Non è la guerra con missili e carri armati, e non è nemmeno totalmente paragonabile alla Guerra Fredda del secolo scorso, quando Nato e Patto di Varsavia si confrontavano esplicitamente in due blocchi nettamente separati. Tuttavia la lotta fra Stati Uniti (e alcuni altri paesi occidentali) e Cina per chi acquisirà il predominio tecnologico è sempre più evidente e accesa. Qualcuno parla di “digital cold war”, guerra fredda digitale.
Ma come si è arrivati a questo punto e perché questa crescente aggressività da parte americana verso la concorrenza cinese in campo tecnologico? Chi due è meglio posizionato in alcuni fronti e chi in altri?
Huawei nemico numero uno
Partiamo dall’esempio più recente, sotto gli occhi di tutti: lo scontro aperto fra il Dipartimento di Stato Usa e la multinazionale cinese Huawei che ha come obiettivo principale il controllo dello sviluppo e della gestione delle reti 5G, ma che si riverbera lungo diversi assi portanti della filiera tecnologica: dalla corsa all’intelligenza artificiale al mercato degli smartphone.
Con un drastico cambio di marcia rispetto all’approccio lasseiz-faire dell’amministrazione Obama, il governo Trump ha preso provvedimenti sempre più drastici nei confronti di Huawei, accusata (senza prove, finora) di essere un cavallo di Troia per lo spionaggio cinese Oltreoceano e di rappresentare quindi una minaccia per la sicurezza nazionale.
L’intento, dichiarato, è quello di distruggere o minare il business dell’azienda in Occidente.
Dopo un inizio un po’ stentato (un primo bando, emanato lo scorso anno, non ha impedito a Huawei di crescere a doppia cifra), gli sforzi Usa stanno iniziando a dare i loro frutti. il Dipartimento del Commercio a maggio ha vietato la vendita a soggetti esteri di qualsiasi semi-conduttore realizzato con il know-how di aziende americane, senza il previo benestare del dipartimento stesso. Benestare che, manco a dirlo, difficilmente verrà concesso. In concreto, questi significa che il più grande produttore di semi-conduttori al mondo, la fonderia taiwanese TSMC (Taiwan Semiconductor Manufacturing Co.), ha già iniziato a rifiutare nuovi ordini di chip da parte di Huawei e si limiterà a consegnare quelli pregressi.
L’azienda cinese dovrà quindi affidarsi ad altri produttori che però non sono grado di realizzare semi-conduttori altrettanto avanzati, come la cinese SMIC oppure, come Mediatek e Samsung, che difficilmente potranno coprirne il fabbisogno in termini di volumi.
È un problema sopratutto per gli smartphone top di gamma di Huawei, come il P30 o il P40, che fanno uso di chip particolarmente avanzati e per i futuri telefoni con connettività a 5G. A meno che l’azienda cinese non trovi in fretta un rimedio, il blocco delle forniture rischia di limitare fortemente il lancio sul mercato di prodotti fortemente innovativi, “congelandone” lo sviluppo e favorendo i concorrenti come Apple. Il marchio cinese potrebbe perdere velocemente status e fasce di mercato e la sua stessa sopravvivenza potrebbe essere a rischio, in un mercato altamente competitivo.
I (tanti) motivi di attrito
In realtà motivi di attrito esistono da tempo: per anni le aziende americane e occidentali in genere si sono lamentate del fatto che, per poter operare in Cina, fossero costrette a collaborare con partner locali verso cui operare forme, più o meno dichiarate, di “trasferimento tecnologico” condividendo e cedendo così prezioso know-how. Per non parlare del furto vero e proprio di proprietà intellettuale, della pirateria informatica e della clonazione di prodotti. Finché però la Cina era vista soprattutto come la “fabbrica del mondo”, un paese essenzialmente manufatturiero, dove trovare manodopera low-cost e prodotti di medio-basso livello, non era percepita come una vera e propria minaccia.
