La notizia della conferenza internazionale di Parigi sul cambiamento climatico, nelle settimane precedenti, è passata in gran parte sotto silenzio, con qualche raro articolo sui media e un’attenzione più che altro limitata agli interessati ai temi ambientalisti.
Silenzio pressoché totale, invece, sul fronte di coloro che si occupano di digitale e smart city, con pochissime eccezioni. Di una sono stato testimone attivo: la giornata di studio sulle smart city organizzata nell’ambito del Premio Sapio, grazie all’intervento di Luca Mercalli.
Le conseguenze da evitare
Nella conferenza ONU sul cambiamento climatico aperta il 30 novembre e che durerà fino all’11 dicembre, la comunità internazionale deciderà quali interventi si impegna a mettere in campo per limitare il disastro climatico che è già in atto. L’alternativa è tra l’intervento organico e immediato, che consentirà di limitare l’aumento della temperatura a 2° entro il 2100, oppure la progressione in continuità, che porterà l’aumento a 5°. La differenza si concretizza nella previsione dell’innalzamento del livello dei mari, che nel primo caso sarà limitato a 50 centimetri e nel secondo supererà il metro.
Come evidenziato anche da diverse simulazioni, la seconda ipotesi porterebbe, ad esempio, alla riduzione del territorio italiano e alla scomparsa di paesi come il Bangladesh. Il futuro del mondo, non solo dal punto di vista ambientale, ma anche politico, la “speranza di pace”, dipende in gran parte da cosa si deciderà nei prossimi giorni.
Non è catastrofismo. Il cambiamento climatico già oggi determina in modo rilevante la dinamica geopolitica: la crisi siriana, ad esempio, trova molte delle sue cause nella carestia che negli anni scorsi ha portato ad una forte migrazione dalle campagne alle città e al malessere della popolazione sempre più crescente e sempre meno controllabile, fucina di scontri e certamente contesto favorevole per lo sviluppo di movimenti terroristi.
Quale modello per le smart city
Se questo è il contesto per il tema della sostenibilità ambientale, ecco che le politiche in ambito di “smart territories”, “smart city”, “smart land”, non possono che prevedere un cambio di modello, una netta rottura di continuità, nella logica della rivisitazione profonda del modello di organizzazione della nostra vita sociale ed economica. Un cambio, necessario, che però non è contemplato nelle attuali politiche nazionali sul tema.
L’esempio che credo chiarisca meglio la differenza, e che in qualche modo può costituire anche la metafora del modello di “smartness” territoriale, è l’approccio al tema della mobilità.
Le esperienze più avanzate sulla mobilità intelligente, in Italia, si focalizzano su due fronti:
- la mobilità informata, e quindi la possibilità che la maggior parte delle informazioni sullo stato della mobilità pubblica e privata siano disponibili ai cittadini, in grado così di operare scelte migliori sul mezzo e sul percorso da utilizzare per spostarsi, oltre che naturalmente agli stessi operatori dei trasporti;
- i sistemi di supporto all’intermodalità, in termini, ad esempio, di sistemi intelligenti di pagamento, di car/bike/scooter sharing, di potenziamento del trasporto pubblico non inquinante, di ottimizzazione delle capacità di parcheggio.
Sono tutti interventi che tendono a rendere più efficiente la mobilità, con un risparmio di tempo e una riduzione rilevante dell’energia necessaria, oltre che una riduzione delle emissioni inquinanti in città. Interventi che hanno un impatto “a valle” delle scelte di organizzazione urbanistica e lavorativa, e che non intaccano il modello corrente.
Interventi per questa ragione utili, necessari, ma non sufficienti. Basta guardare, ad esempio, lo stato delle nostre tangenziali per concludere che la soluzione del problema è da ricercare altrove, a monte.
