I bandi

Calderini (Miur): “Chiusa la prima fase smart city, al via la seconda”

Si è conclusa la stagione iniziale di un programma di finanziamenti da 1,2 miliardi di euro. E’ stato un grande esercizio di capacity building industriale e scientifico per imprese e centri di ricerca del nostro Paese. Ora il problema di un creare mercato per le competenze e le capacità delle imprese italiane. Parla la mente dietro i bandi Smart Cities&Communities

Pubblicato il 05 Mar 2013

Mario Calderini

Politecnico di Torino

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Con la pubblicazione dei risultati del bando Smart Cities&Communities si conclude la prima fase di un programma di finanziamenti e di azioni legislative finalizzate a porre le pubbliche amministrazioni locali e i loro bisogni al centro delle principali iniziative di sostegno alla ricerca pubblica e industriale del Ministero dell’Università e della Ricerca.

In concreto, si può stimare che in circa il 60% del totale dei progetti finanziati dal Ministero nei passati diciotto mesi, i Comuni e le Città italiane abbiano avuto un ruolo centrale nell’indirizzare e nel validare in termini di bisogni emergenti l’offerta tecnologica proveniente dalle imprese e dal sistema della ricerca pubblica.

La fine della legislature segna anche un importante momento di discontinuità nel passaggio di competenze tra i Ministeri e la Agenzia per l’Italia Digitale, cui il cosiddetto Decreto Crescita 2.0 affida da oggi in poi il governo del programma Smart Cities & Communities.

Il futuro del programma si costruisce in primo luogo con l’analisi critica di ciò che è stato fatto fino ad oggi.

Al fine di tenere il dibattito ancorato alla realtà e non perdersi in una discussione astratta, occorre una piccola premessa di metodo. Le risorse disponibili erano prevalentemente regolate da leggi ed atti amministrativi risalenti a molti anni fa e non modificabili se non con azioni che avrebbero necessitato, per il loro perfezionamento, di tempi del tutto incompatibili, dell’ordine degli anni. In particolare due caratteristiche vanno tenute in conto e considerate come date: le risorse erano disponibili per progetti di ricerca industriale ed erano nella disponibilità del governo centrale. Quindi, in primo luogo, le amministrazioni locali non potevano in nessun modo essere beneficiarie dirette dei finanziamenti. E’ evidente a tutti che le Smart Cities sono processi emergenti e devono nascere bottom-up dall’iniziativa dell’amministrazione locale. Purtroppo, la natura delle risorse disponibili era compatibile solo con un’azione centrale, ancorché il più possibile inclusiva dei bisogni e delle ambizioni delle amministrazioni locali. Suggerisco, a chi giudica inadeguato il ruolo delle amministrazioni locali nei programmi finanziati, di riflettere sul fatto che, storicamente, nei programmi di ricerca industriale finanziati dal Governo, il ruolo di indirizzo delle pubbliche amministrazioni italiane in termini di bisogni è stato pressoché nullo. Aver posto al centro delle dinamiche di indirizzo dell’offerta di soluzioni tecnologiche i bisogni emergenti nelle città e nelle comunità italiane è, sotto questo punto di vista e a mio parere, un buon risultato.

Smart cities & communities va quindi giudicato in prima istanza come un programma di sostegno alla ricerca congiunta pubblica e privata. In questa prospettiva, vi è una domanda del tutto legittima posta dal sistema industriale e della ricerca: perché concentrare circa il 60% del budget di sostegno alla ricerca (per un totale di 1,2 miliardi di euro) in un perimetro così specifico come quello delle smart cities. Io credo che la risposta stia in un numero di ragioni.

In primo luogo la narrativa, o più esplicitamente il potenziale retorico di una metafora che si è dimostrata capace di intercettare attenzione, interessi e aspettative dei cittadini e degli amministratori pubblici, disintermediando corpi intermedi spesso legati a paradigmi tecnologici e innovativi ormai frusti. Ciò ha garantito, mi sembra, rendicontabilità sociale alla spesa in ricerca in un momento nel quale il contribuente fatica ad accettare una promessa di ritorno sociale legata a nebulose e generiche enunciazioni di risultati di medio lungo termine.

