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COP 28: avanti incerti nella battaglia sul clima



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COP 28 si conclude lasciando un sentore di progresso, ma anche contraddizioni significative. L’industria della finanza e le big oil rivestono ruoli cruciali in questo scenario e per il futuro della lotta ai cambiamenti climatici. Il punto sugli impatti politici ed elettorali della transizione energetica e sul futuro che ci attende dopo il COP 28

Pubblicato il 12 dic 2023

Umberto Bertelè

professore emerito di Strategia e chairman degli Osservatori Digital Innovation Politecnico di Milano



Cop28 a Dubai: il bilancio finale

È dal COP 21 di Parigi, che nel 2015 vide 195 Paesi sottoscrivere l’accordo sulla lotta al riscaldamento globale, che la conferenza delle parti (“conference of the parties”) della convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici rappresenta l’occasione annuale per fare un bilancio sullo stato di avanzamento di quello che senza dubbio alcuno rappresenta il più grande progetto nella storia dell’umanità: per il numero di Paesi e di persone coinvolte, per le cifre messe in gioco (in continua ridefinizione al rialzo), per la proiezione temporale (ancora 27 anni per arrivare al net zero nel 2050, 10 in più per la Cina e 20 in più per l’India).

COP 28: tra progressi e contraddizioni

È un bilancio che appare pieno di contraddizioni, quello di quest’anno, con l’unica certezza che gli interessi che il progetto ha messo in moto, allineati a un estremo e anche in feroce contrasto fra loro all’altro, sono tantissimi e in continua crescita. Come ben testimoniato dalle oltre 100mila persone – negoziatori dei diversi Paesi, lobbisti e attivisti nella narrazione di Bloomberg Green – giunte in questi giorni a Dubai per il COP 28, ben tre volte quelle che parteciparono due anni fa al COP 26 di Glasgow.

Come simbolicamente testimoniato dal fatto che le maggiori reazioni al discorso del CEO di ExxonMobil, a favore del mantenimento in vita dei combustibili fossili, non sono pervenute dagli attivisti ma dai rappresentanti delle imprese – quali in primo luogo quelle operanti nella produzione di energia eolica e solare e nelle filiere a monte – che traggono non solo i maggiori benefici, ma la stessa ragione della loro esistenza, dalla rivoluzione verde.

In questo mio articolo ho scelto di riportare, senza nessuna pretesa di organicità, fatti e dati – come detto contradditori – che più mi hanno colpito negli ultimi mesi: alcuni pienamente in linea con lo spirito di Parigi, altri contrari a esso o comunque tendenti (anche se non sempre deliberatamente) a rallentarne l’attuazione.

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Il ritorno delle big oil e il destino dei combustibili fossili

Il ritorno in forza delle big oil e dei Paesi grandi produttori e l’aspro dibattito sul destino futuro dei combustibili fossili (phase out o phase down?). Appare simbolico il fatto che sia un Paese grande produttore come gli Emirati Arabi Uniti (UAE), che per giunta ha recentemente annunciato un sostanziale aumento per il 2027 della sua produzione, ad ospitare il COP 28 e che sia il CEO della società di Stato che gestisce la produzione stessa a presiedere la conferenza, nonché ad assumere pubblicamente una posizione quasi negazionista. Ma questo è l’effetto dell’attacco russo all’Ucraina e delle successive sanzioni, che hanno fatto tornare orgogliosamente alla ribalta – insieme con la crescita dei prezzi di petrolio e gas naturale e della percezione del ruolo fondamentale che essi continueranno ad avere per l’economia mondiale sino a quando non potranno essere sostituiti con energie rinnovabili – imprese e Paesi che sembravano relegati al ruolo di pariah sociali.

La Tab. 1 mostra come le big oil – i dati a disposizione in formato standard e comparabili fra loro sono relativi alle sole imprese quotate e quindi con poche eccezioni (tra cui quella fondamentale di Saudi Aramco) a imprese facenti capo ai Paesi più sviluppati – siano tornate a occupare le prime posizioni nella classifica globale per consistenza degli utili.