Cambio di paradigma: la demobilizzazione
Per questo è necessario cambiare paradigma, verso la demobilizzazione, affrontando il tema della mobilità sulla base del principio che bisogna creare le condizioni perché la mobilità non sia più una necessità quotidiana, ma in gran parte una scelta. Mitchell, visionario architetto del MIT, che coniò il termine “e-topia” per trattare il tema della riformulazione della città e dell’urbanistica in generale, sulla base della creazione di ambienti virtuali di interazione e di connessioni elettroniche tra edifici e spazi urbani, definì la demobilizzazione come uno dei principi della sua “Città dei bit”. Secondo una visione organica di quel che dovevano diventare le città “grazie ai bit”: non tanto e non solo città digitali, ma luoghi (topos) dove la vita diventava più semplice e attraente, qualitativamente più elevata. La demobilizzazione, cioè un contesto in cui la rete, le tecnologie consentono di ripensare l’utilizzo degli spazi e quindi anche le necessità di spostamento, con aree multifunzionali presenti nelle case, nei quartieri, utili per il lavoro e per la vita sociale, in grado di rendere la mobilità una scelta per visitare gli spazi fisici esterni.
L’attuazione del principio della demobilizzazione è possibile soltanto attraverso un ripensamento globale che si articola su più aspetti, tutti basati su una più elevata e diffusa consapevolezza, tra cui:
- la riorganizzazione del lavoro e della produzione, verso una diffusione prevalente delle modalità di smart working, cioè del lavoro realizzato senza obblighi di orario e luogo ma svolto nelle sedi più adeguate per chi svolge le attività;
- la rigenerazione urbana, con la riqualificazione dei quartieri, degli edifici e la previsione di capillari spazi sociali di innovazione, in cui trovano terreno fertile creatività, partecipazione, coworking, produzione diffusa.
Al contrario della mobilità intelligente, la demobilizzazione implica, pertanto, la necessità di abbracciare una visione del territorio e della città chiaramente in discontinuità con l’attuale modello e organicamente incompatibile con una visione “tecnologica” della città intelligente, dove si può pensare che la realizzazione del modello complessivo passi attraverso l’implementazione graduale di diversi sottosistemi-aree (mobilità, energia, …).
Le politiche sulle smart city
Il problema, se vogliamo, è che però questa è l’idea predominante nel nostro Paese (e non solo), e questo è chiaramente mostrato dalla gran parte delle esperienze raccolte nella piattaforma Smart city dell’Osservatorio Anci. Aggravato, anche, dalla sostanziale stagnazione strategica di questo tema in Italia. L’iniziativa sulle Comunità Intelligenti indirizzata dal decreto Crescita 2.0 del 2012, ribadita anche dal Piano Crescita Digitale, infatti, non ha raggiunto i risultati previsti ed è adesso ferma, con problemi di strategia testimoniati dalle dimissioni del presidente del Tavolo Comunità Intelligenti Mario Calderini. E la recente istituzione della task force smart city presso il Mise non cambia la valutazione complessiva, poiché si tratta di una iniziativa che punta dichiaratamente a favorire lo sviluppo di alcuni aspetti del tema. Lo si rileva dal piano di azione a breve descritto dal sottosegretario Vicari: “inizialmente le aree interessate saranno quelle metropolitane. Qui si promuoveranno interventi di efficientamento energetico, facendo leva sui nuovi investimenti in Banda Larga e si lavorerà all’implementazione di servizi e dispositivi smart per un miglioramento della qualità della vita dei cittadini e la creazione di un migliore contesto operativo per le imprese”.
La ripresa di iniziative sistemiche, coraggiose e dirompenti su questo fronte, strategico, è quanto mai urgente.
L’auspicio è che il governo porti alla conferenza sul Cambiamento Climatico una visione di futuro basata, in modo organico, su un nuovo modello di lavoro, di produzione, di urbanistica, di ambiente, di città a misura di bambino, dove la tecnologia è davvero al servizio del miglioramento della qualità della nostra vita, dove la trasformazione digitale significa prima di tutto innovazione e cambio di modello. Avendo in mente il principio della demobilizzazione come metafora. Con la speranza che questa diventi consapevolezza diffusa.