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Automotive, ecatombe europea: la lezione di Byd e Tesla



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La crisi dell’automotive europeo potrebbe essere una crisi di modello gestionale. Tesla e BYD insegnano come visione imprenditoriale e innovazione siano cruciali per il successo nel mercato automobilistico futuro

Pubblicato il 20 nov 2024

Francesco Vito Tassone

imprenditore nel Cleantech



byd e tesla (1)

Partiamo da una domanda: e se la crisi dell’automotive europeo non fosse altro che una crisi del modello di impresa europea?

Facciamo un poco d’ordine per capire se il crollo di competitività dell’automotive europeo sia dato dalla narrazione che intervista dopo intervista i CEO protagonisti raccontano – sintetizzando “dumping cinese, costi ingestibili” – oppure se ci troviamo di fronte a una crisi di management.

Come primo punto di vista quindi diamo uno sguardo ai campioni che di questa crisi stanno approfittando uno a oriente ed uno ad occidente e alla storia che ne ha decretato il successo.

Byd e Tesla: le cose che hanno in comune

Anche se BYD nasce un poco prima, nel 1995, per entrambe le società coincidenza vuole veder nascere la componente automotive nel 2003. Entrambe le società, quindi, hanno identificato un problema, le emissioni e l’inefficienza del settore, entrambe hanno trovato uguale soluzione. La più ovvia, un’auto elettrica a batteria.

I motivi, sottolineati anche da tutti i report che analizzano scientificamente il problema, sono due. Il primo: l’efficienza energetica del sistema batteria, inverter, motore elettrico è circa tre volte quella del miglior turbodiesel dell’epoca. Il secondo è: se dobbiamo andare di rinnovabili, mettere la corrente in una batteria è molto più efficiente di qualsiasi sistema di conversione elettrochimica, vedi idrogeno, e-fuel etc. anche qui da 2 a 4 volte.

Dietro entrambe le aziende ci sono sicuramente due personalità visionarie: Elon Musk e Wang Chuanfu, ma già in quegli anni si può vedere come l’idea della mobilità elettrica sia anche la scommessa del partito comunista cinese, e vede nel terzo visionario, Wan Gang, colui che ha convinto i cinesi a puntare tutto sull’elettrico, il vero padre dell’auto elettrica moderna, ben prima di Musk &C. Laureato nel 91 in Germania passa i primi anni in Audi e a fine anni Novanta convince il governo cinese ad un all-in sull’auto elettrica.

Wan Gang e l’ascesa della Cina nell’auto elettrica

Con queste argomentazioni semplici: l’inquinamento delle città cinesi è alle stelle. La Cina deve anche ridurre la sua dipendenza dall’estero, in particolare le importazioni di petrolio. Competere con gli europei sull’auto tradizionale non è alla portata il divario non è colmabile. Lui è così credibile che i cinesi iniziano a credere sull’auto elettrica. La filiera automotive in Cina c’era già, sull’elettrico l’esperienza su batterie ed elettronica pure e nel 2001 diventa progetto prioritario nel piano quinquennale di ricerca del partito comunista cinese.

Wan nel 2007 diventa ministro della scienza ed in quel momento tutto accelera: nel 2009 il governo inizia con i sussidi per le aziende produttrici, (anche occidentali) dando due certezze, da una parte gli aiuti dall’altra la creazione di un mercato interno. Anche attraverso meccanismi per cui le auto elettriche non erano sottoposte a limiti di acquisto nelle grandi città come Pechino, mentre quelle a combustione erano razionate.

Nel 2010 investe nella transizione elettrica per il trasporto pubblico, assicurando appalti alle aziende che così avevano un mercato su come svilupparsi. Dal 2009 al 2022 il governo investe in aiuti 29 miliardi di dollari in aiuti.