Anche la presenza fisica a Dubai di rappresentanti delle big oil è impressionante (ben 2456 hanno l’accesso ufficiale a COP 28 secondo le stime riportate da Bloomberg Green), con i loro CEO inseriti nelle delegazioni nazionali: quello di Exxon Mobil, curiosamente, nella delegazione UAE.

Combustibili fossili: phased out o phased down?

Una presenza volta a esercitare pressioni, in forme varie, su una dichiarazione di elevato valore simbolico che la Conferenza dovrebbe ufficialmente assumere: se i combustibili fossili (carbone, petrolio, gas) dovranno essere in prospettiva phased out, come vorrebbero molti Paesi e ovviamente i movimenti attivisti, o meno impegnativamente – come propone anche il presidente emiratino di COP 28 – phased down.

O se addirittura non si dovrebbe parlare dei combustibili fossili nel comunicato finale, come richiede l’Arabia Saudita e come sempre fatto nel passato pur di arrivare a decisioni largamente condivise (unica eccezione quella riguardante il carbone approvata nel COP 26 di Glasgow due anni fa).

L’impegno finanziario per le rinnovabili e per sostenere i paesi più poveri

L’impegno a un grandioso investimento nelle rinnovabili nel corso del decennio e al finanziamento di un fondo Loss and Damage per aiutare i Paesi più poveri a riprendersi dai crescenti disastri ambientali.

Il secondo impegno, quello di finanziare un fondo Loss and Damage, è stato in realtà già conseguito all’inizio della Conferenza, anche se troppo spesso nel passato le promesse dei Paesi ricchi a sostenere i poveri sono state onorate in misura molto ridotta.

Con un problema di fondo che condiziona la forma in cui tali finanziamenti vengono approvati ed erogati, ovvero la non accettazione da parte dei Paesi sviluppati – che ovviamente sono quelli che più hanno contribuito alla formazione di quello stock di gas-serra a lento decadimento (80 anni per la CO2, molto meno per il metano che però ha un impatto a breve molto più rilevante) ora presente nell’atmosfera – di assumersi responsabilità per i disastri ambientali attuali (nell’impossibilità di una chiara attribuzione delle responsabilità stesse per episodi calamitosi già verificatisi nel passato): nel timore anche che questo comporti richieste di danni sempre più elevate nel futuro, a livello internazionale ma anche a livello interno (negli US ad esempio sono già molto numerose le cause intentate da amministrazioni locali alle big oil, con richieste quali quella di rimborsare i costi che esse devono o dovranno affrontare a fronte dell’innalzamento del livello del mare conseguente al riscaldamento globale).

Triplicare la capacità globale delle rinnovabili entro il 2030

Sul primo punto l’obiettivo della presidenza e degli organizzatori di COP 28 è che si arrivi all’impegno collettivo – sicuramente non piccolo – di triplicare la capacità globale delle rinnovabili nei pochi anni che ci separano dal 2030. E parallelamente che si lavori sia sul potenziamento delle reti, senza il quale il già difficilissimo obiettivo non sarebbe nemmeno proponibile, sia sul raddoppio dell’efficienza energetica. Con una spesa che il Financial Times, in un suo articolo, stima dell’ordine dei 5 trilioni di $ all’anno.

Il ruolo della finanza nella transizione energetica

Cresce nei Paesi più sviluppati la sensibilità ambientale, ma cresce anche la percezione del costo della transizione ambientale: con rilevanti impatti sulla finanza e sulle scelte elettorali. La transizione ambientale, con gli obiettivi sempre più grandiosi (quali quelli appena visti sull’espansione delle rinnovabili) che essa si pone, richiede – nei Paesi ad economia di mercato – un forte impegno delle imprese private in sinergia con le istituzioni pubbliche.