In secondo luogo, per la prima volta, il Governo ha utilizzato come unità elementare di azione, non un settore industriale o un settore scientifico, ma un perimetro applicativo di problemi legati a sfide sociali emergenti. Questo comporta implicitamente un ribaltamento di un’impostazione politica completamente sbilanciata sul lato dell’offerta e del tutto miope rispetto alle dinamiche della domanda di innovazione tecnologica. Inoltre, per le stesse ragioni, l’aver abbandonato una logica puramente settoriale e verticale rappresenta un grande motore di multidisciplinarità e di ibridazione di competenze, del quale l’industria, ma in questo caso in particolare l’accademia italiana, sembrano avere un gran bisogno.

Infine, la caratteristica duale dell’intervento. In un momento di risorse scarsissime, in particolare per le amministrazioni locali, è apparso di fondamentale importanza porre in atto politiche nelle quali l’investimento andasse contestualmente a contribuire alla costruzione di competenze distintive delle imprese italiane e alla messa in efficienza dei servizi della pubblica amministrazione o più in generale al miglioramento della qualità della vita dei cittadini nelle città italiane.

A molti è apparsa inoltre inutile la pre-specificazione dei potenziali domini applicativi da parte del Ministero, probabilmente con qualche ragione. Anche qui tuttavia, il dirigismo apparente maschera un intento strategico non privo di qualche giustificazione. I 1200 milioni di finanziamento ai progetti è, abbiamo detto, in primo luogo un grande esercizio di capacity building industriale e scientifico per imprese e centri di ricerca del nostro Paese. La domanda che ci si è posti è se un portafoglio di specializzazione dei progetti fortemente schiacciato sui temi dell’energia e della mobilità urbana, come ampiamente incoraggiato dalla Commissione Europea, fosse il più adeguato a garantire competitività internazionale all’industria italiana. In altre parole, la questione rilevante è, a mio parere, se sulle traiettorie più tradizionali delle Smart Cities le imprese italiane possano collettivamente giocare partite tecnologiche ancora aperte ovvero se traiettorie meno convenzionali, meno sfruttate e caratterizzate da asset distintivi del nostro Paese, possano aprire opportunità di mercato più significative. Penso al patrimonio culturale, al turismo, alle città di media dimensione, ai centri storici molto densi, ai modelli di inclusione caratteristici dei nostri modelli di volontariato e di cooperazione e molto altro ancora. Si è quindi creduto utile suggerire modelli di specializzazione alternativi, per fecondare quella che potremmo un po’ retoricamente definire la via italiana alle smart cities. Se l’esperimento riuscisse, potremmo favorire la creazione di piattaforme di competenze nazionali che ben si presterebbero a facilitare l’accesso ai mercati internazionali della progettazione e della realizzazione delle città intelligenti.

Molto sinteticamente, quindi, questo è il razionale dell’attività di capacity building industriale e scientifico sul tema smart cities&communities che si è conclusa qualche giorno fa.

Se, come tutti ci auguriamo, questo programma darà i frutti auspicati, si aprirà immediatamente un problema ancor più complesso: generare un vero mercato per le competenze e le capacità delle imprese italiane, mettendo in condizione le amministrazioni locali di realizzare concretamente le loro idee di smart cities ed evitando che l’enorme quantità di progetti sperimentali sostenuti nel corso di quest’anno dal Ministero alimentino un’incontrollabile entropia tecnologica senza trasformarsi in reali opportunità di mercato per le imprese e di miglioramento della qualità della vita dei cittadini.

All’azione trasversale definita dagli articoli 19 e 20 del Decreto Crescita 2.0 è affidato esattamente questo compito: realizzare una soft-governance tecnologica di livello nazionale dei progetti smart cities, predisponendo le migliori condizioni affinché da un lato le amministrazioni pubbliche siano in grado di sviluppare i loro progetti, data la difficilissima situazione di finanza locale, dall’altro i progetti nascenti nelle città italiane nel loro complesso garantiscano un livello minimo di interoperabilità, standardizzazione e replicabilità delle soluzioni proposte.

Di tale seconda azione trasversale si tratterà nella seconda parte del contributo.

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