Gli investimenti di Musk in Cina e la strategia cinese

Ma ancora non basta. Pur avendo i più grandi player mondiali sul proprio territorio, il partito ne intuisce i limiti. I soli aiuti non renderanno i produttori cinesi capaci di competere a livello mondiale. La competizione con i produttori storici impiantanti in Cina è solo rendita. Bisogna che i cinesi competano con qualcuno che l’innovazione la sta facendo sul serio. Quindi applica il principio: per diventare un pugile da medaglia d’oro è utile avere uno sparring partner che sia campione del mondo ed ecco che nel 2019 convince Elon Musk ad investire in Cina. E lo fa offrendo condizioni uniche che nessun altro gruppo industriale automotive ha mai ottenuto prima.

Ad esempio non pretende una joint venture. La Tesla di Shanghai è una società al 100% Tesla. Offre un luogo perfetto per facilitare l’export.

Il governo concede a Tesla i diritti d’uso del terreno per un periodo iniziale di 50 anni, 521 milioni di dollari in prestiti da banche cinesi a tassi di interesse favorevoli e 82 milioni di dollari in finanziamenti a fondo perduto.

Tempi di realizzazione alla cinese. Condizioni che non sono mai state offerte né prima né dopo a nessun player straniero.

Lo scopo è semplice. Far competere i cinesi con un rivale avanzato, far imparare i fornitori ad operare nel mercato del futuro secondo gli standard del futuro. Così come dietro la Volkswagen migliaia di imprese cinesi hanno imparato a lavorare nella meccanica e filiere meccaniche con standard di livello globale, i cui prodotti hanno successivamente invaso il mondo, così come dietro la Apple fornitori cinesi hanno imparato la micromeccanica e l’elettronica, con cui hanno inondato il mondo con prodotti di successo. Così come successo nei treni e nelle navi e succederà negli aerei. Adesso era il turno dell’automobile del futuro. Non concentrandosi su medie tecnologie obsolete, ma sullo smartphone a quattro ruote.

Il piano per il mercato domestico funziona alla grande. Oggi il mercato cinese supera i 6 milioni di automobili, presenta centinaia di modelli caratterizzati da prezzi bassi e tanta innovazione e, pur avendo un reddito pro-capite di circa 13.000 dollari contro i 35.000 europei, ha visto un’auto su due venduta sul mercato domestico essere elettrica.

I motivi del ritardo europeo nell’auto elettrica

Tornando in Europa, i player europei presenti in Cina hanno avuto gli stessi livelli di aiuto di molti produttori cinesi. Ed hanno assistito in diretta all’attuazione del piano.

Anche se non nella totalità del parco auto, i segnali che nel futuro della mobilità ci sarebbe stata la trazione elettrica c’erano da tempo. La prima generazione della 500 elettrica data 2013. Il progetto Z.E di Renault che portò poi alla Renault ZOE è del 2008.

Come è possibile che la potenza dell’automotive europeo non abbia saputo competere?

I numeri sono impietosi: nel 2018 (per avere un anno precovid), Tesla perdeva 1 miliardo di euro, fatturava 21 miliardi e vendeva 240.000 auto, meno di un medio stabilimento di un qualsiasi player europeo e molto meno delle grandi fabbriche europee in giro per il mondo. BYD neanche era visibile nelle statistiche con ricavi per 120 milioni.

Se prendiamo il 2018, ma anche 2019 o 2020 abbiamo un mercato automotive in cui è chiaro il futuro elettrico. La California, ma anche l’Ue lo avevano già legiferato, il mercato delle quotazioni di borsa lo aveva già assimilato con differenze di multipli monstre. È evidente che una parte importante del futuro della mobilità sarà elettrico. Se guardiamo a Tesla e BYD di quegli anni hanno risorse finanziare, capacità industriale e di marketing ridicole rispetto ai player del automotive.

Nel 2018, per avere un metro, quasi la metà delle auto prodotte al mondo era made in EU, 42 milioni su 96 milioni, e con i player europei leader sul mercato cinese, con il solo gruppo Volkswagen che aveva una quota del 50% sul mercato cinese. L’Idea che quindi BYD e cinesi da una parte e Tesla dall’altra avessero la dimensione per competere con le economie di scala di cotanti giganti sembra una barzelletta. Sono gli stessi anni in cui i CEO delle principali case non facevano altro che dire a mezzo stampa che per sopravvivere bisognava avare una dimensione di almeno dieci milioni di autoveicoli. Figuriamoci poche centinaia di migliaia.

