la sentenza

Trasparenza amministrativa e privacy: più controlli per i dirigenti pubblici esposti a rischio corruzione

La norma che impone ai dirigenti pubblici l’obbligo di pubblicare i propri dati patrimoniali e reddituali è iniqua e sproporzionata, ma abolirla lascia scoperta l’istanza di trasparenza dei cittadini. Ecco perché, secondo la Corte Costituzionale, il legislatore deve riconsiderare gli interessi in gioco

Pubblicato il 05 Apr 2019

Privacy-O2

Nella recente sentenza n. 20 del 2019 della Corte costituzionale in tema di trasparenza della pubblica amministrazione, pur ritenendo illegittima la norma che impone ai dirigenti pubblici l’obbligo generalizzato di pubblicare i propri dati patrimoniali e reddituali sul sito della pubblica amministrazione di appartenenza, i giudici della Consulta sollecitano il legislatore a effettuare una nuova valutazione degli interessi in gioco, affinché vengano indicate con maggior precisione e accuratezza le categorie dirigenziali nei cui confronti risulti adeguato e proporzionato l’obbligo di ostensione.

In breve, secondo i giudici della Consulta, dovranno essere sottoposti a un controllo pubblico più pervasivo i titolari degli incarichi dirigenziali più facilmente esposti al rischio di corruzione come, ad esempio, i funzionari che svolgono attività in diretto collegamento con gli organi di decisione politica o quelli cui vengono assegnati compiti di elevatissimo rilievo (quali la gestione delle risorse umane o finanziarie dell’ente).

Esaminiamo la sentenza per comprendere perché, secondo la Corte, rimuovere la disposizione censurata dall’ordinamento non sia sufficiente a risolvere le tensioni correnti fra il principio di trasparenza amministrativa e il diritto alla protezione dei dati personali.

La sentenza

La Corte costituzionale ha dichiarato illegittima la norma che impone ai dirigenti pubblici l’obbligo generalizzato di pubblicare i propri dati patrimoniali e reddituali sul sito della pubblica amministrazione di appartenenza, in quanto lesiva del principio di eguaglianza e sproporzionata rispetto alle finalità perseguite dal legislatore.

Il TAR Lazio ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 14 d.lgs. 33/2014 (Riordino della disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni), censurandolo, in particolare, nella parte in cui estende, a seguito della novella operata dal d.lgs. 97/2016, gli obblighi di trasparenza gravanti sui titolari di incarichi politici anche ai titolari di incarichi dirigenziali nella pubblica amministrazione.

Nel caso di specie, la faccenda riguardava alcuni dirigenti di ruolo inseriti nell’organico del Garante per la protezione dei dati personali, a cui era stato ordinato di rendere noti, a pena di sanzione e entro un termine prestabilito, i dati inerenti alla propria situazione patrimoniale e reddituale, nonché quelli inerenti alla situazione patrimoniale e reddituale del coniuge non separato e dei parenti entro il secondo grado (qualora questi avessero prestato il loro consenso).

Il giudice amministrativo, dubitando dell’automatica prevalenza riconosciuta dal legislatore all’esigenza pubblica di trasparenza nel bilanciamento operato fra quest’ultima e l’esigenza privata di riservatezza, ha rimesso la questione davanti alla Corte costituzionale, così investendola del compito di decidere se superi o meno il test di proporzionalità la valutazione effettuata dal legislatore circa la pertinenza dell’obbligo di pubblicazione rispetto alle dichiarate finalità di lotta alla corruzione e promozione della partecipazione dei cittadini alla “cosa pubblica”.

Sfiducia nelle istituzioni e obbligo alla trasparenza

Le ragioni nascoste dietro la scelta del legislatore di intensificare il controllo dei cittadini sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’impiego delle risorse pubbliche, soprattutto quelle destinate alla remunerazione dei soggetti responsabili del buon andamento della pubblica amministrazione, vanno individuate nella più che giustificata sfiducia maturata dai cittadini nei confronti delle istituzioni ma anche nel mutato rapporto fra singolo e autorità, oggi non più autoritativo bensì partecipativo e, pertanto, controllabile.

