Il Governo Usa ha deciso di prorogare per altri 45 giorni l’entrata in vigore di molti dei divieti connessi con il “ban” di Huawei, sancito il 15 maggio 2019 con l’inserimento dell’azienda cinese e di 68 delle sue “affiliate” nella lista delle cosiddette “Entities of National Security Concern” del Dipartimento del Commercio USA. Mosse anche nuove accuse nei confronti dell’azienda, rea di aver violato il RICO (Racketeer Influenced and Corrupt Organizations Act). Vediamo di cosa si tratta.
Fatto sta che il nuovo differimento dell’entrata in vigore del ban sposta i suoi effetti a quasi un anno di distanza da quando lo stesso è stato per la prima volta annunciato e ciò costituisce un indice esemplare della natura politica della contesa: se davvero Huawei fosse la pericolosa associazione criminale che dipinge il Dipartimento del Commercio, lasciarla per un anno libera di lavorare negli Stati Uniti non sarebbe esattamente la strategia più oculata.
Di proroga in proroga
A far data dal primo aprile, salvo ulteriori proroghe, per le aziende Usa non resterà che chiedere al Dipartimento del Commercio americano di emettere autorizzazioni per singole collaborazioni con l’azienda di Shenzhen, autorizzazioni che verranno concesse dopo un attento vaglio sull’assenza di “potenziali rischi per la sicurezza nazionale statunitense”.
La decisione di inserire Huawei nella “lista nera” faceva seguito a un ordine esecutivo firmato da Donald Trump in cui il Presidente degli Stati Uniti lamentava i rischi legati a una divulgazione non regolamentata delle tecnologie americane e delle intromissioni straniere nelle infrastrutture tecnologiche americane.
Da allora, il Dipartimento del Commercio ha differito più volte l’entrata in vigore di molti dei divieti connessi con il “ban” emanando una “Temporary general license” che consente agli operatori americani di continuare a lavorare con Huawei e le sue affiliate.
Allo stesso tempo, il Dipartimento del Commercio ha esteso la lista delle “affiliate” di Huawei, arrivando (in ottobre) ad includere oltre cento aziende nella lista delle Entities, tra cui numerose filiali estere del gruppo.
L’ultima “proroga” che aveva differito gli effetti del ban fino al 16 febbraio 2020, è stata estesa il 13 febbraio scorso dal Dipartimento del Commercio che, con una nota, ha precisato che le ragioni di quest’ultimo provvedimento non si discostano da quelle delle precedenti proroghe, ovvero garantire il funzionamento delle infrastrutture di telecomunicazione gestite da Huawei che servono le zone rurali degli USA e che difficilmente possono gestire un ricambio così repentino dei loro fornitori.
Unica differenza è quella della durata della temporary general license che, mentre nei precedenti provvedimenti dell’amministrazione USA si estendeva per 90 giorni, nel provvedimento assunto il 13 febbraio si ferma a soli 45 giorni di proroga.
Le nuove accuse contro Huawei
Nella nota diffusa il 13 febbraio scorso, il Dipartimento del Commercio ribadisce anche la necessità dei divieti emessi nei confronti della società cinese e delle sue affiliate, sostenendo che Huawei avrebbe violato l’International Emergency Economic Powers Act (IEEPA), fornendo servizi finanziari all’Iran, ed avrebbe poi ostacolato le indagini USA tese a dimostrare tali violazioni.
La novità, da questo punto di vista, è però la nuova accusa ufficialmente mossa dal Dipartimento di Giustizia (comunicata in una nota diffusa sempre il 13 febbraio) secondo cui Huawei avrebbe cospirato per ottenere illecitamente proprietà intellettuali sensibili delle sue controparti americane, violando così il RICO.
Le accuse sono state presentate il 12 febbraio davanti alla Corte Federale di Brooklyn, New York, che si occuperà del caso, e si innestano sul procedimento nei confronti del CFO di Huawei Wangzhou Meng, arrestato in Canada il primo dicembre 2018.
Il processo vedrà coinvolti Huawei e quattro sue filiali (ufficiali e non): Huawei Device Co. Ltd., Huawei Device USA Inc., Futurewei Technologies Inc., e Skycom Tech Co. Ltd. (l’azienda che secondo gli USA costituirebbe una affiliata “non ufficiale” di Hiawei creata per negoziare liberamente con l’Iran aggirando i divieti dello IEEPA), nonché il Chief Financial Officer (CFO) di Huawei Wanzhou Meng.