Sono anche gli anni in cui un CEO europeo, molto quotato dalla stampa, pregava i consumatori di non comprare ad esempio la 500 elettrica, in quanto in perdita. Stesse perdite che però sono state usate da Tesla e BYD per imparare a fare un prodotto competitivo, ad acquisire dati, a creare un mercato. Lo stesso CEO sosteneva che il giorno in cui sarebbe servito avere auto elettriche i player europei avrebbero colmato in GAP in un attimo.

La spesa in R&D

Se guardiamo i dati di spesa in R&D il confronto è ancora più impietoso. In Europa parliamo di una media di circa 50mld€/annui spesi dalle principali case automobilistiche, con un picco nel 2023 a 73mld/€.

Quindi anche lato R&D la potenza di fuoco dell’automotive europeo era ed è ancora oggi enorme, incomparabile a Tesla e Byd. Sempre Tesla nel 2019 spendeva a malapena 1,5 miliardi, per arrivare a 4 mld/€ nel 2023, in cui però abbiamo anche i robot optimus, i chip per supercomputer DOJO e molti altri progetti che non riguardano il mondo auto.

Una spesa che non raggiunge il 5% di quanto spendono in dell’R&D i big europei. Come è possibile allora la crisi attuale? È inutile girarci intorno gli indizi portano al management.

LA lezione per l’automotive europeo

Byd e Tesla sono aziende a guidate da imprenditori visionari. Che fanno le cose non perché le chiede il mercato, ma per creare il mercato.

L’automotive europeo dello scorso anno ha realizzato più di cento miliardi di utili, tra case e fornitori, e tra gli investimenti per il futuro non abbiamo visto le mega fabbriche di batteria, le nuove tecnologie, quasi tutte in stand-by, con la giustificazione “non abbiamo successo con gli attuali modelli e siamo in attesa che ci sia la domanda del mercato”, quindi? Riacquisto di azioni proprie. Che tradotto in italiano vuol dire “facciamo contenti gli azionisti facendo alzare artificialmente il valore delle loro quote, e incassiamo mega premi da stock option”.

Stellantis lo scorso anno ha fatto utili per quasi 19 miliardi, negli ultimi 2 anni la sola liquidità usata per riacquistare azioni proprie è stata superiore al budget R&D di Tesla.

Ma ci sono due aspetti che ancora l’automotive europeo non ha compreso. Serve vera innovazione che passa da metodo di lavoro e supply chain. Le rendite sono finite.

Il metodo alla base del successo di Byd e Tesla

Alla base del successo di questi nuovi piccoli player che crescono a doppia cifra c’è il metodo di lavoro, molto più simile ad una startup della Silicon Valley, che alle grandi industrie manufatturiere. La capacità di partire da un foglio bianco, ed attraverso tentativi di innovazione molto frequenti e ravvicinati tra loro cercare la strada giusta, dipendenti motivati e coinvolti nei progetti, senza preoccuparsi di una supply chain. Così facendo hanno cambiato il modo di progettare e costruire auto. Oggi una Tesla ed una BYD sono quasi interamente made in Tesla e BYD.

Ed ecco che quindi una Tesla ha una sola centralina che gestisce dall’infotainment all’autopilot, ai tergicristalli, una media utilitaria europea ne ha più 50, che spesso non parlano tra di loro non aggiornabili. In gran parte fornite da terze parti.

Mentre Tesla e ormai molti cinesi realizzano il pianale, il telaio frontale, o quello posteriore, in un unico componente grazie allo stampaggio ad iniezione dell’alluminio, il famoso Megacasting, i produttori europei ancora usano lo stampaggio di lamiere saldate, con tempi di produzione incredibilmente più lunghi, decine di componenti, e precisioni e rigidità non confrontabili.

Mentre ormai sia per i cinesi che per Tesla, il software è la grande business unit che permette di creare il vantaggio competitivo, aggiornabile on-air- che porta innovazione sui componenti, dalla gestione della batteria all’erogazione della potenza, dalla user experience all’infotainment, in Europa abbiamo brand anche di lusso che per avere un sistema decente si devono appoggiare un Google o Apple, e magari il supporto lo forniscono pure a pagamento.