Le cose iniziano a cambiare con la presentazione, nel 2015, del piano “Made in China 2025”, con il quale la leadership del Paese traccia la strada per un salto di qualità che porti la Cina a competere in settori a maggiore valore aggiunto e maggiore tasso di innovazione, fra cui l’industria aerospaziale, farmaceutica, quella della robotica, veicoli elettrici ed energie rinnovabile, navi e treni high-tech, con un forte accento sullo sviluppo di ricerca e applicazioni in ambito AI e Internet of things, visti come abilitatori trasversali delle nuove applicazioni. Fra gli obiettivi del piano c’è anche l’”auto sufficienza” cinese in campo tecnologico, con la riduzione della dipendenza da fornitori stranieri per componenti chiave, come appunto i semi-conduttori.
È una svolta che per qualche tempo non riceve troppa attenzione, finché nel 2018 le cose cambiano: Made in China 2025 viene definita dal Council of Foreign Relations una “reale minaccia esistenziale alla leadership degli Usa in campo tecnologico”. È, in sostanza, la presa d’atto dei grandi progressi compiuti in poco tempo dai cinesi e dell’esistenza di una strategia di ampio respiro, che va contrastata, in particolare per quanto riguarda il dominio nella tecnologia 5G, che andrà ad innervare la prossima rivoluzione tecnologica. Grazie all’aumento esponenziale della velocità e capacità di trasferimento dati e al minore tempo di latenza, il 5G consentirà di realizzare progressi finora soltanto intravisti: smart city dotate di un ‘cervello’ digitale, auto connesse e senza pilota, operazioni chirurgiche da remoto, gestione ultra-efficiente dei ‘digital twin’, le repliche digitali tramite cui è possibile monitorare e influenzare il comportamento di oggetti fisici (per es. le turbine dei Boeing), cluster di fabbriche connesse fra loro, ognuna dedita, come uno sciame di api, a generare in sincrone il prodotto finale, sono solo alcuni degli scenari che appariranno ex novo o verranno ottimizzati quando il 5G sarà onnipresente.
Alla presa di posizione del Council segue a stretto giro il Defending U.S. Government Communications Act, che impedisce agli uffici governativi di impiegare strumenti o servizi di telecomunicazioni che facciano uso di tecnologia prodotta a Huawei e ZTE e, più in generale, di tecnologia prodotta da entità controllate o collegate a un governo straniero. A maggio 2019 arriva l’iinclusione di Huawei e altri produttori in una lista nera (Entity List) di aziende che non possono acquistare hardware o software americano senza l’approvazione del governo Usa. Fra gli effetti collaterali, c’è l’impossibilità per il produttore di smartphone asiatico di offrire le applicazioni di Google, fra cui il Play Store, sui propri dispositivi.
Il contrattacco della Cina
La Cina contrattacca a modo suo, con un piano pluriennale per utilizzare solo tecnologia e software cinese nella pubblica amministrazione e con un’ulteriore accelerazione degli sforzi per rendersi autosufficiente sul piano tecnologico. Sia a livello statale che di singole aziende.
Huawei accelera gli sforzi per il rilascio di un proprio sistema operativo, Harmony OS, pensato soprattutto per l’Internet of Things, ma adattabile, in caso di forza maggiore, anche agli smartphone; nel frattempo, sostituisce su Android le app di Google non più disponibili con equivalenti di altri produttori, scaricabili attraverso la propria App Gallery.
Il governo di Pechino porta a compimento il proprio sistema di navigazione satellitare, BeiDou, alternativo al Gps americano, intensifica i propri sforzi in Africa, nel Pacifico, in America Latina nella realizzazione della componente digitale della nuova Via della Seta (la Belt and Road Initiative) con la posa di cavi di connettività sottomarini, la firma, tramite Huawei, di accordi di collaborazione con l’Unione Africana, gli investimenti e i finanziamenti a pioggia, e la sponsorizzazione di iniziative di alfabetizzazione digitale.
Nel campo degli investimenti, merita particolare attenzione la strategia cinese di accaparramento di alcuni minerali fondamentali per la realizzazione di componenti e strumenti della rivoluzione tecnologica e digitale: dal litio per le batterie al tantalio e al cobalto per gli smartphone: si stima che il 70% della raffinazione mondiale di cobalto sia in mano a gruppi cinesi.
