Negli Stati Uniti, ad esempio, numerose leggi federali tutelano i dipendenti che vogliano segnalare comportamenti illeciti del proprio datore di lavoro o di altri soggetti apicali della propria organizzazione, a partire addirittura dal False Claims Act del 1863. Tale normativa aveva l’obiettivo primario di prevenire eventuali licenziamenti ingiustificati, molestie o declassamento professionale, intesi quali conseguenza di una segnalazione sgradita al management, fino al Whistleblower Protection Act del 1989, rivolto più specificamente ai dipendenti governativi.
Il percorso italiano della normativa sul whistleblowing
In Italia si è dovuto aspettare, di fatto, il 2012, allorquando il Legislatore con la legge 190, all’articolo 1 comma 51, nel riformare l’art. 54 bis della legge 165 /01 – TUPI – ha per la prima volta regolato la figura del “segnalatore di illeciti”, anche se solo con riferimento agli impiegati del settore pubblico. Solo nel 2017, con legge 179, recante «Disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato» si sono predisposte similari tutele anche per gli impiegati del settore privato. In tal modo il Legislatore ha de facto costituito un sistema di tipo binario che, nel caso di specie del settore privato, trova ora fattiva applicazione nel d.lgs 231/01.
In realtà, pur in assenza di un obbligo di istituire un sistema volto a tutelare la figura del segnalante, l’istituto era comunque già parzialmente in uso presso le società che adottassero un Modello 231: infatti, già l’art. 6 comma 2 del citato decreto 231 prevedeva che costituisse motivo di esenzione di responsabilità dell’ente la previsione di “obblighi di informazione nei confronti dell’organismo deputato a vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli”. Tale previsione era peraltro contenuta, in parte, anche nella disciplina relativa all’antiriciclaggio, dove per effetto del recepimento della direttiva 2015/849/UE è stata prevista, tra le altre, la modifica dell’art. 48 del d.lgs. 231/07, per effetto del quale i destinatari della disciplina sono, oggi, tenuti a istituire “procedure per la segnalazione al proprio interno […] di violazioni, potenziali o effettive, delle disposizioni dettate in funzione di prevenzione del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo”.
Segnalazione di illeciti: i punti di contatto della disciplina con il Gdpr
Proprio poggiando su tali fondamenta si costruiscono i numerosi punti di contatto con il GDPR, laddove l’art. 48 della citata normativa 231/07 prevede l’obbligo di garantire la tutela della riservatezza dell’identità del segnalante e del presunto responsabile delle violazioni, nonché, chiaramente, la protezione di colui che effettui la segnalazione “contro condotte ritorsive” imputabili alla segnalazione stessa, tutto ciò attraverso la previsione di un canale anonimo e indipendente che sia adeguato alle dimensioni della Società. Secondo quanto previsto dall’attuale art. 6 comma 2 bis del d.lgs 231/01, inoltre, tale canale comunicativo dovrà garantire la riservatezza dell’identità del segnalante nelle attività di gestione della segnalazione.
Il Garante per la protezione dei dati personali aveva invero esortato il Legislatore, addirittura nel 2009, a disciplinare il whistleblowing e “i profili di interferenza di tale fenomeno con la disciplina di protezione dei dati personali”, segnalando i principi basici di tutela dei dati che tale modello avrebbe dovuto prevedere. Ed effettivamente, ad oggi, risultano soddisfatti alcuni punti di base, tra i quali l’indicazione dell’ambito soggettivo di applicazione e, più ancora, l‘indicazione delle “finalità del trattamento”, ovvero l’emersione nel settore privato delle “condotte illecite, rilevanti […] e fondate su elementi di fatto precisi e concordanti, o violazioni del modello”.
