Il recente accordo sulle regole per lo scambio globale di emissioni di carbonio rappresenta davvero una svolta, o finirà solo per portare a greenwashing e spostare i crediti di CO2 da una parte del mondo all’altra senza alcun beneficio per l’atmosfera?
COP26, basta slogan: serve accordo su come raggiungere gli obiettivi
L’accordo
Dopo cinque anni di deliberazioni infruttuose da quando l’accordo di Parigi ha stabilito il quadro per un nuovo mercato in cui gli Stati e gli enti privati possono generare e scambiare crediti di compensazione delle emissioni di carbonio, alla recente COP26, la conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, si è ha finalmente sancito il raggiungimento di un accordo su questo nuovo mercato, che i sostenitori di COP26 individuano come strumento ideale per il raggiungimento di ambiziosi target climatici sia nei paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo.
La COP26 ha reso definitivamente operativo l’accordo di Parigi. Nel 2015 il summit aveva approvato il testo, ma aveva lasciato alcuni dettagli tecnici da definire in seguito, in particolare l’articolo 6, che riguarda la cooperazione internazionale sul clima e include un punto davvero cruciale come la creazione di un mercato globale del carbonio.
La creazione di un mercato globale del carbonio rappresenta ad oggi la punta di diamante dell’azione internazionale contro il cambiamento climatico, dal momento che il raggiungimento di obiettivi di “decarbonizzazione” dell’economia senza incidere sul benessere dei paesi industrializzati si sposa perfettamente con la visione “neoliberista” della lotta ai cambiamenti climatici che continua a prevalere nelle istituzioni e nella comunità internazionale.
I meccanismi di scambio di emissioni
I meccanismi di scambio di emissioni hanno guadagnato popolarità da quando sono stati istituiti nel 1997 nel Protocollo di Kyoto. I cosiddetti emission permits incentivano infatti i partecipanti a trovare modi innovativi per ridurre le loro emissioni di anidride carbonica e offrono la possibilità di scambiare carbonio in eccesso con altri paesi. Più in particolare, al fine di rispettare i vincoli di riduzione delle emissioni di gas serra decisi dal Protocollo di Kyoto i paesi industrializzati impongono un tetto sulle emissioni delle proprie industrie più inquinanti distribuendo un numero limitato di permessi di emissione. La singola impresa che supera i propri limiti di inquinamento deve scegliere se effettuare le modifiche tecniche necessarie a ridurre le sue emissioni oppure se acquistare ulteriori permessi da altre imprese più virtuose (che sono rimaste al di sotto del loro limite). Banale osservare che essendo la scelta operata dall’impresa inquinante dipendente dall’opzione meno costosa, il carbon trading consenta, almeno secondo i suoi fautori, di decarbonizzare l’economia nel modo più efficiente, ossia al minimo costo.
Ma oltre agli emission permits esistono anche i carbon offsets. L’accordo istituito a Kyoto permette ai paesi industrializzati di soddisfare parte dei propri obiettivi di riduzione delle emissioni finanziando progetti di “sviluppo green” nei paesi più arretrati del mondo. Nella maggior parte dei casi si tratta di progetti che promettono una riduzione delle emissioni globali, ad esempio, tramite la protezione di una zona a rischio deforestazione oppure la costruzione di una centrale idroelettrica. Il meccanismo, in linea teorica, è molto semplice: al termine di un processo di verifica il progetto nel Paese in via di sviluppo riceve un certo numero di crediti chiamati Certified Emission Reductions (CERs) che possono essere acquistati da operatori pubblici e privati occidentali per compensare un eccesso sui vincoli di emissione cui sono soggetti. Condizione essenziale di ogni progetto di offsetting è rappresentato dalla addizionalità, ossia il fatto che il progetto medesimo non sarebbe stato realizzato in assenza del meccanismo. Per completezza va segnalato che, oltre a tale mercato dei cers, che è regolato dalle Nazioni Unite, esiste anche un mercato “libero” di carbon offsets, il Voluntary Carbon Market (VCM), dove imprese, organizzazioni e singoli individui possono comprare crediti per ridurre spontaneamente la propria produzione di carbonio.
Il sistema di scambio di quote di emissione non rappresenta una novità, dunque, esistendo da molti anni; Tesla, ad esempio, ha utilizzato la vendita di crediti verdi per compensare le emissioni di carbonio prodotte da altre case automobilistiche, tra cui l’ex Fiat Chrysler (ora Stellantis), General Motors e Honda, realizzando un fatturato di 1,58 miliardi di dollari nel solo 2020.
Va notato che l’articolo 6 dell’Accordo di Parigi si fonda essenzialmente su di un sistema di cooperazione internazionale, sia tra i singoli Paesi sia sotto la guida delle Nazioni Unite, per realizzare progetti di assorbimento accelerato delle emissioni, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo. Questo sistema di cooperazione internazionale è stato al centro dei negoziati specifici della COP26. In particolare, nell’ambito della COP26, sono state adottate tre importanti decisioni, in attuazione dell’articolo 6, paragrafi 2, 4 e 8 dell’Accordo di Parigi, che contemplano tre diversi meccanismi di scambio del credito.
Mentre il primo meccanismo prevede un sistema internazionale e bilaterale di scambio di crediti, denominati ITMO (“Internationally transferred mitigation outcomes”), con il secondo si crea un nuovo mercato internazionale del carbonio, governato da un organismo delle Nazioni Unite, per lo scambio di riduzioni di emissioni create ovunque nel mondo, tanto dal settore pubblico quanto da quello privato. Questo nuovo mercato è denominato “Meccanismo di sviluppo sostenibile” (SDM) e sostituisce il “Clean Development Mechanism” (CDM) istituito dal Protocollo di Kyoto.