Nella propria nota il Dipartimento di Giustizia dettaglia i comportamenti che avrebbe realizzato Huawei. Secondo gli USA, il gigante del tech cinese e le sue “complici” da oltre dieci anni avrebbero cospirato per appropriarsi indebitamente di proprietà intellettuali americane nel settore tecnologico, per proprio tornaconto.
L’attività avrebbe consentito a Huawei di ottenere il codice sorgente di router statunitensi, nonché tecnologie nel campo delle antenne per le telecomunicazioni e della robotica.
Sempre secondo l’accusa, i metodi della presunta appropriazione indebita includevano l’acquisizione in licenza di tecnologia USA con la stipula di accordi di riservatezza con i titolari della proprietà intellettuale, accordi che poi venivano sistematicamente violati da Huawei per potersi appropriare della tecnologia concessa in licenza.
Altre “tecniche ” consistevano nel reclutamento di dipendenti di altre società, con richieste rivolte a questi ultimi di appropriarsi e “trafugare” proprietà intellettuale dei loro ex datori di lavoro. Ancora, il Dipartimento di Giustizia afferma che Huawei collaborava con professori universitari di college statunitensi perché questi concedessero al colosso cinese tecnologia sviluppata nei loro istituti.
Infine, Huawei avrebbe incoraggiato i propri dipendenti (con lauti bonus) a ottenere e consegnare informazioni riservate ottenute dai concorrenti.
L’attività fraudolenta avrebbe consentito, secondo la tesi del Dipartimento di Giustizia, a Huawei un drastico risparmio nelle proprie spese di ricerca e sviluppo.
Sebbene sia troppo presto per formulare giudizi e prognosi su un’accusa così grave, senza dati certi, si tratta comunque di un altro segnale contraddittorio da parte del governo americano nello sviluppo della complessa vicenda che vede coinvolti Huawei (e di riflesso la Cina) e gli Stati Uniti.
Come è successo lo scorso ottobre, il governo USA dimostra di non voler andare a fondo con il ban, posponendone gli effetti, ma contemporaneamente cerca di mostrare i muscoli con movimenti aggressivi su terreni di scontro connessi: ad ottobre era toccato all’estensione della lista delle affiliate, oggi è il turno delle nuove accuse del Dipartimento di Giustizia.
Mentre gli USA ingaggiano con Huawei questo complesso gioco al rinvio, il colosso di Shenzhen si è organizzato per affrontare l’entrata in vigore delle restrizioni americane.
Le reazioni di Huawei
Nonostante le difficoltà, il 2019 è stato un anno molto positivo per Huawei, che anche grazie al sostegno ricevuto nel mercato cinese dopo il ban, ha venduto oltre 6,9 milioni di smartphone 5G nel 2019 e spedito oltre 230 milioni di dispositivi in totale.
Un anno da record che, secondo gli stessi rappresentanti di Huawei, sarà ben difficile replicare nel 2020, anche se l’azienda mette in guardia gli USA affermando che la loro forza è stata sottovalutata dagli americani.
In questi mesi Huawei ha rinegoziato i propri accordi con Google ed ha provato a distribuire su alcuni mercati chiave dei prodotti senza i servizi Google, come il Mate 30, puntando sulla qualità assoluta del suo hardware (il cui sistema tra l’altro è mosso da un processore Kirin, ovvero l’alternativa cinese ai processori USA di Qualcomm).
Lo smartphone è equipaggiato con la versione di Android AOSP (Android Open Source Project) che non include il play store e le varie applicazioni preinstallate di Goolgle.
Le prove effettuate dagli utenti che hanno acquistato il telefono evidenziano come alcune applicazioni facciano sentire la mancanza dei corrispondenti prodotti Google, ma nel complesso è possibile avere un’esperienza d’uso soddisfacente.
E’ inoltre possibile installare i servizi Google dopo la vendita sugli smartphone con Android AOSP, ma questa soluzione aftermarket presenta delle difficoltà per l’utente medio e non può essere certo la strada maestra per Huawei (diversa questione invece per il mercato dei laptop, dove può essere il retailer ad “abbinare” al prodotto Huawei una licenza Microsoft Windows, in tutti quei mercati in cui sia possibile negoziare con il produttore cinese).