Ancora più importante, sul piano strategico, sottolineano Francesca e Luca Balestrieri nel loro approfondito libro “Guerra digitale”, è il dominio cinese nel campo delle “terre rare”, diciassette minerali poco noti, concentrati al 70% su suolo cinese e indispensabili per la produzione di apparecchi elettronici: smartphone, computer, tablet, ma anche di turbine eoliche e auto elettriche.
Attualmente l’80% per cento delle terre rare usate nell’industria statunitense, proviene direttamente o indirettamente dalla Cina. Un blocco, per ora soltanto ipotizzato, delle esportazioni di queste minerali potrebbe avere un effetto devastante sull’economia Usa.
Il nodo degli standard
Infine, c’è un altro fronte su cui America e Cina, assieme a Europa e Giappone, dovranno confrontarsi per emergere, ed è quello della definizione degli standard, le specifiche tecniche che guideranno il comportamento e l’interoperabilità di tecnologie come AI, IoT e 5G. Quest’anno verrà reso pubblico China Standards 2035, un piano del governo cinese che punta a proseguire l’opera iniziata con Made in China 2025. Se quest’ultimo puntava a trasformare le aziende cinesi da semplici realizzatrici di idee e prodotti concepiti altrove a società leader nell’innovazione, il primo mira invece a renderle in grado di dettare le regole del gioco.
Perlomeno, nelle intenzioni. Tradurre in pratica quest’ambizione potrebbe non essere così semplice: la definizione degli standard è di solito un processo cooperativo, deciso a livello internazionale tramite il coinvolgimento di appositi organismi super partes. In quelle sedi, Stati Uniti e Europa hanno ancora molte carte da giocare, anche se l’attività di lobbying e di ricerca cinese non va sottovalutata.
In ogni caso, il multilateralismo nella definizione degli standard, mette in luce una delle fondamentali differenze fra la vera “guerra fredda” e l’attuale scontro sul digitale. Mentre nel ‘900 si è assistito alla lotta fra due blocchi ben distinti a chiaramente contrapposti, di quanto accade oggi, grazie alla globalizzazione e alla tecnologia che travalica le frontiere, non si può dire lo stesso. La Cina, a differenza dell’Unione Sovietica, è profondamente integrata nel sistema economico mondiale e, grazie anche ai suoi 1,3 miliardi di abitanti, ha un peso ben diverso. Più che a un muro contro muro, è probabile che si andrà incontro a momenti di scontro, alternati a momenti di collaborazione.
Si spiegano così anche gli ultimi provvedimenti del Dipartimento del Commercio americano, che ha introdotto un’eccezione al divieto imposto alle aziende americane di fare affari con Huawei. Potranno collaborare con l’azienda cinese (e quindi condividere know-how), dice il governo Usa, all’interno degli organismi internazionali che hanno il compito di mettere a punto o rivedere gli standard tecnologici.
E si spiegano così anche i numerosi dubbi del governo e dei vendor britannici, sull’opportunità di escludere del tutto – come richiesto dagli Usa – Huawei dalla realizzazione delle reti 5G nazionali.
Anche perché la leadership “morale” su cui gli Usa hanno potuto far leva fino a qualche tempo fa è stata gravemente intaccata prima dagli scandali sullo spionaggio di Stato rivelati da Snowden e poi dalla politica “America first” del governo Trump il quale, fra le altre cose, non si è fatto scrupolo di difendere l’assassinio e lo smembramento di un giornalista americano per mano saudita, in nome della difesa di alcuni interessi economici.
Conclusioni
Piaccia o meno, il mondo ormai è troppo integrato per l’isolazionismo. Più di chi si affida al boicottaggio, la guerra fredda digitale verrà probabilmente vinta, come afferma il Brookings Institute,
- da chi investirà di più in ricerca e sviluppo;
- da chi saprà coltivare talenti STEM
- e da chi avrà una strategia di lungo periodo che sappia fondere al meglio la componente militare e industriale con quella accademica e governativa.
In alcuni di questi campi, attualmente la Cina sembra avere le idee più chiare, ma è presto per decretare un vincitore.