Non è un caso, infatti, che la Corte costituzionale, nel ricostruire l’evoluzione normativa che ha condotto verso la piena affermazione del principio di trasparenza amministrativa, abbia messo in luce soprattutto il passaggio da un modello di trasparenza fondato sulla semplice “accessibilità” (l. 241/90) a un modello di trasparenza ove sui dirigenti grava l’obbligo assai pressante di pubblicare qualsiasi informazione concerna il loro incarico e i compensi a esso connessi (d.lgs. 97/2016).

Giova qui sottolineare l’importanza assunta dal collegamento fra i dati oggetto di pubblicazione e le attività svolte dal dirigente nell’espletamento delle proprie funzioni, poiché è giustificabile esclusivamente la divulgazione di informazioni concernenti l’uso di risorse pubbliche.

Come giustificare, dunque, l’obbligo di ostensione dei dati inerenti alla situazione patrimoniale e reddituale dei propri congiunti?

In altri termini, sebbene giustificata da cause nobili, la riforma sembra andare un po’ troppo oltre, riducendo a mera curiosità e “sete di informazioni sulla vita privata degli altri” l’interesse pubblico sotteso all’obbligo di divulgazione dei dati personali “comuni” dei dirigenti pubblici.

Il digitale e il rischio di opacità per confusione

Più precisamente, a essere messi sotto accusa sono:

  • la grossa mole di dati oggetto di pubblicazione, riferiti a una platea di circa 140.000 funzionari (senza contare coniugi e parenti entro il secondo grado);
  • le modalità attraverso cui si è scelto di diffondere i dati raccolti.

In assenza di un’attenta e accurata selezione, a monte, delle informazioni più idonee al raggiungimento dei fini, del tutto legittimi, perseguiti dal legislatore, le amministrazioni finiscono per pubblicare sui propri siti istituzionali massicce quantità di dati che, lungi dall’agevolare l’esercizio del controllo da parte dei cittadini, in ragione della loro sovrabbondanza, si limitano solo a frustrare le esigenze di informazione veritiera poste alla base della normativa, generando “opacità per confusione”.

Nemmeno il divieto di pubblicazione dei dati sensibili e giudiziari, oltreché non pertinenti, riesce a salvare la disposizione censurata dalla dichiarazione di illegittimità della Consulta, poiché l’ostensione dei dati residui non risulta comunque necessaria e proporzionata rispetto alla finalità perseguite dalla legislazione.

Non solo. Le modalità di divulgazione dei dati aggravano il carattere già di per sé sproporzionato dell’obbligo, comportando il rischio di alterazioni, manipolazioni e riproduzioni per finalità diverse e ulteriori rispetto a quelle per cui è stata originariamente disposta la raccolta delle informazioni.

Le pubbliche amministrazioni, infatti, non potendo disporre, per esplicito divieto normativo, di alcun filtro o altra soluzione tecnica atta a impedire ai motori di ricerca di rielaborare i dati o di procedere alla loro indicizzazione, espongono le informazioni pubblicate in Rete a abusi e trattamenti potenzialmente idonei a mettere a repentaglio la sicurezza degli interessati.

Riserva di sindacato costituzionale

Prima di pronunciarsi sulla questione oggetto di sindacato, la Corte costituzionale ha preferito ricordare il contenuto della sentenza 269/2017, anche per rispondere ai rilievi avanzati dalle parti private, che sostenevano il carattere self-executing della normativa europea sulla privacy – l’allora in vigore dir. 95/46/CE, oggi abrogata dal Reg. (UE) 2016/679 (Gdpr)– e pertanto la possibilità del giudice rimettente di disapplicare immediatamente la disposizione censurata.

In pratica, ogniqualvolta le questioni sollevate dinanzi alla Corte tocchino profili di rilevanza sovranazionale, come la compatibilità o meno delle leggi nazionali con il quadro normativo europeo, ma incidano anche sui diritti fondamentali della persona tutelati dalla prima parte della Costituzione, la Corte costituzionale si riserva l’opportunità di intervenire, esprimendo la propria valutazione alla luce, anzitutto, dei parametri costituzionali interni (ferma restando in ogni caso la possibilità per i giudici comuni di sottoporre la medesima questione anche alla Corte di giustizia dell’Unione Europea).

