l'analisi

Rimozione contenuti illeciti e limiti territoriali: gli effetti del caso Telegram-Agcom

La rimozione da Telegram di sette canali che offrivano articoli di giornale oggetto di segnalazione da parte di FIEG, ha portato all’attenzione il tema dei limiti territoriali entro i quali i provvedimenti Agcom possono imporre la disabilitazione dell’accesso e la rimozione selettiva dei contenuti. Ecco i dettagli

Pubblicato il 27 Apr 2020

Luciano Daffarra

C-Lex Studio Legale

telegram - guerra in Ucraina

Il sintetico comunicato stampa del 23 aprile 2020 con cui il Consiglio dell’Autorità delle Comunicazioni, relatore il commissario Francesco Posteraro, dopo avere dato atto della rimozione – per adeguamento spontaneo da parte di Telegram – di sette degli otto canali che mettevano a disposizione del pubblico articoli di giornale oggetto di segnalazione da parte della FIEG, ha anche portato all’attenzione dei titolari dei diritti un tema che ha assunto crescente importanza negli anni recenti.

La questione dei limiti territoriali

Si tratta della vexata quaestio dei limiti territoriali entro i quali i provvedimenti dell’Agcom, emessi sulla base dei Regolamenti 680/13/CONS e 490/18/CONS, possono imporre la disabilitazione dell’accesso e la rimozione selettiva dei contenuti illecitamente posti sulle reti di comunicazione elettroniche che non siano stati eliminati dai singoli operatori a seguito delle diffide inviate loro dai titolari dei diritti.

Nel caso di cui ci occupiamo tali limitazioni hanno imposto l’archiviazione del procedimento instaurato da FIEG nei confronti di Telegram LLC ai sensi dell’art. 8, comma 1, del più volte ricordato Regolamento, in quanto la collocazione in paesi terzi dei server di Telegram rende impossibile imporre coattivamente, attraverso le determine dell’Authority italiana, l’obbligo di rimozione dei contenuti abusivi messi a disposizione del pubblico dai content provider.

Va detto, per la precisione, che la decisione dell’Agcom di archiviare il procedimento avviato nei confronti di Telegram non rappresenta un fatto nuovo per l’Authority italiana del settore delle comunicazioni in quanto una analoga scelta era già stata adottata in passato[1], in un caso che coinvolgeva lo stesso provider russo.

Inoltre, da quanto si legge nel documento postato da Agcom, la eventuale decisione di operare un oscuramento totale del sito web ordinata ai fornitori di connettività che lo diffondono nel nostro stato non potrebbe essere considerato un rimedio “proporzionato” sulla base dei criteri elaborati dalla giurisprudenza comunitaria e adottati dalla medesima Autorità sulla scorta delle norme regolamentari vigenti.

Avuto riguardo all’ambito territoriale esclusivamente interno dell’efficacia degli ordini impartiti dall’Agcom in materia di pirateria audiovisiva, la stessa ha osservato che tali limiti potrebbero essere superati solo attraverso un opportuno intervento del legislatore sulle norme del D. Lgsl. 70/2003 di implementazione della Direttiva 2000/31/EC sul commercio elettronico e, segnatamente, sull’art. 4 comma1, lett. a) del decreto.

In concreto, per potere emettere provvedimenti vincolanti anche nel paese di collocazione dei server dei provider coinvolti nelle violazioni, sarebbe necessario elidere dalla normativa vigente l’esclusione dei diritti d’autore dall’ambito della definizione di “mercato interno”, offerta dall’art. 3 del medesimo provvedimento di legge, così da consentire l’adozione di ordini di rimozione selettiva validi anche verso gli intermediari collocati nei paesi terzi.

L’Agcom, nel medesimo comunicato stampa che qui brevemente si illustra, ha precisato peraltro che l’archiviazione del procedimento avviato dalla FIEG nei confronti di Telegram non pregiudica le azioni penali che possono essere intraprese dalla magistratura nei confronti dei gestori del sito, alla quale la stessa Agcom ha provveduto a inviare la documentazione istruttoria raccolta internamente.

Cos’è Telegram

Prima di affrontare le diverse questioni sollevate dalla vicenda FIEG/Telegram di cui ci stiamo occupando, è utile comprendere le origini del “servizio di messaggistica istantanea” e di broadcasting denominato “Telegram” e le ragioni per cui esso sia da tempo noto per l’attività illecita che vi si svolge.

In primo luogo, l’impresa Telegram LLC, nata nella Federazione Russa nel 2013, appartiene ai fratelli Nikolaj e Pavel Durov: essa dopo avere avuto per alcuni anni sede a Londra, è stata trasferita a Dubai. I due fratelli Durov sono conosciuti agli utenti della rete per essere i fondatori e i proprietari anche della piattaforma VK.com (vKontakte) uno dei siti web che forniscono i propri servizi con provenienza dalla Russia attraverso l’ISP Globalnet sito a San Pietroburgo.

