Grazie al possesso dei dati, i colossi della tecnologia stanno centralizzando gran parte della ricchezza disponibile, togliendola a tutti gli altri attori economici e, di converso, a Stati e relativi cittadini.
Questi temi si intrecciano strettamente con quello della sovranità digitale, destinato ad assumere un ruolo sempre più centrale sulla scena del dibattito pubblico, come peraltro dimostra il paper realizzato dal Parlamento Europeo dal titolo “Digital sovereignty for Europe”, nel quale leggiamo testualmente che «nel quadro della concorrenza e della regolamentazione, uno spostamento verso meccanismi più difensivi e prudenziali, comprese nuove regole per affrontare la proprietà statale straniera e le pratiche distorsive delle grandi società tecnologiche, sembrerebbe auspicabile per ottenere una maggiore autonomia tecnologica.»
In altre parole, le Istituzioni stanno cominciando a entrare nell’ordine di idee di riequilibrare le regole d’ingaggio, la cui bilancia pende completamente dalla parte opposta, ovvero quella di Zuckerberg e compagnia cantante.
Meglio tardi che mai, verrebbe da dire. Ma vediamo tutti i temi sul tavolo quando si parla di “umanizzazione del Web”.
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Il discorso sul PIL di Bob Kennedy
Riflettendo sulle parole adatte a rappresentare un concetto apparentemente astratto come l’umanizzazione del Web, mi è venuto in mente il celebre discorso sul Pil che Bob Kennedy pronunciò all’Università del Kansas, tre mesi prima di morire assassinato all’Ambassador di Los Angeles.
«Il Pil può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani» sono le parole con cui il fratello di JFK chiuse mirabilmente il cerchio, significando che la società non può essere misurata con un parametro economico, giacché esso non tiene conto del bene e del male, ma solo del più e del meno.
Dopo 53 anni, di cui 40 abbondanti di rivoluzione digitale, potremmo tranquillamente parafrasare quel discorso sostituendo il Pil con i Big Data: non perché gli indicatori economici abbiano perso d’importanza, ma come abbiamo accennato, perché le cosiddette Big Tech stanno accentrando sempre più potere e ricchezza.
I modelli di business delle big tech
I modelli di business sui quali si basano sono essenzialmente due. Il primo è quello grazie al quale Google e Facebook hanno letteralmente fagocitato comunicazione e informazione rivendendo ai loro clienti la nostra attenzione: più tempo trascorriamo sulle loro piattaforme, più loro guadagnano. Ogni azione che compiamo viene tracciata e serve per profilarci, ovvero trasformarci in “target” da bombardare con inserzioni pubblicitarie.
Concetto che nel Web sta trovando la sua massima espressione ma che vide la luce a New York nel lontano 1833, quando Benjamin Day fondò il The Sun, il primo penny press.
In buona sostanza, il giovane editore (all’epoca aveva appena 23 anni) comprese che il vero valore da monetizzare non era il giornale in sé, ma l’attenzione di un numero indefinito di persone che quell’insieme di notizie era in grado di catturare.
Volendo semplificare ulteriormente il concetto, i suoi lettori erano convinti di essere suoi clienti, mentre invece erano il suo prodotto. Avete capito bene: oggi come allora per il sistema dell’informazione noi siamo la merce, che viene conquistata quotidianamente attraverso la nostra attenzione.
Il secondo modello di business è quello basato sulle commissioni attuato da altri grandi player del Web come Booking, Amazon e Just Eat, giusto per fare i primi tre esempi che mi vengono in mente. In questo caso le piattaforme assorbono gran parte del potere delle Aziende che ne fanno parte, centralizzando praticamente tutto: visibilità, clienti e prezzi.
Fondamentalmente, il ragionamento è questo: se vuoi essere visibile devi stare sulla mia piattaforma e se vuoi vendere devi farlo alle mie condizioni, ovvero prezzi sempre più bassi e pagandomi commissioni sempre più alte.