Il d.lgs 231/2001, così come oggi formulato, presenta numerosi punti di contatto con la normativa in materia di protezione di dati personali. L’ordinamento è divenuto ormai un sistema con un approccio europeo: infatti, diversamente dal Codice Privacy, il GDPR predilige e pone come suo capo saldo l’approccio alla privacy sulla base del principio di accountability. Di fatto, il titolare del trattamento prima di dare inizio ad una nuova attività che comporta il trattamento di dati personali deve porre in essere tutte una serie di accorgimenti che siano in grado di limitare sia l’esposizione a fattori di rischio sia, soprattutto, l’impatto sui soggetti interessati.
A valle delle considerazioni sin d’ora svolte, il titolare del trattamento che intenda settare un proprio sistema di whistleblowing deve tenere in considerazione i seguenti step:
- privacy by design
- DPIA
- mitigare i rischi
- tracciare a Registro il trattamento
- informare gli interessati
- scegliere il fornitore tenendo in considerazione quanto richiesto dal GDPR
- definire una retention del dato
- proceduralizzare il processo
- autorizzare i soggetti designati per le operazioni di gestione del processo di segnalazione
Quindi, lo schema adottato per la gestione delle segnalazioni dovrebbe integrarsi con il Sistema di Gestione della Privacy (SGP) che il titolare del trattamento ha disegnato per la propria realtà aziendale. Discorso diverso va fatto qualora il titolare del trattamento sia una realtà che opera in diversi paesi, soprattutto se extra-EU.
Il titolare del trattamento, una volta condotte le attività di cui ai primi 4 punti indicati in precedenza, dovrà provvedere ad informare la propria popolazione aziendale attraverso la predisposizione di un’informativa ad hoc, redatta sulla base dell’art. 13 del GDPR.
La base giuridica del trattamento dei dati per il whistleblowing
Su tale punto vengono considerate rilevanti due correnti. Da un lato quella che supporta il legittimo interessa e dall’altro un obbligo di legge. Il legittimo interesse del Titolare ad acquisire informazioni rilevanti circa eventuali illeciti compiuti ed incidenti su diversi profili dell’organizzazione, potrebbe essere una delle strade da percorrere. Ma cosa accade quanto il titolare, una volta adottato un modello di organizzazione è obbligato ad avvalersi di un sistema di segnalazione?
Tale punto deve essere valutato prima della redazione dell’informativa privacy e direi anche prima di definire la retention del dato, proveniente dalla segnalazione medesima.
La trama si fa più stretta se teniamo in considerazione quanto adottato dal Garante Europeo, tramite le “Guidelines on processing personal information within a whistleblowing procedure” del 18 luglio 2016, che enfatizzano, tra gli altri, il principio minimizzazione dei dati, al fine anche di ridurre i rischi correlati e sottesi al trattamento, nonché sulle possibili limitazioni ai diritti garantiti dal GDPR all’interessato.
Per quanto attiene ai diritti degli interessati occorre premettere che il nostro legislatore ha lavorato per delta sulla trama tessuta dal legislatore europeo attraverso la redazione dell’art. 2-undecies. Tale articolo sviluppa in dettaglio quanto previsto a grandi linee dall’art. 23 del GDPR. L’art. 2-undecies si apre affermando che i diritti di cui agli articoli dal 15 al 22 del GDPR non possono essere esercitati né con richiesta al titolare né con reclamo all’Autorità per una serie di motivi elencati all’interno del medesimo.
Ciò su cui interessa soffermarci è la lettera f) del soprarichiamato articolo, “la riservatezza dell’identità del dipendente che segnala, ai sensi della legge 30 novembre 2017, n.179, l’illecito di cui sia venuto a conoscenza in ragione del proprio ufficio”. Emerge chiaramente l’esigenza di tutelare il segnalante da eventuali ripercussioni da parte del soggetto segnalato.
Sarà poi necessario valutare attentamente i rischi per i diritti e le libertà degli interessati in gioco, eventualmente anche tramite il supporto di una valutazione d’impatto, utile a soppesare la portata di tale limitazione e per misurarne la proporzionalità, e dunque la realizzabilità, rispetto a quest’ultima. Adottando comunque tutta una serie di misure tecnico ed organizzative così come previsto dall’art. 32 del GDPR.