L’articolo 20 della legge “sull’Agenda Digitale” (n.221 del 17 dicembre 2012), relativo alle “comunità intelligenti” non ha un impatto diretto sulla vita di noi cittadini, ma prevede delle azioni che lo dovranno avere. Il rischio che nulla accada o che non accada quanto in molti si aspettano (e il legislatore probabilmente pensava) non è però basso né trascurabile.
Sono diverse le ragioni per cui questo può succedere, e attengono:
a) alla chiarezza sull’oggetto della norma (le comunità intelligenti);
b) alla logica di azione (tutto dovrebbe discendere dalla stesura di un “piano nazionale delle comunità intelligenti”);
c) al sistema di governance (dove l’Agenzia per l’Italia Digitale ha un ruolo fondamentale di indirizzo e monitoraggio del “piano nazionale”, insieme ad un “comitato nazionale”).
Cosa sono le Comunità Intelligenti
Le comunità intelligenti sono verosimilmente per il legislatore una traduzione di “smart community”, ma l’introduzione del neologismo non è accompagnato da una definizione.
Non nella legge. Si trova un riferimento nel Bando Smart City pubblicato dal Miur (Decreto Direttoriale 5 luglio 2012 n. 391/Ric.): “La Smart Community, quale riferimento per l’individuazione delle aree di ricerca e delle traiettorie di sviluppo, va intesa in senso ampio rispetto alla definizione di agglomerato urbano di grande e media dimensione, e si riferisce al concetto di città diffusa e di comunità intelligente (anche attraverso l’aggregazione di piccoli comuni ovvero sistemi metropolitani) nelle quali sono affrontate congiuntamente tematiche riferibili alle sfide sociali emergenti” cioè “tematiche socio ambientali, quali mobilità, sicurezza, educazione, risparmio energetico o ambientale”.
Nella pubblicazione dell’ex-DigitPA “Architetture per le comunità intelligenti” si definisce una equivalenza tra i concetti di smart city e smart community, e di conseguenza tra smart city e comunità intelligenti. Le comunità intelligenti sono così considerate come “luoghi o contesti territoriali”. Ma una comunità può essere un luogo e non un insieme di persone?
La questione della definizione è di importanza fondamentale, perché le prescrizioni normative (dallo “statuto delle comunità intelligenti” al “piano nazionale delle comunità intelligenti”) partono dal presupposto che queste comunità siano chiaramente identificabili.
Tra l’altro, la conseguenza immediata di associare il concetto di comunità intelligente a quello di “tematiche affrontate congiuntamente” è che l’identificazione stessa di una comunità possa cambiare a seconda della prospettiva tematica rispetto alla quale viene considerata. E andando oltre, si può identificare questo modello di analisi come quello attraverso cui definire, per ciascun territorio, la governance utile, e i livelli di amministrazione opportuni (area municipale, area vasta territoriale/provinciale, area regionale), ciascuno identificato rispetto ai sottosistemi che è in grado (o ha necessità) di gestire in autonomia.
Ma se è così, allora è chiaro che le comunità intelligenti non possono che definirsi puntualmente e “dal basso”. Tra gli emendamenti presentati al Senato e respinti, ce n’era uno in cui ci si preoccupava di introdurre una definizione di “comunità intelligente”: per comunità intelligente intendiamo una comunità che opera in presenza e in rete, in grado di dar luogo ad opportunità dirette di partecipazione attiva e di governance per affrontare tutte le tematiche del territorio allo scopo di migliorarne la qualità della vita. Una “comunità” costruita sia come struttura connettiva (aperta, consapevole e finalizzata), sia come struttura adattiva, capace di generare dati e conoscenza e di far evolvere i propri comportamenti. In relazione al territorio, le comunità intelligenti identificano l’ambito in cui si esplicano la capacità di governo e i livelli di aggregazione amministrativa opportuni (area municipale o comunale, sistema metropolitano, area vasta territoriale/provinciale) rispetto alle tematiche gestibili in autonomia.
Comunità intelligenti, non luoghi ma insiemi di persone con esigenze condivise. In più, presentando un legame esplicito tra queste esigenze, tra le tematiche da “affrontare congiuntamente” e le forme di organizzazione e governo.