Huawei si sta muovendo anche dal punto di vista delle applicazioni. L’ecosistema delle app è l’esternalità che muove il mercato degli smartphone ed è quindi essenziale per Huawei poter offrire sui propri smartphone al di fuori del mondo Google delle applicazioni di primo piano e costantemente aggiornate. Sul punto non è chiaro cosa intenda fare l’azienda, che dapprima è stata avvicinata dalla stampa alla Global Developer Service Alliance (GDSA) che già riunisce gli altri produttori cinesi Xiaomi, Oppo e Vivo ed è finalizzata alla facilitazione nello sviluppo delle app dei tre produttori ed all’integrazione dei rispettivi app store proprietari. Questa notizia non ha però ricevuto conferme, con Xiaomi che ha subito precisato in un comunicato stampa come la GDSA non sia un progetto in competizione con il play store di Google.
Huawei, nel frattempo, ha anche proseguito nello sviluppo del proprio software proprietario, un vero e proprio sostituto di Android, che inizialmente si chiamava Hongmeng OS e ora ha preso il nome di Harmony OS (sebbene Huawei non abbia ancora adottato una nomenclatura ufficiale).
Sul punto le notizie che si sono rincorse e le dichiarazioni dei rappresentanti di Huawei sono generiche e in parte contraddittorie, inoltre, sebbene qualcuno avesse ipotizzato una prima uscita di smartphone equipaggiati con Harmony OS ancora a novembre scorso, ad oggi solo una linea di prossima uscita di televisori venduti da Huawei a marchio Honor sarà mossa dal nuovo sistema operativo, che sembra concepito non tanto per gli smartphone quanto per i dispositivi IoT di nuova generazione.
Le ultime notizie parlano comunque della possibilità che Huawei sviluppi inizialmente degli smartphone con la possibilità di dual-boot, in Android AOSP da un lato ed in Harmony OS dall’altro, anche se per ora si tratta di un’ipotesi tutt’altro che concreta.
Le reazioni dei colossi del tech americano
In vista dell’effettiva entrata in vigore del ban, già 50 aziende americane, stando alle informazioni del Dipartimento del Commercio, hanno richiesto l’emissione di licenze temporanee per proseguire nelle collaborazioni commerciali con Huawei, sintomo del non sopito interesse delle aziende tech americane per il partner cinese.
Per risolvere queste problematiche a Washington il procuratore generale William Barr ha suggerito che gli Stati Uniti assumano una “partecipazione di controllo in Ericsson o Nokia per contrastare la posizione dominante di Huawei nello sviluppo delle infrastrutture per il 5G”.
Le reazioni delle altre nazioni
Altro piano su cui si sviluppa la contesa è quello delle varie nazioni, più o meno vicine agli USA, che stanno attualmente negoziando con Huawei numerosi contratti per lo sviluppo delle infrastrutture per il 5G nei rispettivi paesi.
Quella che si sta giocando è una complessa partita a risiko in cui Huawei punta alle infrastrutture 5G e promette un parallelo sviluppo delle relazioni commerciali con la Cina (in alcuni casi neanche troppo velatamente, come è emerso dalle notizie relative a pressioni da parte dell’Ambasciata Cinese in Danimarca sulle Isole Faroe affinché affidassero a Huawei alcuni contratti relativi allo sviluppo della rete) e le varie nazioni reagiscono più o meno timidamente a seconda dell’influenza che gli Stati Uniti esercitano su di loro e della paura di perdere o di far perdere alle loro aziende la possibilità di commerciare con gli USA.
Rimane poi, soprattutto nei paesi occidentali, la paura che le reti 5G siano il cavallo di troia con cui il governo cinese punta a garantirsi una comoda posizione di controllo finalizzata ad attività di spionaggio. Sul punto il portavoce della Casa Bianca Robert O’Brien l’11 febbraio ha riferito al Wall Street Journal (pur senza scendere in dettagli) che Huawei avrebbe a disposizione una backdoor con cui potrebbe “estrarre” a suo piacimento il traffico dati che transita sulle sue reti. I timori dei vari governi saranno poi senz’altro acuiti dal procedimento di cui ha appena dato notizia il Dipartimento della Giustizia USA promosso nei confronti di Huawei proprio per la sua attività di spionaggio industriale.
In Europa i singoli stati e l’Unione esercitano cautela, da un lato ci sono delle forti resistenze all’esclusione di Huawei dalle gare relative alle infrastrutture per il 5G (anche perché si calcola che una simile esclusione rallenterebbe lo sviluppo della tecnologia e ne alzerebbe i costi), ma dall’altro ci sono forti timori circa le ingerenze di Pechino nelle infrastrutture realizzate dal colosso di Shenzhen.