Nell’anno 2018, la piattaforma VK.com è stata inserita nella “Watch List” della cosiddetta “Special 301” del Governo USA, lista nera che include i maggiori contraffattori, a causa della significativa attività di caricamento di opere tutelate che il sito web in questione poneva abusivamente a disposizione del pubblico.

Di Telegram e del suo operato si è occupato anche il Governo italiano, a cominciare dall’anno 2019, quando l’allora Sottosegretario di Stato alla P.d.C., Vito Crimi, ha preso netta posizione contro gli illeciti compiuti su quel servizio attraverso la denuncia di alcuni soggetti che avevano promosso materiali illegali per la visione dei canali IPTV (il cosiddetto “pezzotto”) rivolgendosi direttamente alla sua utenza telefonica. Egli sottolineò in quell’occasione di avere segnalato i fatti alla FAPAV “che ha provveduto a denunciare i soggetti coinvolti agli organi competenti” (cfr. pagina Facebook di Vito Crimi del 19 gennaio 2019[2]).

Da quel momento le offerte e gli atti di messa a disposizione del pubblico di contenuti protetti postati su Telegram non hanno visto un rallentamento, anzi, sono cresciuti in maniera significativa; allo stesso modo gli ostacoli che si frappongono fra i titolari dei diritti e i gestori delle piattaforme che favoriscono smaccatamente la pirateria non sono stati ridotti o eliminati.

In questo ambito sono sempre più frequenti i casi in cui la sede operativa degli ISP che offrono i loro servizi di hosting ai siti web contraffattori viene trasferita dai paesi di origine in altre località ove, non solo le norme locali a tutela dei diritti d’autore sono inesistenti o inefficaci, ma vi anche è l’oggettiva difficoltà di fare valere nei confronti dei contraffattori sia le delibere dell’Agcom sia gli stessi ordini della magistratura, in quanto risulta lungo e complicato eseguire in detti luoghi gli atti di rogatoria internazionale volti a porre fine agli illeciti giudizialmente accertati.

L’efficacia ultra territoriale dei provvedimenti della magistratura

Gli strumenti legali, diversi dagli ordini emessi sulla base della procedura amministrativa instaurata di fronte ai propri uffici, cui ha fatto opportunamente riferimento l’Agcom nel comunicato stampa sopra ricordato riguardano, in particolare, l’applicazione delle sanzioni penali previste dagli Artt. 171 e ss. della L. 633/1941 e le misure di sequestro penale preventivo dei siti web contemplate dal codice di procedura penale. Invero, l’art. 321 del codice prevede la facoltà per il pubblico ministero e per il G.I.P. di disporre il sequestro, con decreto motivato, di “una cosa pertinente al reato” quando essa possa “aggravare o protrarre le conseguenze di esso ovvero agevolare la commissione di altri reati”. A tale stregua in numerosi casi la nostra magistratura penale ha considerato possibile l’applicazione della suddetta disposizione alle piattaforme digitali e ha ordinato il blocco giudiziario del DNS e dello stesso IP address dei siti web coinvolti nella contraffazione, attraverso l’applicazione dell’art. 321 c.p.p.[3].

In base a questi strumenti si rende quindi possibile per la magistratura italiana l’emissione di provvedimenti che, ai sensi dell’art. 6 del Codice penale, sono dotati di efficacia ultra-territoriale, potendo essere fatti valere anche nei confronti degli ISP situati all’estero[4].

________________________________________________________________

  1. Cfr. Decreto Presidenziale N. 7/18/PRES del 5 marzo 2018 nel Proc. 721/DDA/FP
  2. https://www.facebook.com/vitoclaudiocrimi/posts/2045905858823077/
  3. Fra i casi di applicazione del sequestro penale dei siti web, ricordiamo – oltre al noto caso the Pirate Bay deciso dalla Corte di Cassazione con sent. 49437/2009 il decreto di sequestro preventivo emesso dal G.I.P. di Brescia il 29 maggio 2012 nel caso www.dduniverse.net, e quello, con contestuale inibitoria ex artt. 14-17 del D. Lsgl. 2003, del PM di Cagliari in data 19 aprile 2011, nel corso dell’azione penale avviata nei confronti degli amministratori del sito www.btjunkie.org e www.btjunjkie.com.
  4. Una tendenza all’enforcement globale, senza limiti territoriali, delle decisioni giudiziarie concernenti l’inibitoria delle violazioni commesse via internet è stata emessa dalla Corte Suprema del Canada in data 28 giugno 2017 in una causa di contraffazione e di violazione del segreto industriale fra imprese, che ha coinvolto le società del gruppo Google e la canadese Equustek.

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