Non sappiamo se è questa la definizione a cui pensava il legislatore. Credo sia chiara e condivisibile. Certamente, sarebbe utile comunque mettere un punto fermo per evitare ambiguità, confusioni e fraintendimenti. Al più presto.
Il “piano nazionale delle comunità intelligenti” (PNCI)
Il “PNCI” non è meglio specificato nella legge. Può essere un documento strategico sui principi di sviluppo delle “comunità intelligenti”, ma anche un piano dettagliato di attuazione.
Nel primo caso può essere utile per dettare le policy, gli indirizzi a cui ispirare la crescita delle comunità.
Nel secondo caso è un chiaro errore di prospettiva, un tentativo senza speranze di assoggettare ad una guida centrale un fenomeno nativamente diffuso e basato sul territorio.
Tra l’altro, è chiaro che spostare il focus da un riferimento fisico e formale (la città) ad uno più fluido e dinamico (la comunità) pone ancora di più l’accento sul fatto che non esiste uno stato di “intelligenza” da raggiungere, e che si deve trattare necessariamente di un percorso di crescita che dinamicamente e continuamente deve preoccuparsi di adeguare esigenze e comportamenti. In questi termini, pensare ad un piano di realizzazione delle comunità intelligenti non ha chiaramente alcun senso. Però, anche qui, è importante chiarirlo.
Il sistema di governance
Poiché lo sviluppo delle comunità intelligenti è chiaramente un fenomeno complesso che non può essere ristretto alla sola digitalizzazione, il sistema di governance non può che essere finalizzato a far sì che lo sviluppo avvenga in modo coordinato. Non a dirigere lo sviluppo. Non si tratta di applicare standard e tecnologie, ma di favorire una crescita del Paese a partire dalla ricchezza delle sue comunità.
In questo senso sembrano poco adeguate le scelte operate: un’Agenzia che non ha solo il compito di favorire l’attuazione delle strategie nazionali, ma che può valutare la qualità dello sviluppo delle comunità e determinarne l’accesso ai finanziamenti; un Comitato di esperti (in cui forse parteciperà un solo esponente di associazioni di cittadini) che definisce, di fatto, il modello a cui le comunità devono attenersi scrivendo lo “Statuto delle Comunità Intelligenti” e le “linee guida” per il loro sviluppo.
È come se, dopo un lavoro visionario sulla necessità di promuovere la crescita dei territori a partire dalle loro esigenze e specificità (è questo il principale valore dell’enfasi sulle “comunità”), il governo uscente avesse affidato la messa in opera a un sistema di governance buono per l’informatizzazione, in cui è bene che tutto sia indirizzato da linee guida e coordinato e monitorato da un ente centrale.
Tutto da rifare?
Credo che il nuovo governo e il nuovo parlamento dovranno rapidamente porre mano a questo capitolo, per configurarlo in modo chiaro partendo dalla risoluzione dei tre punti qui posti all’attenzione.
Molti finanziamenti europei sono previsti sul fronte delle Smart City e senza una strategia-Paese, un sistema di supporto e di coordinamento le amministrazioni rischiano di essere troppo influenzate dai diversi vendor o di intraprendere strade impegnative senza avere fino in fondo le competenze e le risorse per perseguirle. Ci sono oggi alcune (poche) esperienze virtuose, ma in questa situazione è facile che restino isolate e dipendenti dalle capacità dei singoli.
Sarebbe auspicabile che la strategia di sviluppo del territorio diventasse una parte importante della strategia di crescita del Paese, così che il tema delle “comunità intelligenti” non diventi (o non rimanga) ambito di competenza degli esperti in tecnologie digitale.
Certo, bisogna che parlamentari e governo possiedano competenze maggiori di quelle mostrate nelle precedenti e nell’attuale legislatura (di qui l’opportunità di iniziative dalla società civile come quelle della “Carta d’Intenti per l’Innovazione”), e che si comprenda che lo sviluppo delle comunità intelligenti è legato ad un modo diverso di concepire la partecipazione, la creazione di valore, l’innovazione in cui cittadini, imprese, politici, hanno la necessità di collaborare strettamente.
Un tema da riprendere con coraggio e attenzione, per cogliere questa importante opportunità, per non sprecare un’ennesima occasione di cambiamento.