Ça va sans dire, il risultato è che i margini di guadagno delle aziende si assottigliano sempre di più a vantaggio di quelli delle Big Tech, che oramai dettano legge pressoché incontrastate.
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Il tema della sovranità digitale
E qui arriviamo al tema della sovranità digitale, arrivato agli onori delle cronache di massa – insieme a quello delle pratiche distorsive delle big tech – solo di recente, quando Twitter e Facebook decidessero di censurare il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, guarda caso poco prima della fine del suo mandato.
Anche in questa circostanza è necessario non soffermarsi su un unico aspetto, ma considerare l’intero contesto: come detto sopra le Big Tech fanno business tenendoci incollati alle loro piattaforme e rivendendo la nostra attenzione a chi vuole sottoporci i propri messaggi pubblicitari.
Ebbene, si dà il caso che per catturare la nostra attenzione servano contenuti, tra i quali le notizie e che – come spiegano i dati Agcom – anche in Italia l’accesso all’informazione avviene prevalentemente attraverso fonti algoritmiche, il che significa non direttamente dalla fonte (i siti da cui provengono le notizie) ma da piattaforme come Google e Facebook.
Il punto è che sono gli algoritmi di quelle piattaforme a decidere quali notizie metterci sotto il naso e che lo fanno con il fine che spiegavo poc’anzi, ovverosia tenerci incollati il più possibile ai display dei nostri device.
La nostra identità digitale in mano ad aziende private
Come diceva Walter Lippmann le notizie formano una sorta di pseudoambiente, ma le nostre reazioni a tale ambiente non sono affatto pseudoazioni, ma azioni reali. Ergo, considerando che mediamente ogni italiano è connesso per circa sei ore al giorno, gran parte delle azioni che compiamo e delle decisioni che prendiamo sono influenzate dagli algoritmi. Le «pratiche distorsive delle grandi società tecnologiche» menzionate nel paper del Parlamento Europeo, insomma.
Come se non bastasse, a tutto questo dobbiamo aggiungere il tassello riguardante la proprietà della nostra identità digitale: personale o aziendale che sia, oggi è su server privati che stanno dall’altra parte del mondo, che ne possono disporre come meglio credono.
Per identità digitale intendo non soltanto i nostri dati e il tracciamento di ogni nostra singola azione, ma anche i contatti che abbiamo costruito o la nostra fan base: ci sono professionisti, aziende e influencer che hanno investito anni di lavoro e cifre ingentissime per sviluppare il proprio brand sulle principali piattaforme che, da par loro, in qualsiasi momento potrebbero chiudere il profilo o cambiare le regole del gioco in modo del tutto arbitrario.
A fronte di tutto questo, la ciliegina sulla torta è certamente costituita dal fatto che le Big Tech non paghino le tasse nei paesi in cui producono fatturato, godendo di condizioni infinitamente più vantaggiose rispetto a quelle di un artigiano o di un libero professionista.
Conclusioni
Raccontato così sembrerebbe un paradigma inscalfibile eppure, oltre a iniziative come quella del Parlamento europeo, su scala globale un numero sempre crescente di persone e opinion maker si occupa di temi come la sovranità digitale e l’umanizzazione del Web.
Stando all’Italia, possiamo citare il “manifesto” di Giorgia Lupi[1], oppure vere e proprie alternative come il nuovo social MatchMe, che si basa proprio sul concetto della qualità delle relazioni che instauriamo e del tempo che vi trascorriamo. Più qualità e meno quantità, insomma, è e sarà sempre più la conditio sine qua non per rimettere la chiesa al centro del villaggio e tornare a vivere il Web e le sue immense opportunità da protagonisti, nel segno dei valori sostanziali enunciati da Bob Kennedy e non dei bilanci delle Big Tech.
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- https://corriereinnovazione.corriere.it/2021/03/23/lupi-big-data-siano-umani-edicola-venerdi-numero-marzo-ae05f634-8c07-11eb-9bf5-145cd1352910.shtml ↑