Ciò in quanto i principi e i diritti enunciati dalla dir. 95/46/CE, che ha costituito il modello sulla cui base è stato predisposto l’art. 8 della Carta di Nizza (Protezione dei dati di carattere personale), spesso intersecano i diritti e i principi garantiti dalla Costituzione italiana, sicché diventa possibile che la violazione di una norma europea comporti allo stesso tempo anche la violazione di una norma costituzionale.

Test di proporzionalità

La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della disposizione censurata in riferimento all’art. 3 Cost. per come integrato dai principi europei di proporzionalità, pertinenza e non eccedenza, lasciando assorbito ogni altro profilo di censura.

Più precisamente, la norma non integra nessuno dei due presupposti necessari per soddisfare il test di proporzionalità, poiché impone oneri non necessari e non proporzionati rispetto alle finalità di contrasto alla corruzione perseguite.

Prima di tutto, il legislatore ha optato per una misura che produce un decremento di tutela di un diritto fondamentale, il diritto alla privacy, senza provocare alcun corrispondente aumento di tutela di un altro interesse di pari rango, la trasparenza amministrativa (cfr. sent. 143/2013).

E, come se non bastasse, tutto ciò pur in presenza di un gran numero di soluzioni alternative altrettanto efficaci (se non di più) quali, ad esempio, subordinare l’obbligo di pubblicazione al superamento di soglie reddituali previamente individuate dalla legge o depositare le informazioni richieste presso l’autorità di controllo competente o, ancora, coprire con l’anonimato i dati resi noti al pubblico.

In secondo luogo, la norma viola il principio di eguaglianza poiché sottopone al medesimo trattamento situazioni non comparabili, non operando alcuna differenziazione all’interno della categoria dei dirigenti pubblici, sicché l’obbligo di pubblicazione travolge ciascuno di loro indiscriminatamente, a prescindere sia dai poteri in concreto esercitati sia dal diverso livello di esposizione al rischio di corruzione.

Esempio lampante di tale disparità di trattamento è la sottoposizione al medesimo obbligo di disclosure tanto dei titolari di incarichi politici quanto dei titolari di incarichi dirigenziali, (lo si ripete, senza alcuna differenziazione), poiché se la norma sembra appropriata quando applicata a soggetti nei cui confronti si instaura un rapporto di fiducia controllabile dai cittadini tramite l’esercizio del voto (che può confermare o meno la loro elezione), non lo sembra affatto quando applicata a individui stabilmente e permanentemente al servizio delle pubbliche amministrazioni.

Non è servita a superare le perplessità dei giudici della Consulta nemmeno l’interpretazione costituzionalmente orientata proposta dall’Avvocatura di Stato, secondo cui l’Autorità nazionale anticorruzione potrebbe, con le sue linee guida, porre rimedio alle lacune della disciplina legislativa, graduando gli obblighi di pubblicazione a seconda del tipo di potere, decisionale e gestionale, attribuito ai titolari di funzioni apicali.

Non spetta, infatti, all’autorità amministrativa correggere gli errori di valutazione del legislatore, né tanto meno potrebbe farlo, disponendo esclusivamente di strumenti di legislazione flessibile (soft law) non vincolanti.

Conclusioni della Corte

La Corte, tuttavia, ha concluso precisando come con una pronuncia che si limiti a produrre un mero effetto ablativo, rimuovendo la disposizione censurata dall’ordinamento, resterebbe del tutto privo di tutela l’interesse dei cittadini-contribuenti a conoscere le modalità con cui vengono gestite le risorse pubbliche.

Il legislatore viene, pertanto, sollecitato a indicare con maggior precisione le categorie dirigenziali nei cui confronti risulti adeguato e proporzionato l’obbligo di ostensione.

Nell’attesa, la Corte ha invitato l’interprete ad avvalersi provvisoriamente delle indicazioni contenute nell’art. 19 d.lgs. 165/2001 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), ove sono elencate le funzioni dei Segretari dei ministeri, dei dirigenti di livello generale e dei direttori di strutture articolate al loro interno in più uffici dirigenziali generali, al fine di individuare i soggetti cui applicare il citato obbligo di pubblicazione.

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