Il terzo meccanismo, allo stato ancora a livello di roadmap, riguarda invece i cosiddetti “approcci non di mercato”, e si propone di favorire la cooperazione climatica tra i Paesi in contesti non commerciali, come ad esempio quelli degli aiuti allo sviluppo.
Il nodo dei vecchi crediti
Un punto spinoso oggetto delle negoziazioni intercorse a livello di COP 26 ha riguardato l’utilizzo, nel nuovo sistema di scambio, dei crediti generati secondo le vecchie regole del CDM del protocollo di Kyoto.
Per raggiungere un accordo tra i partecipanti, si è data la possibilità ad alcuni paesi in via di sviluppo di continuare a utilizzare un certo numero di vecchi crediti di riduzione delle emissioni, generati in base alle regole del meccanismo di sviluppo pulito del CDMdel Protocollo di Kyoto, unanimemente e ampiamente considerato di qualità molto bassa (ad es. perché comportante una riduzione minima o nulla delle emissioni di CO2). Le resistenze palesate da alcuni stati partecipanti a COP 26 hanno prodotto il risultato di far sì che l’accordo concernente l’utilizzo dei vecchi crediti CDM sia stato limitato a quelli generati dopo il 2013, anche se il compromesso raggiunto non ha comunque impedito alle ONG tedesche di dichiararsi profondamente deluse
Lo scoglio principale per disegnare il nuovo mercato globale del carbonio è rappresentato dal nodo del doppio conteggio, che ha a che fare con le regole con cui i paesi possono far valere i crediti – e quindi le riduzioni delle emissioni, in forma di offset – nel bilancio dei loro contributi nazionali volontari (NDC).
Il regolamento di Glasgow sull’articolo 6 chiarisce che i paesi in cui viene generato un credito di compensazione per le emissioni di CO2 devono eliminare tale riduzione dal loro bilancio complessivo di emissione (adeguamento corrispondente) se un altro paese lo utilizza raggiunge il proprio NDC.
Le possibili scappatoie
Ma definire il numero di CERs prodotti da un progetto di carbon offsetting richiede la formulazione di un’ipotesi sulle emissioni che si sarebbero verificate in sua assenza, e ciò implica la necessità di assumere determinazioni necessariamente arbitrarie. Inoltre, valutare l’addizionalità di un progetto non è affatto semplice, come anche controllare che il taglio delle emissioni sia permanente (che non ci siano “perdite” di carbonio), ed è difficile, forse impossibile, appurare che una pratica inquinante evitata in un luogo non sia semplicemente localizzata altrove. È ormai risaputo che alcuni progetti del CDM siano stati valutati in passato in modo troppo generoso, con la conseguente creazione di un fenomeno di “falsa” compensazione degli eccessi di emissione dei paesi industrializzati.
Considerazioni di questo tipo hanno indotto molti osservatori a ritenere che le regole contengano importanti scappatoie che potrebbero far sembrare che le nazioni stiano facendo più progressi sulle emissioni di quanto non sia realmente. Altri avvertono che gli accordi raggiunti a livello di COP 26 possono accelerare la creazione di crediti di carbonio all’interno di mercati separati, che sono spesso criticati anche per i loro dubbi benefici climatici.
Infatti, oltre al CDM, regolato come si è detto dalle Nazioni Unite, esiste infatti anche un mercato libero di crediti di carbonio, detto Voluntary Carbon Market (VCM), che ha dimensione globale e opera su base volontaria (non prevede dunque soglie o tetti di quote di emissione).
Gli sviluppatori di progetti offset sono stati inoltre a lungo in grado di generare e vendere crediti di carbonio attraverso programmi volontari, come quelli gestiti da registri come Verra o Gold Standard. Le compagnie petrolifere e del gas, le compagnie aeree e i giganti della tecnologia stanno comprando un numero crescente di compensazioni attraverso questo tipo di programmi, nel tentativo di raggiungere obiettivi di emissioni nette pari a zero.
Questo significa che uno sviluppatore di un progetto, ad esempio, in Brasile potrebbero lucrare vendendo crediti di carbonio in uno dei mercati volontari esistenti, mentre il Brasile quale nazione nel cui territorio il progetto si sviluppa potrebbe ancora utilizzare i medesimi crediti di emissione ai sensi degli accordi di Parigi. In altre parole, si potrebbe realizzare un doppio conteggio tra una società ed una nazione, visto che entrambi potrebbero dichiarare, ai sensi di normative diverse, che i medesimi crediti abbiano contestualmente contribuito ad abbassare le rispettive loro emissioni.
Più in generale, ciò che preoccupa maggiormente è che la complessità tecnica che caratterizza i mercati del carbonio riesce spesso ad occultare quanto poco si stia facendo a livello internazionale per contrastare il cambiamento climatico. In senso più generale, la visione “neoliberista” della lotta ai cambiamenti climatici che continua a prevalere nelle istituzioni e nella comunità internazionale a cui si accennava in premessa, porta a ritenere che il carbon trading si traduca nell’impossibilità di conciliare un sistema economico votato alla continua accumulazione del profitto con un sistema quale il nostro pianeta dotato di risorse naturali finite. In altri termini, si ha l’impressione che la strategia adottata dalle grandi imprese nei confronti della causa ambientalista consista nella formazione di “alleanze” con i governi e le organizzazioni ambientaliste, con l’obiettivo neppure troppo nascosto di neutralizzare gli aspetti più rivoluzionari del messaggio green.
Viene dunque da domandarsi se una regolamentazione diretta delle emissioni e una tassazione severa e rigorosa delle imprese più inquinanti non possano per una volta rappresentare la vera svolta per adottare quelle scelte di cambiamento climatico che le attuali condizioni del nostro pianeta inesorabilmente ci impongono.