L’estate 2021, nel panorama IT, ha visto un’attenzione crescente sui temi di cybersecurity a seguito dell’attacco che ha bloccato i servizi della Regione Lazio a causa di un’intrusione da parte di hacker che hanno poi lanciato un cryptolocker nella speranza di poter riscuotere il “meritato” riscatto. Il dibattito che ne è seguito si è scatenato su tecniche, acronimi e best practice (e sul perché non erano state implementate), senza mai soffermarsi sull’anello debole della catena: l’uomo.
Cybersecurity PA, il “fattore umano” è il problema: lo scenario
E non si tratta solo di fare il processo al povero utente che ha involontariamente messo in ginocchio la propria organizzazione cliccando su un link in un messaggio di posta elettronica, ma di analizzare il comportamento degli utenti che troppo spesso lottano contro le misure di sicurezza di un’organizzazione per una moltitudine di problemi, con in cima il proprio senso di produttività quando le procedure vengono percepite come troppo articolate.
Chiunque lavori nel mondo della cybersecurity è consapevole che senza sicurezza procedurale a poco servono la sicurezza fisica e logica, e che gli utenti ritengono che doversi sforzare, anche poco, per ottemperare a procedure che migliorano il livello di sicurezza porta ad una valanga di lamentele che prima o poi smuoveranno la governance che si dirà disposta ad assumersi i rischi (salvo poi chiedere conto durante un incidente serio).
La verità è che gli utenti vorrebbero sistemi che minimizzino le operazioni non necessarie e i CSO sistemi che siano sicuri al prezzo di complicare arbitrariamente la vita ai propri utenti. Solo raramente ci si preoccupa della user experience (UX) della cybersecurity, non si disegnano procedure tenendo a mente i bisogni dell’utente, ma solo il fatto che si dovrà adeguare. Il concetto di frictionless security è esattamente questo: disegnare una UX tale da ridurre al minimo le operazioni di sicurezza percepite dall’utente, e disegnare sistemi che, mediante l’analisi comportamentale e la definizione di procedure che siano sostenibili rende la cybersecurity quasi invisibile agli occhi dell’utente.
L’ossimoro della password
Nel libro Secrets and lies Bruce Schneier discute approfonditamente le password e i limiti intrinseci che le caratterizzano. In sostanza la password per essere sicura deve essere complicata, per evitare i cosiddetti attacchi brute force che fanno uso di dizionari e su alfabeti sufficientemente ristretti da rendere la generazione di molte delle possibili combinazioni facilmente calcolabili. Siamo ormai tutti abituati a creare password complesse, usando maiuscole, minuscole, cifre e altri simboli imposti dalle regole del sito di turno. Ma quando la password è troppo complessa, oppure si è forzati a cambiarla spesso la memoria dell’uomo si fa sentire e inevitabilmente la password viene annotata su un pezzettino di carta da qualche parte, o scritta su una lavagna. Ecco, quindi, che una password sicura tende a rendere la password insicura dal punto di vista della sicurezza fisica poiché chiunque abbia accesso alla postazione troverà la password appuntata da qualche parte.
Recentemente, un delizioso esempio è stato osservato da Corrado Giustozzi durante un servizio del TG3 dove si vedevano username a password stampati e attaccati al muro di un laboratorio. Tra l’altro la password non brillava certo per sicurezza e forse gli utenti si sarebbero potuti sforzare per ricordarla.
Se vi sentite al sicuro perché non cadete così facilmente in tentazione di stampare la vostra password per appenderla al muro sappiate che è probabile che siate parte del problema: sono state trafugate miliardi di password facilmente reperibili nel dark web, e senza magari che lo sappiate una delle vostre password è stata trafugata, magari da file password mal custoditi da parte di gestori di siti Web, anche importanti come siti social o di catene di alberghi. Un modo semplice per verificare se qualcuno dei vostri account ha una password compromessa è utilizzare il sito haveibeenpwned.com/.
Il sito usa questi enormi elenchi di password trafugate per dire se la password è nota o meno (se dice che non lo è potrebbe semplicemente non essere nota la sua compromissione).
In sostanza le password, sebbene comode perché non richiedono altro che un po’ di memoria, sono uno dei punti deboli dei nostri sistemi, e rappresentano anche uno dei terreni di scontro costante per condurre attacchi a sistemi informatici. Nel dark web si trovano addirittura script che copiano un sito Web in modo da ingannare gli utenti e convincerli a inserire le proprie credenziali che a quel punto possono essere usate da un attaccante per condurre un attacco.
È notizia di questi giorni l’annuncio di Microsoft che la password è divenuto un attributo “opzionale” dell’account e gli utenti possono scegliere di entrare senza password ma utilizzando solo il secondo fattore: la app Authenticator che testimonia che l’utente è chi dice di essere. È affascinante l’idea di un mondo senza password, ma allo stesso tempo è legittimo chiedersi come si potranno gestire malfunzionamenti dei token di sicurezza, sia software che hardware, che prenderanno il posto della tanto vituperata password.
