Mi è stato chiesto di formulare alle governance cittadine il mio augurio “digitale” per il 2016. Insomma, sbrigatevi a diventare “smart cities”. Paradossalmente, il mio augurio è che nel 2016 non si parli più di “smart cities” et similia. Basta, non se ne può più.
Mi spiego meglio.
Continuo ad osservare un eccesso di centralismo nell’approccio italiano alle smart cities. Si continua a confondere le linee guida che ogni Ministero vuole dettare per partecipare ai bandi (nazionali o europei) con le politiche che ogni territorio, liberamente, dovrebbe applicare.
Una politica per radicare i fattori abilitanti alla diffusione delle tecnologie digitali, ad esempio la diffusione della connettività, necessita di interventi “forti” da programmare e incentivare da parte del Governo.
Della necessità di queste politiche ne “scrivono tutti” ma, non mi pare di vedano risultati apprezzabili. Ciò dovrebbe fare riflettere coloro che continuano a proporre le ennesime commissioni ministeriali sullo sviluppo delle smart grid e di Internet of Things.
Ciò che invece rende “smart” un’area urbana si verifica – successo o insuccesso – solo su un territorio. Si chiamino smart cities, o “smart country”, la capacità di innovare un territorio fa sempre la differenza.
Basta perdere tempo con proclami o ricette “centralistiche”, peraltro non supportate da finanziamenti, ognuno, sul territorio, corra per rendere più smart la sua città. In altra epoca tutto ciò veniva denominato come “realizzazione di un buon programma di governo”. Nel tempo, poi, questo programma veniva misurato nel dispiegare tutti i suoi effetti.
Soprattutto, ciò che sostengo è che non è possibile programmare la diffusione del digitale perché essa si dispiega in modo assolutamente “anarchico”. Meglio, la diffusione del digitale avviene per effetto della ricerca e della diffusione dei prodotti lanciati dalle imprese.
Siano Google, Facebook, Apple o Samsung, la diffusione dei prodotti e dei processi figli dell’innovazione digitale avviene perché queste imprese lo hanno deciso e le stesse imprese la “rendono indispensabile” ad ognuno di noi.
Nella programmazione della diffusione del digitale il “fattore umano” di massa è stato fino ad ora inessenziale. Abbiamo prodotto i contenuti per i social network, stiamo disseminando di sensori le nostre città e ogni luogo in cui viviamo, ma non abbiamo programmato un bel nulla.
L’innovazione digitale dispiega poi positivamente i suoi frutti laddove i cittadini sono diventati “smart citizen”, ma ciò avviene a prescindere dalla quantità di innovazione diffusa.
Le tanto conclamate Amsterdam o Berlino, indicate come i prototipi da imitare nella “smart mobility” fondano il loro successo su una radicata cultura della mobilità intelligente consolidatasi tra i cittadini ormai da decenni. Il digitale serve a monitorare i risultati attraverso la generazione di big data, ma la cultura della sostenibilità ambientale si è affermata ben prima.
Il 2016 dovrà essere l’anno degli smart citizen.
Che fare allora?
È necessario che si moltiplichino le attività di alfabetizzazione digitale di tutta la popolazione. Come affermo ormai da tempo l’alfabetizzazione digitale della popolazione è prima di tutto una grande lezione di “consapevolezza” di ciò che, nel bene come nel male, il digitale può offrirci. Ricordiamoci soprattutto che l’alfabetizzazione digitale è “personale” e non di massa. Ciò vale per i singoli cittadini, come per le imprese.
È necessario che si facciano intravedere agli imprenditori e alle Amministrazioni pubbliche tutti i vantaggi che la digitalizzazione dei processi comporta. Particolarmente le pubbliche Amministrazioni dovranno acquisire l’idea che ciò che va digitalizzato non sono i “procedimenti”, quanto piuttosto i “processi”.
Questi processi andranno digitalizzati con gli occhi dei “city user”. La digitalizzazione della P.A, avverrà con successo a condizione che si crei un circuito virtuoso fatto di domanda e di offerta. È necessario che tutti coloro, e non sono pochi, che in Italia si occupano di digitale facciano un duplice sforzo.
Da un lato la smettano di fare gare insulse su chi è più “digitale” del reame, dall’altro evitino di fare i sacerdoti di una religione.
Il digitale è una opportunità da diffondere, niente altro.
Ciò che è indispensabile è che invece, con grande umiltà, si impari a condividere le nostre esperienze, anche quelle negative. Abbiamo un grande bisogno di esempi da copiare. È necessario che il nostro Paese si doti di una politica industriale per la diffusione del digitale, ma questo spetterebbe al Governo.
Onestamente, fino ad ora, non ho visto traccia di una politica industriale per la diffusione del digitale. La fattura elettronica e SPID non sono una politica industriale.
Detto questo, buon anno a tutti voi, che il 2016 sia l’anno degli smart citizen.
Se poi volete approfondire le mie idee leggetevi il mio ultimo libro, rigorosamente solo on line, “Smart Citizen, Istituzioni e Politica. Dal potere dello zapping al diritto all’interlocuzione”.
In epoca di sharing non potevo che regalarlo.