Ma l’entusiasmo del mercato finanziario sulle prospettive delle imprese operanti in tale transizione sembra essersi trasformato al momento in disillusione: sotto la probabile spinta del rialzo dei tassi di interesse, che porta il mercato stesso a privilegiare la redditività rispetto alle potenzialità di crescita; sotto la pressione della concorrenza della Cina, che da molti anni ha intelligentemente investito (muovendosi anche sul piano geopolitico) sul controllo delle materie prime indispensabili per la produzione – ai livelli più avanzati – di pannelli solari, pale eoliche e batterie.

Immagine che contiene testo, Carattere, Diagramma, lineaDescrizione generata automaticamenteFig. 1

La Fig. 1, relativa alle Borse statunitensi, mostra il crollo degli indici delle imprese operanti nella clean energy, tra il 2001 ed oggi, a fronte di una crescita significativa dello S&P 500, il notissimo indice relativo alle 500 imprese statunitensi considerate rappresentative dell’intera economia del Paese: crescita dovuta soprattutto alle big tech, o meglio – aggiungendo Nvidia e Tesla alle big five (Apple, Microsoft, Alphabet-Google, Amazon e Meta) – alle cosiddette magnificent seven (collocate nei primi due posti e in sette dei primi nove per capitalizzazione a livello mondiale).

Il tema “Cina”

Il tema “Cina” è posto in particolare evidenza nella Fig. 2, che mostra come le cadute non siano solo avvenute nelle valutazioni delle Borse, ma anche – con riferimento alle tre principali imprese europee impegnate nella produzione di pale eoliche – nella realtà. E come la concorrenza cinese, favorita dal controllo delle materie prime critiche e dalle politiche statali di incentivazione, sia cresciuta a livelli tali da spingere l’UE (nelle stesse parole di Ursula von der Leyen) a ipotizzare l’innalzamento delle tariffe doganali per evitare il crollo dell’offerta europea in una fase storica in cui la domanda è in continua crescita. Con il comprensibile timore però, espresso anche da funzionari della Commissione, di ritorsioni cinesi.

Fig. 2

Il crollo dell’interesse verso i fondi ESG

La Fig. 3 guarda a un altro aspetto di grande rilievo: la dinamica di crescita – o decrescita – dei fondi cosiddetti ESG- Environment Society Governance, destinati in larga misura a premiare le imprese ambientalmente più impegnate. La figura mostra il crollo dell’interesse degli investitori per tali fondi, anche in Europa dove più elevato era stato il loro successo; mostra come questo crollo, negli US, si sia tradotto non solo in minori sottoscrizioni, ma in prelievi netti. Le possibili cause sono di varia natura, e ad alcune di esse si è già fatto cenno. Negli US hanno avuto sicuramente un ruolo gli attacchi repubblicani contro la cultura woke, tradottisi addirittura in alcuni stati nella proibizione per legge di acquisizione da parte dei fondi pensionistici pubblici di fondi – quali gli ESG – con un orientamento ideologico considerato potenzialmente lesivo dell’obiettivo di valorizzazione.

Il peso del greenwashing

Negli US come in Europa hanno pesato le accuse (peraltro molto spesso fondate) di greenwashing verso molti dei fondi ESG stessi, accuse che stanno spingendo verso una regolamentazione molto più rigida nell’uso delle qualifiche, soprattutto di quelle legate all’ambiente. Ha generato una crescente confusione l’affiancamento dei fattori sociali S a quelli ambientali E.

Ha sicuramente giocato un ruolo importante, nel penalizzare i nuovi afflussi di sottoscrizioni o nel favorire i deflussi netti, la caduta dell’idea che i fondi ESG potessero permettere ai sottoscrittori di godere di elevati rendimenti mentre “facevano il bene dell’umanità”: una idea che all’inizio aveva avuto riscontri reali, spesso perché i fondi ESG investivano larghe quote nelle big tech, più attente (almeno formalmente) alle tematiche ambientali della maggior parte di imprese operanti negli altri comparti dell’economia.