La frictionless security
Considerare cosa significhi la UX per un utente dal punto di vista della cybersecurity richiede un po’ di esperienza di user experience design, ma con un po’ di buon senso si può già fare molto. È importante individuare le tensioni intrinseche del problema: da una parte l’utente che punta alle sole funzionalità e non vuole dover seguire procedure che fa fatica a ricordare e che comunque lo rallentano, dall’altra la necessità di assicurare, almeno idealmente, che l’identità dell’utente sia verificata e che abbia accesso a tutte e sole le risorse di cui ha bisogno (principio del privilegio minimo).
Il problema diviene quindi quello di individuare:
- Le operazioni di sicurezza necessarie per assicurare l’integrità del sistema
- Quali di queste operazioni possono essere svolte senza che l’utente divenga parte attiva
Sono da evitare quindi meccanismi che richiedono che l’utente comunichi indirizzi IP oppure elementi specifici del sistema da cui si collega (informazione che anche secondo la Zero Trust Architecture non dovrebbe essere richiesta, sta infatti al policy enforcement point valutare la richiesta nel contesto e decidere se accoglierla o meno.
Non è poi il caso di stratificare i controlli richiedendo ulteriori operazioni all’utente, perché in ogni caso la sicurezza è legata all’anello più debole della catena, e l’introduzione di oneri addizionali per l’utente se non strettamente necessari non fa che aumentare la probabilità che l’utente assuma atteggiamenti insicuri vanificando lo sforzo fatto.
Il monitoraggio dovrebbe essere privilegiato rispetto ad azioni esplicite dell’utente che dovrebbe limitarsi ad aprire un tunnel VPN (o altra tecnologia sicura) e limitarsi ad accedere le risorse attraverso il canale sicuro.
Se dal monitoraggio emergono comportamenti sospetti è possibile ridurre automaticamente le risorse a cui ha accesso l’utente, magari per un periodo di tempo. Esistono software di identity managment che automatizzano questi meccanismi senza oberare l’utente di controlli ulteriori.
Gli utenti vanno educati
Questa è un’affermazione arcinota, ma spesso disattesa. Le organizzazioni raramente spiegano perché un certo comportamento non è adeguato, ne sono tristi esempi:
- Memorizzare dati dell’organizzazione nei propri account personali
- Utilizzare la propria posta elettronica privata per lavoro
- Superare i limiti nell’invio di file come allegati a messaggi di posta elettronica usando sistemi di filesharing non verificati
- Uso di dispositivi non certificati per estrarre dati dell’organizzazione (e.g. chiavette o sistemi di memorizzazione di massa)
- Non porsi il problema se un messaggio di posta sia legittimo o meno e quindi se interagire con i link al suo interno o meno
In molti casi la tentazione è quella di impedire il comportamento bloccando funzioni, come ad esempio impedire file zip nella posta, oppure bloccare interi siti sul firewall di frontiera. Si tratta di misure che non fanno altro che spingere gli utenti ad aggirare i blocchi, magari con la rete 5G del proprio telefono. Una volta ho incontrato un dipendente di un’azienda che si era comprato la sua VM a sue spese su AWS pur di non usare lo stack software messo a disposizione dall’IT.
Promuovere formazione è sicuramente un modo per migliorare la cultura aziendale relativamente agli aspetti procedurali della sicurezza, spiegando perché e non solo la procedura da seguire. Esistono però anche approcci più diretti in cui l’organizzazione stessa genera campagne di phishing e intercetta tutte le unità di personale che cadono nel tranello obbligandoli ad effettuare attività formative specifiche.
Perché è così importante che gli utenti siano alleati?
Quello che è evidente è che gli attacchi odierni puntano ad impersonare un’unità di personale per accedere da remoto e prendere quindi il controllo di una postazione di lavoro dell’organizzazione. Una volta conquistata comincia l’analisi che in prima istanza avviene utilizzando l’identità del malcapitato, l’attaccante si comincia a muovere all’interno alla ricerca di sistemi che non siano patchati e per cui è possibile usare attacchi di privilege escalation. Una volta che ottenuti privilegi più alti è possibile procedere alla configurazione del sistema per massimizzare il danno prodotto dalla detonazione di un cryptolocker all’interno delle risorse dell’organizzazione.
Un’organizzazione Zero-Trust della rete può sicuramente limitare il perimetro soggetto all’attacco, ma comunque i dati a cui ha accesso l’utente restano a rischio sia di cifratura che di esfiltrazione.
Conclusioni
La frictionless security è largamente un principio di design che prevede che per assicurarsi la massima collaborazione da parte degli utenti si eviti di complicare oltremodo gli aspetti procedurali della sicurezza senza però rinunciare ai controlli necessari a garantire l’integrità dei sistemi. Il monitoraggio può in molti casi ridurre le azioni esplicite richieste agli utenti, e software specifici supportano attivamente pattern a supporto di questo approccio.
Troppo spesso si ritiene che il problema tecnologico, ma la realtà dei fatti è che i sistemi si possono aggiornare, gli uomini non sono altrettanto riprogrammabili, per fortuna, e sono quindi destinati a rimanere l’anello debole della catena e quindi il primo punto di un attacco informatico.