Tesla, BYD, CATL, Samsung, Panasonic etc. investono miliardi sulle linee di produzione delle batterie per migliorare processi, non aspettando la domanda. Se guardiamo quanto tempo ha dovuto spendere Tesla per imparare a produrre in modo decente il rivoluzionario formato di batterie 4680, abbiamo un metro della “production hell” dell’industria delle batterie. Introdotta ufficialmente nel 2020 è realmente riuscita a essere efficiente nella produzione nel 2024. Gli europei non hanno neanche iniziato ad imparare.

Come se ne esce? Le domande che l’Europa dovrebbe porsi

Negli ultimi dieci anni cosa ha introdotto l’automotive europeo? Quali fabbriche ha costruito? Ha semplicemente bussato alla porta di cinesi e coreani per comprare le batterie, in alcuni casi proprio il prodotto già pronto. Quando arriveranno al mercato saranno obsoleti, con cinesi, americani e coreani 3 generazioni avanti e con costi più bassi.

La recente partnership tra il gruppo Volkswagen e Rivian per avere accesso al software, e la quasi chiusura della divisione interna software Cariad, la dice lunga sulla difficoltà della prima nel gestire in house queste innovazioni.

Come se ne esce? A sentire i vari attori europei, al netto di Luca De Meo CEO Renault non se ne esce. Si parla di costi, di fabbriche chiuse, di aiuti pubblici, ma mai di vera innovazione, di prodotti che i consumatori vogliano acquistare ad un prezzo che sono disposti a pagare. Come le varie Kodak, Blockbuster, Nokia, Blackberry, o la fine che ha fatto la Rust Valley sembra il preludio di una ecatombe. Con una aggravante. Più che preoccuparci del come salvare aziende, le cui strutture interne rendono impossibili in tempi ragionevoli le innovazioni, dovremmo preoccuparci del perché non ci sia una Byd o Tesla europea. Così come non c’è una Amazon, Facebook, Netflix, Microsoft, Open AI etc. Europea.

Delle prime 10 aziende europee per capitalizzazione la più recente è SAP che ha 52 anni. Imparare dall’esperienza cinese potrebbe essere in questo caso molto utile. Domandiamoci se è possibile per una startup europea vendere innovazione ad una istituzione pubblica. Facciamo un esempio più chiaro. Partiamo dagli USA. SpaceX è diventata quello che è oggi grazie ad un contratto vinto nel 2006, senza che fesse riuscita a completare all’epoca una sola missione, committente NASA da quasi 400 mln per il Commercial Orbital Transportation Services (COTS). Grazie a questo contratto ha attirato investitori e talenti.

Chiediamoci se in Europa una startup allo stesso stadio, senza missioni di successo, avesse potuto vincere un contratto da quasi 400 milioni con ESA. La dinamica europea sarebbe stata: mega-partneship pubblico privato, capofila i vari Airbus, Ariane etc. 20 università e 10 paesi coinvolti, 4 miliardi di spesa, e come output un lanciatore obsoleto con 20 anni di ritardo.

Non è un’iperbole, ma la descrizione del programma Ariane 6, costato 4,3 miliardi di dollari con risultato un lanciatore che costa 75 milioni di euro a lancio con oltre un decennio di ritardo.

Domandiamoci se ha senso come Europa spendere annualmente 328 miliardi in R&D, molto più dei cinesi, se questo è il risultato. Non vi è stata una presenza significativa nei settori dell’innovazione sviluppati negli ultimi 30 anni. Questo riflette un problema di fondo a livello europeo. Pensare che grandi aziende e grandi budget uguale innovazione, quando il luogo peggiore è più improbabile per fare innovazione sono le realtà consolidate, dove l’innovazione vera, quella disruptive, più che una opportunità è un problema molto grosso da gestire. Ed ecco che abbiamo probabilmente dedicato più tempo ad innovare i fari delle automobili che a pensare se le auto che stavamo producendo avevano ancora senso o potessero essere diverse. Tutto cambia affinché nulla cambi

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