qualche mito legato alla efficienza che si tende a connettere tout court sempre e comunque all’utilizzo del digitale nelle politiche di welfare, purtroppo non è infatti sempre così. Secondo una corposa inchiesta condotta da The Guardian la rivoluzione tecnologica che sta trasformando a passi velocissimi anche questo settore in tutto il mondo rischia di penalizzare, attraverso una vera e propria distopia digitale, proprio le persone più vulnerabili.
Come noto in Italia c’è addirittura chi recentemente si è spinto fino a dichiarare di avere abolito la povertà ma, senza distinzione di colori politici, i proclami governativi sono in realtà molto diffusi ed omogenei in occidente e promettono tutti in maniera altisonante che le nuove tecnologie trasformeranno in meglio la povertà velocizzando i pagamenti delle prestazioni assistenziali, aumentandone l’efficienza e la trasparenza, riducendo gli sprechi e facendo quindi risparmiare denaro ai contribuenti attraverso una sostanziale eliminazione della fallibilità e del pregiudizio umani, cosa che dovrebbe assicurare l’attribuzione delle risorse, per definizione limitate, alle persone più bisognose.
Ciò che è sicuramente vero è che somme ingenti vengono spese ormai da quasi tutti i governi dei Paesi maggiormente industrializzati per automatizzare una serie di processi gestionali come le indennità di disoccupazione, il sostegno all’infanzia, i sussidi per l’alloggio e gli alimenti, etc. Non si può dire tuttavia che la sostituzione del giudizio degli operatori con il freddo processo decisionale delle macchine non sia senza macchia, anzi in un momento in cui l’austerità domina la congiuntura economica ed il panorama politico, milioni di persone hanno avuto di fatto i loro benefici tagliati da computer ed algoritmi che operano in modi che pochi sembrano in grado di controllare o addirittura comprendere: gli errori sarebbero addirittura endemici, senza peraltro che sussista una strada facilmente percorribile per le vittime degli errori per ottenere adeguato risarcimento. Peraltro l’introduzione di forme sempre più intrusive di condizionalità, il perseguimento di obiettivi di modifica comportamentale, l’imposizione di regimi di sanzioni più forti stanno comportando una quasi completa inversione di una nozione che sembrava ormai acquista, perlomeno nelle Democrazie liberali avanzate, secondo cui lo Stato dovrebbe essere responsabile nei confronti dell’individuo e non viceversa.
Gli obiettivi (auspicabili) del welfare digitale
Recentemente il tema è stato portato all’Assemblea delle Nazioni Unite con un rapporto dettagliato che intende suonare una serie di campanelli d’allarme sulle implicazioni potenzialmente molto negative per la salvaguardia dei diritti umani in questa corsa forsennata alla digitalizzazione del welfare state. Una delle raccomandazioni finali del rapporto – ad avviso di chi scrive molto condivisibile – è che invece di focalizzarsi in maniera quasi ossessiva su truffe, risparmi sui costi, sanzioni e aumento di efficienza -molto spesso solo virtuale – l’obiettivo auspicabile dell’utilizzo del digitale in questi settori dovrebbe essere al contrario quello di trasformare il modo in cui i budget del welfare dovrebbero essere costruiti attraverso la tecnologia per garantire uno standard di vita più elevato per le persone vulnerabili e svantaggiate, escogitare nuovi modi di prendersi cura di coloro che sono stati lasciati indietro e tecniche più efficaci per rispondere ai bisogni di coloro che stanno lottando per entrare o rientrare nel mercato del lavoro.
Mi sembra anche questa in definitiva una battaglia importante che un movimento consumerista moderno ed evoluto dovrebbe abbracciare e fare propria.