Fig.3

Il ruolo delle banche

In un discorso sulla finanza non si può non parlare delle banche: cui è stato ed è spesso rimproverato un eccesso di attenzione verso la big oil e più specificamente verso i loro investimenti in ricerca di nuovi giacimenti. Investimenti contrari allo “spirito di Parigi” di bloccarli, e nel tempo di contrarre (phase down) sino a ridurre drasticamente (phase out) l’estrazione di combustibili fossili dai giacimenti già operativi. A questa fase di condanna di natura più ideologica ne sta subentrando un’altra, centrata invece sui rischi che una banca può correre se destina una quota troppo alta di risorse alle imprese operanti nei combustibili fossili, nel presupposto ovviamente che il phase down/out abbia successo. Ed è basata sulla necessità di offrire al mercato finanziario un quadro più completo dei rischi la spinta (principalmente negli US, UE e UK) verso una regolamentazione/ autoregolamentazione che aumenti il livello di trasparenza delle banche in materia.

Impatti politici ed elettorali della transizione energetica

Ai problemi sul fronte delle imprese e della finanza si devono aggiungere quelli riguardanti i comportamenti delle persone, non solo e non tanto come investitori, ma – nei Paesi con regimi democratici – come elettori. In questo ambito la crescente percezione che la transizione energetico-ambientale non si autoripagherà, ma comporterà costi e/o cambiamenti nelle abitudini molti elevati (dall’obbligo di cambiare le auto alle spese per le pompe di calore o per i cappotti termici delle case), potrà tradursi in malcontenti rilevanti e in pesanti punizioni per i governi e partiti che gestiscono la transizione stessa: come accaduto recentemente in Germania, nelle elezioni regionali di Baviera e Assia, e in Olanda; come potrebbe accadere nelle prossime elezioni del Parlamento UE e nelle prossime elezioni presidenziali negli US. “No One Wants to Pay for the Green Transition”, come ha scritto recentemente The Wall Street Journal.

Immagine che contiene testo, schermata, diagramma, DiagrammaDescrizione generata automaticamenteFig. 4

I progressi (lenti ma concreti) nella lotta ai cambiamenti climatici

Qualche considerazione finale. Il COP, come ho detto all’inizio, rappresenta sempre l’occasione per un bilancio, retrospettivo e prospettico, su cosa si è fatto negli 8 anni susseguenti all’accordo sottoscritto a Parigi nel 2015 e su cosa si deve fare per arrivare al net-zero – come concordato – nel 2050.

The Economist, in un suo articolo di poco precedente al lancio del COP 28, consiglia di valorizzare quanto si è fatto (e trarne i dovuti insegnamenti) piuttosto che lamentarsi per la lentezza con cui ci si è mossi: “Progress on climate change has been too slow. But it’s been real – And the world needs to learn from it”.

Anche Martin Wolf, nel suo articolo su FT più o meno degli stessi giorni “The good and bad news on climate change – As renewables become competitive on cost, it is policymakers who are the biggest brake on the energy transition”, presenta un quadro agrodolce. Mostra (Fig. 4) da un lato gli effetti benefici del piano concordato a Parigi – in termini di minori emissioni rispetto alle aspettative precedenti l’accordo di Parigi – ma dall’altro la notevole distanza da colmare per rispettare quanto previsto dal piano per il 2030.

Mostra soddisfazione per la riduzione dei costi delle rinnovabili (anche se questo come detto rischia di distruggere le imprese europee operanti nel comparto), ma esprime timori sui futuri comportamenti di chi prenderà le decisioni a livello politico (forse pensando a una nuova presidenza Trump). Non mi sembra invece preoccupato sull’accoglienza che la gente riserverà alle politiche ambientali, tema di cui mi sono ampiamente occupato in precedenza.

Conclusioni

Difficilmente il testo finale della Cop 28 sarà un testo rivoluzionario, data l’esigenza di raccogliere su di esso il più largo consenso, ma vedremo se ci riserverà qualche sorpresa: sul tema ad esempio che ho appena sfiorato della riduzione di emissioni di metano, su cui sembra che ci sia un accordo di massima fra US e Cina, ma che potrebbe scontrarsi con gli interessi dei principali emettitori, il mondo oil & gas e quello degli allevamenti zootecnici. Non esistono misure facili, è una certezza, o sarebbero già state adottate.

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