Il toolbox Ue
Sul punto l’Unione Europea ha diramato il 29 gennaio delle linee guida chiamate: “Sviluppo sicuro del 5G nell’UE – Implementazione della toolbox UE” in cui viene raccomandato agli stati membri di effettuare una accorta valutazione dei rischi prima di negoziare gli sviluppi della rete 5G e di evitare situazioni di dipendenza attuando un approccio multi-vendor.
Nel documento si distingue così tra “core network” e “non-core network” con l’indicazione di escludere soggetti “inaffidabili” da queste “infrastrutture sensibili” (si tratta delle reti considerate “critiche” per l’infrastruttura 5G e/o attraverso cui transitano dati particolarmente sensibili), lasciando invece la possibilità di partecipare a una platea più ampia di soggetti (e quindi anche a Huawei) per le gare relative ai c.d. “non-core network”.
La reazione di Huawei non si è fatta attendere, con la diffusione di una nota in cui si plaude all’“approccio imparziale e basato sui fatti nei confronti della sicurezza del 5G” adottato dall’Europa.
L’Inghilterra ha assunto misure simili a quelle dell’UE, a cui si aggiunge l’imposizione di un limite del 35% sull’uso di tecnologia Huawei, che però a quanto pare non è bastato agli USA, che hanno chiesto uno sforzo maggiore al proprio principale partner commerciale europeo.
Queste notizie hanno in ogni caso portato Vodafone alla decisione di rimuovere le apparecchiature prodotte da Huawei dalla sua core network in tutta Europa, pur riconoscendo che una simile decisione comporterà dei ritardi nello sviluppo di questa tecnologia.
Per quanto riguarda l’Italia il D.L. 105/2019 sul “perimetro di sicurezza cibernetica” ha posto limiti e controlli nel caso di affidamento delle infrastrutture a soggetti esterni all’Unione Europea, lasciando comunque aperta la possibilità a questi ultimi di partecipare alle gare.
Il decreto prevede la possibilità per il governo di esercitare “poteri speciali inerenti le reti di telecomunicazione elettronica a banda larga con tecnologia 5G”, da esercitare “previa valutazione degli elementi indicanti la presenza di fattori di vulnerabilità che potrebbero compromettere l’integrità e la sicurezza delle reti e dei dati che vi transitano“.
Cosa attendersi per il futuro
Huawei ha già delineato la propria strategia per il futuro, senza nascondere che si tratterà di un futuro difficile e che non riuscirà (almeno nel breve periodo) a replicare i risultati straordinari degli anni passati.
Innanzitutto, l’azienda ha iniziato a testare prodotti senza i servizi Google, puntando con decisione sull’eccellenza hardware che è riuscita a raggiungere, quindi il colosso di Shenzhen sta cercando di rafforzare la propria presenza nei mercati tradizionalmente ostili agli Stati Uniti e di sviluppare un prodotto concorrente rispetto a quelli americani che finora ha sfruttato.
Gli altri fronti sono però più interessanti, con Huawei che sta cercando di raggiungere l’autonomia anche dal punto di vista delle componenti e del software e sta cercando nuovi partner in Cina e al di fuori.
L’estensione tentacolare dei divieti USA rischia però di mettere i bastoni fra le ruote a Huawei, con i nuovi partner che potrebbero essere restii a collaborare per non essere considerati “affiliati” a Huawei rischiando di essere inseriti a loro volta nella lista delle Entities.
Inutile nascondersi, in ogni caso, che il rischio, per gli Stati Uniti, è che questa politica diventi nel tempo un boomerang che attenui la dipendenza tecnologica della Cina dalle aziende americane e finisca per ledere l’egemonia statunitense in certi settori tecnologici.
Il braccio di ferro Usa ha senso solo nel breve periodo e in vista di un accordo, ma il fatto che la politica estera americana appaia confusa e senza una precisa strategia legittima preoccupazioni su questo fronte, con le aziende statunitensi del settore tecnologico che infatti hanno avversato queste politiche.
Il 5G, che doveva essere un semplice traguardo per il settore tecnologico cinese, rischia così di diventare la bandiera di un ritrovato orgoglio nella Repubblica Popolare e portare all’irrigidimento di quel percorso di autarchia tecnologica – pericoloso per tutto il mondo occidentale – su cui già si sta orientando il governo di Pechino.